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I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2

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I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2
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CAPITOLO XII

L'avarizia della zia d'Emilia cedè finalmente alla sua vanità. Qualche splendido pranzo dato dalla Clairval, e l'adulazione generale ond'essa era l'oggetto, aumentarono la premura della Cheron per assicurare una parentela che l'avrebbe tanto illustrata a' propri occhi ed a quelli del mondo. Propose il prossimo matrimonio di Emilia, ed offrì di assicurarne la dote, purchè la Clairval facesse altrettanto pel nipote. Questa ponderò la proposta, e considerando ch'Emilia era la più prossima erede della Cheron, l'accettò senza difficoltà. Emilia ignorava queste disposizioni, quando la zia l'avvertì di prepararsi alle nozze che dovevano aver luogo senza indugio. La fanciulla, sorpresa, non capiva il motivo di una sì istantanea conclusione, in verun modo sollecitata da Valancourt. Ed infatti, non conoscendo le convenzioni delle due zie, era ben lontano dallo sperare una sì gran felicità. Emilia mostrò qualche opposizione, ma la Cheron, sempre gelosa della sua autorità, insistè per il pronto matrimonio, colla stessa veemenza, con cui ne aveva rigettate in principio le menome apparenze. Tutti gli scrupoli di Emilia svanirono, quando Valancourt, istruito allora della sua felicità, venne a scongiurarla di confermargliene la certezza.

Mentre si facevano i preparativi di queste nozze, Montoni diveniva l'amante dichiarato della Cheron. Ne fu malcontentissima la Clairval quando udì parlare del loro imminente matrimonio, e voleva impedire quello di Valancourt con Emilia; ma la coscienza le rappresentò, che non aveva diritto di punirli dei torti altrui. Sebbene donna del gran mondo, era però meno famigliarizzata della sua amica col metodo di far dipendere la felicità dalla fortuna e dagli omaggi ch'essa attira, anzichè dal proprio cuore.

Emilia osservò con ansietà l'ascendente acquistato da Montoni sulla zia, come pure la maggior frequenza delle sue visite. La sua opinione su questo Italiano era confermata da quella di Valancourt, il quale aveva sempre esternato estrema avversione per lui. Una mattina ch'essa lavorava nel padiglione, godendo della dolce frescura primaverile, Valancourt leggeva vicino a lei, e tratto tratto deponeva il libro per conversare. Fu avvisata che la zia voleva vederla subito; entrò nel suo gabinetto, e paragonò sorpresa l'aria abbattuta della signora Cheron col genere ricercato del di lei abbigliamento.

« Nipote mia… » diss'ella, e si fermò con qualche imbarazzo. « Vi ho fatta cercare… io… io… voleva vedervi. Ho da darvi una notizia… da questo momento voi dovete considerare il signor Montoni come vostro zio; noi ci siamo maritati stamattina. »

Confusa, non tanto del matrimonio, quanto del segreto con cui era stato fatto, dell'agitazione colla quale le venne annunziato, Emilia attribuì siffatto mistero alla volontà di Montoni, piuttostochè a quella di sua zia; ma questa non voleva che si credesse così.

« Voi vedete, » soggiuns'ella, « che ho voluto fuggire la pubblicità; ma ora che la cerimonia è fatta, non m'importa più che si sappia. Vado subito ad annunziare alla mia gente che il signor Montoni è il loro padrone. »

Emilia fece quanto potè per felicitare la zia di un matrimonio così imprudente.

« Voglio celebrare le mie nozze con tutto il fasto, » continuò la signora Montoni, « e per non perder tempo, mi servirò dei preparativi che furono fatti per le vostre, le quali verranno protratte un poco; ma voglio che per far onore alla festa, voi vi abbigliate degli abiti fatti pel vostro matrimonio. Desidero egualmente che facciate noto il mio cambiamento di nome al signor Valancourt, il quale ne informerà la signora Clairval. Fra pochi giorni voglio dare un pranzo magnifico, e conto su di loro. »

Emilia era talmente attonita, che potè appena replicare alla zia, e, a tenore del suo desiderio, tornò nel padiglione ad informar l'amante dell'accaduto. La sorpresa non fu il primo sentimento di Valancourt, sentendo parlare di queste nozze precipitose; ma quando seppe che le sue erano differite, e che gli ornamenti preparati per abbellire l'imeneo della sua Emilia, stavano per esser degradati servendo per la signora Montoni, il dolore e lo sdegno agitarono a vicenda il suo spirito. Non potè dissimularlo alla fanciulla; i di lei sforzi per distrarlo e scherzare su questi timori repentini furono inutili. Quando alla fine si separò da lei, era oppresso da una tenera inquietudine che la colpì vivamente, e pianse senza saper perchè, quando fu giunta all'ingresso del giardino.

Montoni prese possesso del castello colla facilità d'un uomo che da lunga pezza lo riguardava come suo. Il suo amico Cavignì l'aveva singolarmente servito prodigando alla Cheron le attenzioni e le adulazioni ch'essa esigeva, ed alle quali Montoni pareva prestarsi con pena; egli ebbe un appartamento nel castello, e fu obbedito dalla servitù come lo stesso padrone.

Pochi giorni dopo, la signora Montoni, come l'aveva promesso, diede un magnifico pranzo ad una numerosa società. Valancourt v'intervenne, ma la Clairval se ne scusò. Vi fu accademia di musica e festa da ballo. Valancourt, come di ragione, danzò con Emilia; egli non poteva esaminare le decorazioni della festa, senza rammentarsi ch'erano destinate per le sue nozze. Nonostante cercava di consolarsi, pensando che fra poco i suoi voti sarebbero stati esauditi. La signora Montoni ballò, rise e chiaccherò del continuo tutta la sera. Montoni però, taciturno e riservato, sembrava ristucco di quel divertimento, e della frivola società che ne formava l'oggetto.

Fu il primo e l'ultimo banchetto dato in occasione di quelle nozze. Montoni, cui il carattere severo, e il taciturno orgoglio, impedivano d'animare queste feste, era nondimeno dispostissimo a provocarle. Trovava esso ben di rado nelle conversazioni un uomo che potesse rivaleggiar con lui per lo spirito od il talento. Tutto il vantaggio, in questa specie di riunioni, era dunque sempre dalla parte sua. Conoscendo con quale egoismo si frequenta la società, temeva d'esser vinto in simulazione, ovvero in considerazione, dovunque egli si trovava. Ma la signora Cheron, quando trattavasi del proprio interesse, aveva talfiata più discernimento che vanità. Conosceva essa la sua inferiorità alle altre donne in tutte le qualità personali. La gelosia naturale risultante da questa cognizione, ne contrariava dunque l'inclinazione per le riunioni che offriva Tolosa. La sua politica era cambiata; si opponeva con vivacità al gusto del marito per il gran mondo, e non dubitava ch'egli non fosse per essere così ben ricevuto da tutte le donne com'eralo stato allorchè faceva la corte a lei.

Erano scorse poche settimane da questo matrimonio, quando la signora Montoni partecipò ad Emilia il progetto di andare in Italia, tostochè fossero finiti tutti i preparativi pel viaggio.

« Andremo a Venezia, » diss'ella; « Montoni vi possiede un bel palazzo, e quindi passeremo al suo castello in Toscana. Perchè prendete voi un'aria così seria, figliuola? Voi che amate tanto le belle vedute, dovreste essere incantata di questo viaggio.

– Devo forse venire anch'io? » disse Emilia con emozione e sorpresa insieme.

– Sì, certo, » replicò la zia; « come potete supporre che noi vogliamo lasciarvi qui? Ah! vedo che pensate al cavaliere. Io credo che non sappia nulla, ma lo saprà sicuramente quanto prima. Montoni è uscito per darne parte alla signora Clairval, ed annunziarle che i nodi proposti fra le nostre famiglie sono sciolti irremissibilmente. »

L'insensibilità colla quale la Montoni faceva sapere alla nipote che la separavano, forse per sempre, dall'uomo al quale doveva unirsi per tutta la vita, aumentò vie più la disperazione dell'infelice a tal notizia. Quando potè parlare, domandò il motivo di tal cangiamento a riguardo di Valancourt; e l'unica risposta che ne ottenne fu, che Montoni aveva proibito questo matrimonio, attesochè Emilia poteva aspirare a partiti assai più vantaggiosi.

« Io lascio attualmente tutta questa faccenda a mio marito, » soggiunse la Montoni; « ma devo convenire che il signor Valancourt non mi è piaciuto mai, e che non avrei mai dovuto dare il mio consenso. Son debole assai; bene spesso son così buona, che le pene altrui mi rattristano, e la vostra afflizione la vinse sulla mia opinione. Il signor Montoni però mi ha dimostrato con molta chiarezza la follia ch'io faceva, ma non avrà certo a rimproverarmela una seconda volta. Pretendo assolutamente la vostra sommissione a quelli che conoscono meglio di voi i vostri interessi, e ci dovete obbedire in tutto. »

Emilia sarebbe stata sorpresa dalle asserzioni e dall'eloquenza di questo discorso, se tutte le di lei facoltà, annientate dalla scossa ricevuta, le avessero permesso d'intenderne una sola parola. Qualunque fosse la debolezza della signora Montoni, avrebbe potuto risparmiarsi il rimprovero di una eccessiva compassione e d'una prodigiosa sensibilità ai mali altrui, e soprattutto a quelli di Emilia. Quella medesima ambizione che l'aveva indotta a brigare il parentado della Clairval, formava oggi il soggetto della rottura. Il suo matrimonio con Montoni esaltava ai di lei occhi la propria importanza, e conseguentemente cambiava le sue mire per Emilia.

Questa interessante fanciulla era troppo afflitta per far valere le sue ragioni, o scendere a preghiere. Quando finalmente volle far uso di quest'ultimo mezzo, le mancò la parola, e si ritirò nella sua camera per riflettere, se ciò le fosse stato possibile, ad un colpo così inaspettato e tremendo.

Passò gran pezza prima che si fosse riavuta abbastanza da porsi a riflettere; ma il pensiero che le si affacciò fu tristo e terribile. Credè che Montoni volesse disporre di lei pel proprio vantaggio, e pensò che Cavignì fosse la persona per la quale si interessasse. La prospettiva del viaggio d'Italia diveniva ancor più disgustosa, quando considerava la situazione turbolenta di quel paese lacerato dalle guerre civili, in preda a tutte le fazioni, e dove ogni castello si trovava esposto all'invasione del partito avverso. Considerò a qual persona era rimesso il suo destino, ed a qual distanza si sarebbe trovata da Valancourt. A tale idea, svanì qualunque altra immagine, ed il dolore immerse nella confusione tutti i suoi pensieri.

 

Passò qualche ora in questo stato doloroso; quando fu avvertita per il pranzo, volle scusarsene. La Montoni però, ch'era sola, non volle acconsentirvi, e le convenne obbedire. Parlarono pochissimo durante il pranzo. L'una era oppressa dal suo dolore, e l'altra indispettita dell'assenza inaspettata di Montoni. La sua vanità era offesa da siffatta negligenza, e la gelosia l'allarmava principalmente su di ciò ch'ella chiamava un impegno misterioso. Non ostante Emilia si provò a parlar nuovamente di Valancourt, ma la zia, insensibile a pietà ed ai rimorsi, divenne quasi furiosa perchè si permettessero osservazioni sulla di lei autorità e su quella di Montoni; in conseguenza la povera Emilia si ritirò piangendo.

Traversando il vestibolo, udì entrare qualcuno dalla porta grande; le parve di vedere Montoni e raddoppiò il passo; ma riconobbe tosto la voce diletta di Valancourt.

« Emilia, mia cara Emilia! » sclamò egli col tuono dell'impazienza, a misura che si avanzava e che scuopriva le orme della disperazione sul volto di lei. « Emilia, bisogna ch'io vi parli; ho da dirvi mille cose; conducetemi in qualche parte ove possiamo parlare con libertà. Ma! voi tremate, vi sentite male; lasciate ch'io vi conduca ad una sedia. »

Vide una porta aperta, e si provò a condurre Emilia colà; ma essa, ritirando la mano, gli disse sorridendo languidamente:

« Sto già meglio. Se volete parlare con mia zia, è nel salotto.

– Voglio parlare con voi sola, mia cara Emilia, » replicò Valancourt. « Gran Dio! Siete già arrivata a questo punto? Acconsentite voi così facilmente a dimenticarmi? questo luogo non ci conviene, possiamo essere intesi. Non voglio da voi che un solo quarto d'ora di attenzione.

– Sì, quando avrete veduto mia zia, » disse Emilia.

– Io era già infelice, venendo qui, » esclamò Valancourt; « non aumentate il mio affanno con questa freddezza e con questo crudele rifiuto. »

L'energia colla quale pronunciò tali parole, la commosse fino alle lagrime, ma persistè nella negativa d'ascoltarlo fintantochè non avesse veduto la signora Montoni.

« Dov'è suo marito, dov'è egli questo Montoni? » disse Valancourt con voce alterata; « debbo parlar giusto con lui. »

Emilia, spaventata delle conseguenze dello sdegno che sfavillava ne' di lui occhi, l'assicurò con voce tremante che Montoni non era in casa, e lo scongiurò di moderare il risentimento. Agli accenti interrotti della di lei voce, gli sguardi di Valancourt passarono tosto dal furore alla tenerezza.

« Vi sentite male, Emilia, » diss'egli, « e vogliono perderci amendue. Perdonatemi se ho ardito dubitare della vostra tenerezza. »

Emilia non s'oppose più ad accordargli un colloquio nella stanza vicina. La maniera colla quale aveva nominato Montoni, aveale cagionato i più fondati timori sul pericolo cui poteva correre egli stesso; non pensò più se non a prevenire le terribili conseguenze della sua vendetta. Ascoltò egli attento le di lei preghiere, e non vi rispose che con occhiate di disperazione e di tenerezza. Nascose alla meglio il suo risentimento per Montoni, e si sforzò di acchetare i di lei terrori; ma Emilia, poco contenta di quell'apparente tranquillità, si turbò ancor davvantaggio, e procurò di far conoscere a Valancourt l'inconveniente di un alterco con Montoni, lo che avrebbe potuto rendere la loro separazione irrimediabile. Cedè egli alle tenere preghiere, e le promise che, per quanto grande potesse essere l'ostinazione di Montoni, non farebbe mai uso della violenza per conservare i suoi diritti.

Emilia si sforzò di calmarlo coll'assicurazione di un attaccamento inviolabile. Gli fe' osservare che fra un anno circa sarebbe stata maggiorenne, e che per conseguenza allora sarebbe uscita di tutela. Queste assicurazioni però consolavano poco Valancourt: egli considerava che allora essa sarebbe in Italia, ed in balia di coloro il cui potere su di lei non sarebbe cessato tanto facilmente co' loro diritti. Emilia, alquanto calmata dalla promessa ottenuta e dalla tranquillità ch'egli affettava, stava per lasciarlo, quando la zia entrò nella stanza. Gettò essa un'occhiata di rimprovero sulla nipote, che si ritirò subito, e una di malcontento e d'alterigia sull'infelice giovane.

« Non è questa la condotta ch'io mi aspettava da voi, » diss'ella, « o signore; io non credeva di vedervi più in casa mia dopo avervi fatto avvertire che le vostre visite non mi tornavano più gradite. Credeva ancor meno, che voi cercaste di vedere clandestinamente mia nipote, e ch'ella avesse l'imprudenza di acconsentire a ricevervi. »

Valancourt, vedendo esser necessario di giustificare Emilia, protestò che l'unico scopo della sua visita era stato quello di domandare un abboccamento a Montoni, e ne spiegò i motivi colla moderazione che il sesso, più che il carattere di quella donna superba, poteva solo esiger da lui.

Le sue preghiere furono ricevute con asprezza. La zia si lagnò che la sua prudenza avesse ceduto a quant'essa chiamava la sua compassione, aggiungendo infine che conoscendo benissimo la follia della sua prima condiscendenza, e volendo evitare di ricadervi, rimetteva intieramente ed esclusivamente quest'affare al marito.

L'eloquenza sentimentale del giovane le fece alfine comprendere l'indegnità della sua condotta; essa conobbe la vergogna, ma non il rimorso. S'indispettì che Valancourt l'avesse ridotta a quella penosa situazione, ed il suo odio crebbe colla coscienza dei propri torti. L'antipatia ch'egli le ispirava era tanto più forte, in quanto che, senza accusarla, la costringeva a convincersi da sè stessa. Non le lasciava una scusa per la violenza del risentimento col quale lo considerava. Alla perfine, la sua collera divenne così violenta, che Valancourt si decise di uscire al momento, affine di non perdere la propria stima in una risposta poco misurata, e si convinse appieno che non doveva sperare nè pietà, nè giustizia da una persona che sentiva il peso delle male opere, e non l'umiltà del pentimento.

Si era formata l'istessa idea di Montoni, essendo chiaro che il piano della separazione veniva direttamente da lui. Non era probabile ch'egli abbandonasse il suo disegno per preghiere o ragioni che doveva aver prevedute, e contro le quali era preparato. Intanto, fedele alle promesse fatte ad Emilia, più occupato del suo amore, che geloso della propria dignità, Valancourt si guardò bene dall'irritar Montoni senza necessità. Gli scrisse, non per domandargli un abboccamento, ma per sollecitare il suo favore, e ne attese la risposta con qualche tranquillità.

CAPITOLO XIII

La signora Clairval si teneva in disparte da tutto quell'intrigo: quando aveva acconsentito al matrimonio di Valancourt, era nella credenza che Emilia avrebbe ereditato dalla zia. Allorchè il matrimonio di quest'ultima l'ebbe disingannata su tal proposito, la coscienza le impedì di rompere un'unione quasi formata; ma la sua benevolenza non andava al punto da spingerla a fare un passo che avesse a deciderla intieramente. Si felicitava che Valancourt fosse sciolto da un impegno ch'essa credeva tanto al disotto di lui per le sostanze, quanto Montoni giudicava umiliante tal parentado per la bellezza di Emilia. La Clairval poteva stimarsi offesa, che un individuo della sua famiglia fosse stato così congedato; ma non si degnò di esprimerne il suo risentimento in altro modo che col silenzio.

Montoni, nella sua risposta, assicurò Valancourt che un abboccamento, non potendo nè cambiare la risoluzione dell'uno, nè vincere i desiderii dell'altro, non finirebbe che in un diverbio affatto inutile, e che per ciò credeva bene di non accordarglielo.

La moderazione tanto raccomandatagli da Emilia, e le promesse fattele, poterono sole trattenere l'impetuosità di Valancourt, che voleva correre da Montoni a domandar con fermezza quanto veniva ricusato alle sue preghiere. Si limitò dunque a rinnovare le sue istanze, e le appoggiò con tutte le ragioni che poteva somministrare la sua posizione. Passarono alcuni giorni in domande da una parte, e nell'inflessibilità dall'altra. Fosse per timore, o per vergogna, o per l'odio che risultava da questi due sentimenti, Montoni evitava accuratamente colui che aveva tanto offeso; non era nè intenerito dal dolore espresso nelle lettere di Valancourt, nè colpito dal pentimento per le solide ragioni in esse contenute. In fine, le lettere dell'infelice giovine furono respinte senza essere aperte. Nella sua prima disperazione, obliò tutte le promesse eccettuata quella di evitare la violenza, e corse al castello, risoluto di veder Montoni, e porre tutto in opra per riuscirvi. L'Italiano fece dire che non era in casa, ed allorchè Valancourt chiese di parlare alla signora o ad Emilia, gli fu negato positivamente l'ingresso. Non volendo impegnarsi in alterchi coi servitori, partì e tornò a casa in uno stato di frenesia: scrisse l'accaduto a Emilia, esprimendole senza riserva le angosce dell'anima; e la scongiurò, giacchè restava solo questo ripiego, di accordargli un abboccamento segreto.

Appena quella lettera fu spedita, la sua alterazione si calmò: conobbe il fallo commesso, aumentando le pene di Emilia colla descrizione troppo sincera de' suoi guai. Avrebbe dato la metà del mondo per ricuperare quella lettera imprudente. Emilia però fu preservata dal dolore che avrebbe provato ricevendola. La signora Montoni aveva ordinato che le fossero portate tutte le lettere dirette alla nipote: la lesse, e montata sulle furie per la maniera con la quale Valancourt vi trattava Montoni, la bruciò.

Montoni, intanto, sempre più impaziente di lasciar la Francia, sollecitava i preparativi della partenza, e terminava in fretta ciò che gli restava da fare. Osservò il più profondo silenzio sulle lettere nelle quali Valancourt, disperando d'ottener di più, e moderando la passione che avealo fatto trascendere, sollecitava il permesso soltanto di dire addio ad Emilia. Ma quando il giovane intese che sarebbe partita fra pochi giorni, e ch'era stato deciso che non la rivedrebbe più, perdè ogni prudenza, e in una seconda lettera le propose un matrimonio segreto. Questa lettera andò come l'altra nelle mani della signora Montoni, e venne la vigilia della partenza senza che Valancourt avesse ricevuto una sola riga di consolazione, o la menoma speranza di un ultimo abboccamento.

Intanto Emilia era inabissata nello stupore prodotto da tante disgrazie inaspettate ed irrimediabili. Essa amava Valancourt col più tenero affetto; erasi abituata da lunga pezza a considerarlo come l'amico ed il compagno di tutta la vita; non avea un pensiero di felicità al quale non fosse unita la sua idea. Qual doveva esser dunque il suo dolore al momento di una separazione così inaspettata, e forse eterna, e ad una distanza tale, dove le nuove della loro esistenza potrebbero appena giugnere, e tutto questo per obbedire ai voleri di uno straniero, a quelli d'una persona che provocava non ha guari ancora il loro matrimonio? Invano procurava essa di vincere il suo dolore, e rassegnarsi ad una sciagura inevitabile. Il silenzio di Valancourt l'affliggeva ancor più, perchè non sapeva attribuirlo al suo vero motivo; ma quando, alla vigilia di lasciar Tolosa, seppe che non erale permesso di salutarlo, il dolore l'oppresse maggiormente, e non potè trattenersi dal domandare alla zia se le fosse stata positivamente negata questa consolazione, ciò che le fu barbaramente confermato.

« Se il cavaliere avesse voluto ottener da noi questo favore, » diss'ella, « avrebbe dovuto contenersi diversamente. Egli doveva aspettare con pazienza che noi fossimo disposti ad accordarglielo; non mi avrebbe rimproverata perchè persisteva a negargli mia nipote, e non avrebbe molestato il signor Montoni, il quale non credeva conveniente di entrare in discussione su questa ragazzata. La di lui condotta in quest'affare è stata affatto presuntuosa e importuna; desidero di non sentir mai più parlar di lui, e che ci liberiate da cotesta ridicola tristezza, da cotesti sospiri, da cotesta aria cupa, la quale farebbe credere che voi siate sempre disposta a piagnucolare; fate come tutti gli altri; il vostro silenzio non basta a nascondere la vostra inquietudine alla mia penetrazione; vedo bene che siete disposta a piangere in questo momento, sì in questo momento istesso, a dispetto della mia proibizione. »

Emilia, che si era voltata dall'altra parte per nascondere le sue lacrime, si ritirò a precipizio per versarne in copia. Fu sì grande la di lei agitazione nel riflettere al suo stato e all'idea di non veder più Valancourt, che sentissi venir meno. Appena si fu riavuta un poco, si affacciò alla finestra, e l'aria fresca della notte la rianimò alquanto. Il chiaro di luna, cadendo sopra un lungo viale di olmi, sotto di lei, invitolla a tentare se il moto e l'aria aperta non calmerebbero l'irritazione di tutti i suoi nervi. Tutti dormivano nel castello: Emilia scese lo scalone, e traversando il vestibolo, penetrò cautamente nel giardino per un andito solitario. Camminava più o meno celeremente, secondo che le ombre la ingannavano, credendo vedere qualcuno da lontano, e temendo non fosse qualche spione di sua zia. Frattanto, il desiderio di rivedere il padiglione, nel quale aveva passati tanti momenti felici con Valancourt, dove aveva ammirato seco lui le belle pianure della Linguadoca, e la Guascogna sua cara patria, questo desiderio la vinse sul timore di essere osservata, e andò verso il terrazzo, che si prolungava sino all'ingresso del giardino, dominando gran parte della sottoposta prateria, alla quale si scendeva per una marmorea scalea. Quando fu alla scala, sostò un momento guardando intorno. La distanza del castello aumentava la specie di spavento che le cagionavano il silenzio, l'ora e l'oscurità; ma non iscorgendo nulla che potesse giustificare i suoi timori, salì sul terrazzo, onde il chiaro di luna scopriva l'ampiezza, e mostrava il padiglione in fondo. Si avanzò verso questo, e vi entrò; l'oscurità del luogo non era adatta a diminuire la sua timidezza. Le gelosie erano aperte, ma le piante dei fiori ingombravano l'esterno delle finestre, lasciando appena vedere a traverso i rami il paese fiocamente illuminato dalla luna. Avvicinandosi ad una finestra, essa non gustava di quello spettacolo se non in quanto potea servirla a richiamarle alla fantasia più vivamente l'immagine di Valancourt.

 

« Ah! » sclamò con un gran sospiro, gettandosi sopra una sedia; « quante volte ci siamo seduti in questo luogo! Quante volte abbiamo noi contemplato questa bella vista! Non l'ammireremo più insieme? mai, forse non ci rivedremo mai più! »

D'improvviso, lo spavento ne sospese le lagrime: avendo udito una voce vicina a lei nel padiglione, gettò un grido, ma lo strepito ripetendosi, distinse la voce amata di Valancourt. Era egli stesso, era il giovane che la teneva in braccio. In quell'istante la commozione le tolse l'uso della parola.

« Emilia, » disse alfine Valancourt, tenendole una mano stretta tra le sue, « mia cara Emilia! » Tacque nuovamente, e l'accento col quale aveva pronunziato questo nome, esprimeva la sua tenerezza insieme ed il suo dolore.

« O Emilia mia! » soggiuns'egli dopo una lunga pausa; « vi riveggo ancora, ed ascolto ancora il suono della vostra voce! Ho errato intorno a questi luoghi e a questo giardino per tante notti, nè aveva che una debolissima speranza di rivedervi! Era questa la sola risorsa che mi restava; grazie al cielo non mi è mancata. »

Emilia pronunziò qualche parola senza saper quasi ciò che dicea, espresse il suo inviolabile affetto, e si sforzò di calmare l'agitazione di Valancourt. Quando egli si fu un poco rimesso, le disse:

« Io son venuto qui subito dopo il tramonto del sole, nè ho cessato poi dal percorrere i giardini ed il padiglione. Aveva abbandonato qualunque speranza di vedervi; ma non sapeva risolvermi a staccarmi da un luogo ove vi sapeva così vicino a me, e sarei probabilmente rimasto tutta notte in questi contorni. Ma quando apriste il padiglione, l'oscurità m'impediva di distinguere con certezza se fosse la mia cara Emilia: il cuore mi batteva così forte per la speranza ed il timore ch'io non poteva parlare. Appena intesi gli accenti lamentosi della vostra voce, ogni dubbio svanì, ma non i miei timori, fintantochè non pronunziaste il mio nome. Nell'eccesso della gioia, non ho pensato allo spavento che vi avrei cagionato; ma non poteva più tacere. Oh! Emilia, in momenti così preziosi, la consolazione e il dolore lottano con tanta forza, che il cuore può a stento sopportarne la tenzone. »

Il cuore d'Emilia sentiva questa verità; ma la gioia di riveder l'amante nel momento in cui si accorava di esserne separata per sempre, si confuse presto col dolore, quando la riflessione guidò la sua immaginazione sull'avvenire. Faceva essa ogni sforzo per ricuperare la calma e dignità tanto necessarie per sostenere quest'ultimo colloquio. Valancourt non poteva moderarsi; i trasporti della gioia si cangiarono improvvisamente in quelli della disperazione; ed espresse col linguaggio il più appassionato l'orrore della separazione, e la poca probabilità d'una possibile riunione. Emilia procurava contenere la propria tristezza, e addolcire quella dell'amante.

« Voi mi lasciate, » le dicea egli, « voi andate in terra straniera! E a qual distanza! Voi andate a trovare nuove società, nuovi amici, nuovi ammiratori; si sforzeranno di farvi scordare di me, e vi saranno preparati nuovi nodi. Come poss'io saper tutto questo, e non sentire che non tornerete più per me, che non sarete mai più mia? » La voce gli mancò soffocata dai singulti.

« Credete voi dunque, » diss'Emilia, « che la mia afflizione nasca da un affetto leggiero e momentaneo? Potete voi crederlo?

– Soffrire! » interruppe Valancourt; « soffrir per me! Emilia mia, quanto son dolci, e quanto amare al tempo stesso queste parole! Io non devo dubitare della vostra costanza; eppure, tal è l'inconseguenza del vero amore; è esso sempre pronto a sospettare; e quand'anche la ragione lo riprova, egli vorrebbe sempre una nuova assicurazione. Adesso vi veggo, vi stringo tra le mie braccia: ancora pochi momenti, e non sarà più che un sogno: guarderò, e non vi vedrò più… Io rinasco da morte a vita, quando mi dite che vi son caro; ma appena non vi ascolto più, ricado nella dubbiezza, e mi abbandono alla diffidenza. » Poi, sembrando raccogliersi, esclamò: « Quanto son colpevole di tormentarvi così in questi momenti nei quali dovrei consolarvi, e sostenere il vostro coraggio! »

Questa riflessione lo intenerì singolarmente. La sua voce e le sue parole erano così appassionate, che Emilia, non potendo più contenere il proprio, cessò di reprimere il dolore di Valancourt, il quale in cotesti istanti terribili di amore e di pietà perdè quasi il potere e la volontà di signoreggiare la sua agitazione.

« No, » esclamò, « io non posso, non deggio lasciarvi. Perchè affideremo noi la felicità della nostra vita alle volontà di coloro che non hanno il diritto di distruggerla, e non possono contribuirvi se non concedendovi a me? O Emilia! osate fidarvi al vostro cuore! Osate esser mia per sempre! » La voce gli tremava, e non disse di più. Emilia piangeva e taceva. Valancourt le propose di sposarsi segretamente. « Alla punta del giorno lascerete la casa della signora Montoni, e mi seguirete alla chiesa di Sant'Agostino, ove ci attende un sacerdote per unirci. »

Il silenzio col quale la fanciulla ascoltò una proposta dettata dall'amore e dalla disperazione, in un momento in cui era appena capace di respingerla, quando il suo cuore era intenerito dal dolore d'una separazione, che poteva essere eterna, quando la sua ragione era in preda alle illusioni dell'amore e del terrore; questo silenzio incoraggì le speranze di Valancourt. « Parlate, mia cara Emilia, » le diss'egli con ardore; « lasciatemi ascoltare il suono della vostra voce soave; fate che intenda da voi la conferma del mio destino. » Essa rimase muta, un freddo brivido l'assalse, e svenne. L'immaginazione turbata di Valancourt se la figurò moribonda. La chiamò per nome, e si alzava per andar a chieder soccorso al castello; ma pensando alla di lei situazione, fremette all'idea di uscire e lasciarla in quello stato.