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I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2

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Quesnel parlò dei propri affari col suo tuono ordinario d'importanza. Vantò i nuovi acquisti, e compianse con affettazione Montoni delle recenti perdite da lui fatte. Quest'ultimo, il cui orgoglio almeno era capace di sprezzare una tale ostentazione, scuopriva facilmente, sotto una finta compassione, la vera malignità di Quesnel. Lo ascoltò con silenzio sdegnoso, quand'ebbe nominato sua nipote, si alzarono entrambi ed andarono a passeggiare in giardino.

Emilia intanto si avvicinò alla signora Quesnel, la quale parlava della Francia. Il solo nome della di lei patria erale caro: provava gran piacere nel considerare una persona che ne veniva. Quel paese d'altronde era abitato da Valancourt, e dessa ascoltava attentamente nella lieve lusinga di sentirlo nominare. La Quesnel che, durante il suo soggiorno in Francia, parlava con estasi dell'Italia, non parlava in Italia che delle delizie della Francia, sforzandosi di eccitare la curiosità altrui raccontando tutte le belle cose che aveva avuto la fortuna di vedervi.

Emilia attese invano il nome di Valancourt. La signora Montoni parlò a sua volta delle bellezze di Venezia, e del piacere che sperava gustare visitando il castello di Montoni negli Appennini. Quest'ultimo articolo non era trattato che per vanità. Emilia sapeva bene che la di lei zia apprezzava poco le grandezze solitarie, e quelle in ispecie che potea presentare il castello di Udolfo. La conversazione continuò malignandosi vicendevolmente, per quanto poteva permetterlo la civiltà, con reciproca ostentazione. Assise su morbidi sofà, sotto un portico elegante, circondate dai prodigi della natura e dell'arte, gli esseri meno sensibili avrebbero dovuto provare trasporti di cordialità, buone disposizioni, e cedere con trasporto a tutte le dolcezze di quei luoghi incantati.

Poco stante albeggiò; sorse il sole, e permise agli sguardi attoniti di contemplare il magnifico spettacolo che offrivano da lunge i monti coperti di neve, i declivi verdeggianti, e le ubertose pianure che si estendevano alle loro falde.

I contadini che andavano al mercato passavano in battello. Gli ombrelli di tela colorata, che portavano la maggior parte per guarentirsi dai raggi solari; i canestri di frutti e di fiori che andavano accomodando nel tragitto; l'abbigliamento semplice e pittoresco delle villanelle, tutto formava un colpo d'occhio dei più sorprendenti. La rapidità della corrente, la vivacità dei rematori, i canti di quei contadini all'ombra delle vele, ed il suono di qualche rustico strumento, dava a tutta la scena il carattere di una festa campestre.

Allorchè Montoni e Quesnel ebbero raggiunte le signore, passeggiarono tutti insieme nei giardini, la cui elegante distribuzione contribuì molto a distrarre Emilia. La forma maestosa e la ricca verzura dei cipressi, ch'ella trovava qui nella loro perfezione, l'altezza smisurata dei pini e dei pioppi, i folti rami dei platani, contrastavano coll'arte in quei giardini meravigliosi; i boschetti di mirto ed altre piante fiorite confondevano gli aromatici effluvi con quelli di mille fiori che smaltavano il terreno, e l'aria veniva rinfrescata dai limpidi ruscelli, serpeggianti fra i verdi pergolati.

Intanto il sole s'innalzava sull'orizzonte, ed il caldo cominciava a farsi sentire. La società abbandonò i giardini per andar in cerca di riposo.

CAPITOLO XVIII

Emilia profittò della prima occasione propizia per parlare a Quesnel del castello della valle. Le sue risposte furono concise, e fatte coll'accento di chi non ignorando il suo assoluto potere, s'impazientisce di vederlo messo in dubbio. Le dichiarò che la disposizione presa era una misura necessaria, e ch'essa doveva andar debitrice alla di lui prudenza de' vantaggi che gliene sarebbero ridondati.

« Del resto, » aggiunse « quando il conte veneziano, di cui non mi ricordo il nome, vi avrà sposata, i fastidi della vostra dipendenza cesseranno. Come vostro parente, mi rallegro per voi d'una circostanza tanto felice, e, ardisco dirlo, così poco attesa dai vostri amici. »

Per qualche momento, Emilia restò muta e fredda; quindi procurò disingannarlo a proposito del poscritto da lei aggiunto alla lettera di Montoni; Quesnel parve avere ragioni particolari di non crederle, e per assai tempo persistè ad accusarla di capriccio. Convinto alfine della di lei avversione per Morano, e del rifiuto positivo che gli aveva dato, si abbandonò alle stravaganze del risentimento, esprimendosi colla maggiore asprezza. Lusingato segretamente dal parentado d'un nobile, onde aveva finto dimenticar il casato, era incapace d'intenerirsi dei patimenti cui poteva incontrare la nipote nel sentiero che le segnava la propria ambizione.

Emilia vide tosto tutte le difficoltà che la minacciavano; e quantunque nessuna persecuzione potesse farla rinunziare a Valancourt per Morano, essa fremeva all'idea delle violenze di suo zio. A tanta collera ed a tanto sdegno oppos'ella solamente la dolce dignità d'uno spirito superiore; ma la fermezza misurata della sua condotta non servì che ad esacerbare il corruccio di Quesnel, obbligandolo a riconoscere la sua inferiorità. Finì per dichiararle che, se persisteva nella sua follìa, e lui e Montoni l'avrebbero abbandonata al disprezzo universale.

La calma nella quale Emilia erasi mantenuta in presenza dello zio, l'abbandonò quando fu sola: pianse amaramente; ripetè più d'una volta il nome del padre, di quel tenero padre che non vedeva più, e di cui si rammentava tutti gli avvertimenti datile al letto di morte. « Oimè! » diceva essa; « conosco bene adesso che la forza del coraggio è preferibile alle grazie della sensibilità. Farò tutti gli sforzi per adempire alla mia promessa; non mi abbandonerò ad inutili lamenti, e procurerò di soffrire con fortezza d'animo l'oppressione che non posso evitare. »

Sollevata in qualche modo dal suo fermo proposito di adempire in parte alle ultime volontà paterne, terse il pianto, e comparve a tavola colla consueta serenità.

Verso sera, le signore andarono a prendere il fresco nella carrozza della Quesnel sulle rive della Brenta. La situazione d'Emilia formava un contrasto malinconico coll'allegria delle brillanti società riunite sotto gli alberi lungo il delizioso fiume. Taluni ballavano all'ombra, altri, sdraiati sull'erba, prendevano gelati, mangiavano frutti e gustavano in pace le dolcezze d'una bella sera all'aspetto del più bel paese del mondo.

La fanciulla considerando le lontane vette nevose degli Appennini, pensò al castello di Montoni, e fremè all'idea ch'egli ve la condurrebbe, ed avrebbe saputo costringerla all'obbedienza. Questo timore però svanì, riflettendo ch'era in di lui potere a Venezia, come lo sarebbe stata in ogni altra parte.

Tornarono a Miarenti assai tardi; la cena era preparata nella magnifica rotonda già tanto ammirata da Emilia: le signore si riposarono sotto il portico, finchè Quesnel, Montoni ed altri gentiluomini vennero a raggiungerle. Emilia faceva ogni sforzo per tranquillarsi, allorchè una barca sostò d'improvviso alla scalea del giardino, ed essa distinse la voce di Morano, il quale comparve poco dopo. Ricevè i di lui complimenti in silenzio, e la sua freddezza parve da principio sconcertarlo, ma in seguito si rimise, riprese il suo brio, e la fanciulla osservò che la specie d'adulazione onde l'opprimevano i suoi zii, e di cui ella maravigliossi forte, eccitava solo il suo disgusto.

Appena potè ritirarsi, le di lei riflessioni quasi involontariamente si aggirarono sui mezzi possibili d'indurre il conte a desistere dalle sue pretese; la sua delicatezza non ne trovò di più efficace fuor quello di confessargli un vincolo già formato, e rimettersene alla di lui generosità. Nullameno, quando la domane egli rinnovò le sue premure, Emilia abbandonò quel progetto: sarebbe repugnato troppo al di lei orgoglio lo svelare il segreto del suo cuore ad un uomo come Morano, e domandargli un sacrifizio; talchè respinse con impazienza il piano già concetto. Ripetè il suo rifiuto nei termini più decisi, e biasimò severamente la condotta tenuta verso di lei. Il conte ne parve mortificato, ma continuò a persistere nelle solite assicurazioni di tenerezza; l'arrivo della Quesnel l'interruppe, e fu per Emilia un gran soccorso.

Di tal guisa, Emilia passò i giorni più infelici in quella casa deliziosa a motivo dell'ostinata assiduità di Morano, e della tirannia crudele che esercitavano su di lei Quesnel e Montoni, i quali parevano, al par della zia, più risoluti che mai a siffatto matrimonio. Quesnel, vedendo infine che i discorsi e le minacce erano egualmente inutili per venire ad una pronta decisione, vi rinunziò, e tutto fu rimesso al tempo ed al potere di Montoni. Emilia intanto desiderava tornar a Venezia, sperando colà sottrarsi in parte alle persecuzioni di Morano; d'altro lato, Montoni, distratto dalle occupazioni, non sarebbe sempre stato in casa. In mezzo alle sciagure, pensò anche a raccomandar con forza la povera Teresa a Quesnel il quale, la lusingò promettendole che non l'avrebbe dimenticata.

Montoni, in un lungo colloquio, concertò con Quesnel il piano da eseguirsi riguardo alla nipote, e questi promise trovarsi a Venezia tosto dopo la celebrazione del matrimonio.

Emilia per la prima volta, non provò verun rincrescimento a separarsi da' parenti. Morano tornò a Venezia nella stessa barca di Montoni. La fanciulla, la quale osservava gradatamente l'avvicinarsi di quella superba città, si vide dappresso la sola persona che potesse diminuirgliene il piacere. Arrivarono verso mezzanotte; Emilia fu liberata dalla presenza del conte, che seguì Montoni in un casino, e potè finalmente ritirarsi nella sua camera.

Il dì seguente, lo zio in un breve colloquio dichiarò ad Emilia che non intendeva esser tirato più per le lunghe; il suo matrimonio col conte era per lei di un vantaggio così prodigioso, che sarebbe follìa l'opporvisi, ed una follìa inconcepibile, e che verrebbe celebrato senza dilazione, e, se facea duopo, senza di lei consenso. La giovane, la quale fino allora aveva impiegate le ragioni, ricorse alle preghiere: il dolore le impediva di considerare che, con un uomo del carattere di Montoni, le suppliche non produrrebbero migliore effetto delle ragioni. Gli domandò poscia con qual diritto esercitasse egli su di lei quell'autorità illimitata. In uno stato più tranquillo, non avrebbe rischiato questa domanda che non le giovava a nulla, e faceva trionfare Montoni della sua debolezza e del suo isolamento.

 

« Con qual diritto? » sclamò questi con un sorriso maligno; « col diritto della mia volontà; se voi potrete sottrarvene, io non vi domanderò con qual diritto lo faceste. Ve lo ricordo per l'ultima volta: voi siete straniera, lontana dalla patria; deve interessarvi di avermi per amico, e ne conoscete i mezzi; se mi obbligate a divenirvi nemico, m'arrischierò a dire che la punizione supererà la vostra aspettativa; dovreste ben sapere che non son fatto per essere burlato. »

Emilia restò immobile dopo che Montoni l'ebbe lasciata: era disperata, o piuttosto stupefatta; il sentimento della sua miseria era il solo che avesse conservato: la Montoni la trovò in quello stato. La giovine alzò gli occhi, e il dolore espresso da tutta la di lei persona avendo senza dubbio intenerita la zia, le parlò con insolita bontà; il cuore di Emilia ne fu commosso, e dopo aver pianto alcun poco, raccolse bastante forza per raccontarle il soggetto del suo dolore, e sforzarsi d'interessarla per lei. La compassione della zia era stata sorpresa, ma la sua ambizione non poteva moderarsi, e credeva esser già la zia d'una contessa. I tentativi della fanciulla non riusciron meglio con lei che con Montoni: ritornò nella sua camera, e cominciò nuovamente a piangere, risolutissima di sfidare ad ogni costo tutta la vendetta di Montoni, anzichè sposare un uomo di cui avrebbe disprezzata la condotta, quand'anco non avesse mai conosciuto Valancourt.

Sopraggiunse poco di poi una faccenda che per qualche giorno sospese l'attenzione di Montoni; le visite misteriose d'Orsino si erano rinnovate con maggiore frequenza, dopo il ritorno di Montoni. Cavignì, Verrezzi, e qualcun altro erano ammessi, oltre Orsino, a questi conciliaboli notturni: Montoni divenne più riservato e severo che mai. Se i propri interessi non l'avessero resa indifferente a tutto il resto, Emilia si sarebbe accorta che meditava qualche progetto.

Una sera che non doveva tenersi riunione, arrivò Orsino agitatissimo e spedì al casino un suo confidente in cerca di Montoni: lo pregava di tornare a casa subito, raccomandando al messo di non pronunziar il suo nome. Montoni tornò sull'istante, trovò Orsino, e seppe tosto il motivo della visita ed agitazione sua, conoscendone già una parte.

Un gentiluomo veneziano, che aveva recentemente provocato l'odio di Orsino, era stato pugnalato da scherani pagati da quest'ultimo. Il morto apparteneva alle prime famiglie, ed il Senato erasi preso a cuore quell'affare. Uno degli assassini fu arrestato, e confessò, Orsino essere il reo. Alla nuova del suo pericolo, egli veniva a trovare Montoni perchè gli facilitasse la fuga, sapendo che in quel momento tutti gli officiali di polizia erano in cerca di lui per tutta la città, talchè riuscivagli impossibile di uscirne. Montoni acconsentì a nasconderlo per qualche giorno finchè la vigilanza fosse rallentata, e potesse con sicurezza lasciar Venezia. Sapeva il pericolo che incorreva accordando asilo ad Orsino; ma era tale la natura delle obbligazioni sue verso quell'uomo, che non credeva prudente negarglielo.

Tal era la persona ammessa da lui alla sua confidenza, e per la quale sentiva tanta amicizia, quanto potevalo comportare il suo carattere.

Per tutto il tempo che Orsino rimase nascosto nella casa, Montoni non volle attirare gli sguardi del pubblico celebrando le nozze del conte; ma quando la fuga del reo ebbe fatto cessare questo ostacolo, informò Emilia che il di lei matrimonio avrebbe avuto luogo la mattina seguente. Essa protestò che non avrebbe mai acconsentito, ed egli rispose con un maligno sorriso, assicurandola che di buonissima ora il conte ed un sacerdote si sarebbero trovati in casa sua, e consigliandola a non isfidare il di lui risentimento con un'opposizione contraria ai suoi voleri ed al proprio di lei bene.

« Esco per tutta sera, » aggiuns'egli: « ricordatevi che domani do la vostra mano al conte Morano. »

Emilia, la quale, dopo le ultime di lui minacce, si lusingava che la crisi giungerebbe al suo termine, fu poco scossa da questa dichiarazione; studiò dunque il mezzo di farsi coraggio considerando che il matrimonio non poteva esser valido fintantochè in presenza del sacerdote ella ricuserebbe di prender parte alla cerimonia. Il momento della prova si avvicinava, ed essa era egualmente agitata dall'idea della vendetta e a quella dell'imeneo. Assolutamente incerta sulle conseguenze del suo rifiuto all'altare, temeva più che mai il potere illimitato di Montoni, ed era persuasa che avrebbe trasgredite senza scrupolo tutte le leggi per riuscire ne' suoi progetti.

Mentre stava immersa in questo mare di affanni fu avvertita che Morano desiderava parlarle. Appena il servo fu uscito con le di lei scuse, se ne pentì, lo chiamò indietro, e volendo provare se le preghiere e la fiducia produrrebbero migliore effetto del rifiuto e dello spregio, gli fece dire che sarebbe andata a trovarlo ella stessa.

La dignità e il nobile contegno con cui mosse incontro al conte, l'aria rassegnata e pensierosa che ne addolciva la fisonomia, non erano mezzi capaci per farlo rinunziare a lei, nè servirono se non ad aumentare una passione che l'aveva già inebriato. Egli ascoltò ciò ch'essa diceva con apparente compiacenza e gran desiderio di contentarlo, ma la sua risoluzione era invariabile. Mise in opera con lei l'arte e l'insinuazione la più raffinata. Persuasa Emilia che non avesse nulla da sperare dalla di lui giustizia, ripetè solennemente le sue proteste d'opposizione, e lo lasciò coll'assicurazione formale che avrebbe saputo mantenersi nella negativa anche malgrado la violenza. Un giusto orgoglio aveane trattenute le lacrime in presenza di Morano, ma appena si trovò sola, pianse amaramente, invocando il padre, ed attaccandosi con dolore inesprimibile all'idea di Valancourt.

La sera era avanzatissima, allorchè la Montoni entrò nella di lei camera cogli ornamenti nuziali che inviavale il conte. Essa aveva scansata la nipote per tutta la giornata, temendo cedere ad un'insolita sensibilità: non ardiva esporsi alla disperazione di Emilia; e forse la sua coscienza, il cui linguaggio era sì poco frequente, le rimproverava una condotta sì dura verso un'orfana figlia di suo fratello, e della quale un padre moribondo le aveva affidata la felicità.

Emilia non volle vedere quei regali, e tentò, sebbene senza speranza, un nuovo ed ultimo sforzo per interessare la compassione della zia. Commossa forse alternativamente dalla pietà o dai rimorsi, seppe nasconder l'una e gli altri, e rimproverò alla nipote la follia di affliggersi per un matrimonio che non poteva mancare di renderla felice. « Certo, » le diss'ella, « se io non fossi maritata, e se il conte mi offrisse la sua mano, sarei molto lusingata di questa distinzione. Se io credo dover pensare così, voi, nipote mia, che non siete ricca, dovete indubitatamente trovarvene onoratissima, e mostrare una riconoscenza, un'umiltà verso Morano, tale da corrispondere alla sua condiscendenza. Son sorpresa, ve lo confesso, di veder lui così sommesso e voi così orgogliosa. Stupisco della sua pazienza, e, se fossi in lui, vi farei per certo ricordare un po' meglio dei vostri doveri. Io non vi adulerò, ve lo dico schietto; è questa ridicola adulazione che vi dà tanta e tale opinione di voi stessa, che vi fa credere non esservi nessuno che possa meritarvi. L'ho detto spesso al conte; io non badava alla stravaganza de' suoi complimenti, e voi li pigliavate alla lettera.

– La vostra pazienza, signora, » disse Emilia, « soffriva allora assai meno della mia.

– Tutto questo è pura affettazione, null'altro, » rispose la zia; « io so che l'adulazione v'insuperbisce e vi rende così vana, che credete ingenuamente di vedere tutti gli uomini ai vostri piedi; ma v'ingannate. Posso accertarvi, nipote mia, che non troverete molti adoratori come il conte; chiunque altro vi avrebbe voltate le spalle, e vi avrebbe lasciata in preda a un tardo pentimento.

– Oh! perchè mai il conte non fa quel che farebbero gli altri? » disse Emilia sospirando.

– È una fortuna per voi che non sia così, » replicò la zia.

– Io non sono ambiziosa; desidero solo restare nello stato in cui mi trovo.

– Non si tratta di ciò, » soggiunse la zia; « vedo che pensate sempre a quel Valancourt. Scacciate, ven prego, queste ubbie amorose e questo ridicolo orgoglio; diventate ragionevole. D'altronde son tutte ciarle inutili; voi sarete maritata domani, vogliate o no, già lo sapete: il conte non vuole esser più a lungo vostro zimbello. »

La fanciulla non tentò rispondere a siffatta singolare aringa, sentendone l'inutilità. La zia depose i regali del conte sopra un tavolino ove appoggiavasi Emilia, e le augurò la buona sera. L'orfanella fissò gli occhi sulla porta dond'era uscita la zia; ascoltava attenta se qualche suono venisse a rialzar l'abbattimento spaventoso de' suoi spiriti. Era mezzanotte passata; tutti dormivano, tranne il servo che aspettava il padrone. Il di lei animo, prostrato dai dispiaceri, cedè allora a terrori imaginari; tremava considerando le tenebre dell'ampia stanza in cui trovavasi; temeva senza saper perchè. Durò in tale stato tanto tempo, che avrebbe chiamata Annetta, la cameriera della zia, se la paura le avesse concesso d'alzarsi dalla sedia e traversar le camere. Le tetre illusioni a poco a poco svanirono; ed andò a letto, non per dormire, era impossibile, ma per cercar di calmare il disordine dell'accesa fantasia e raccogliere le forze che le sarebbero state necessarie per la mattina seguente.

CAPITOLO XIX

Un colpo battuto alla porta di Emilia la scosse dalla specie di sonno al quale erasi data in preda. Sussultò: le vennero tosto in mente Montoni e Morano. Ascoltò qualche momento, e riconoscendo la voce di Annetta rischiò ad aprire.

« Che ti conduce qui così di buon'ora? » le chiese tutta tremante.

– Per carità, signorina, non vi spaventate; siete così pallida, che fate paura anche a me. Giù dabbasso fanno un gran rumore; tutti i servi vanno e vengono con furia, e nessuno può indovinarne il motivo.

– Chi c'è con loro? » disse Emilia; « Annetta, non m'ingannare.

– Il cielo me ne guardi, per tutto l'oro del mondo non v'ingannerei. Ho veduto soltanto che il signor Montoni mostra un'impazienza straordinaria, e mi diede l'ordine di farvi alzare sul momento.

– Cielo! aiutatemi, » gridò Emilia disperata. « Il conte Morano è dunque venuto?

– No, signorina, per quanto io sappia egli non c'è. Sua eccellenza mandommi a dirvi che a momenti saranno qui le gondole, e partiremo da Venezia. Bisogna ch'io mi sbrighi per tornar dalla padrona, la quale è tanto confusa, che non sa più quel che si faccia.

– Ma insomma, che cosa significa tutto questo?

– Oh! signora Emilia, io non so altro se non che il signor Montoni è tornato a casa agitatissimo, e ci ha fatti alzar tutti, dichiarandoci che bisognava partir sull'istante.

– Il conte Morano viene egli con noi? e dove andiamo?

– Lo ignoro. Ho inteso che Lodovico parlava d'un castello che il padrone ha in certe montagne.

– Negli Appennini?

– Appunto, signorina; ma sollecitatevi, e pensate all'impazienza del signor Montoni. Dio buono! sento già i remi delle gondole che arrivano. »

Annetta uscì a precipizio. Emilia si dispose a questo viaggio inaspettato, ed appena ebbe gettati libri ed abiti nel baule, ricevè un secondo avviso; scese nel gabinetto della zia, ove Montoni le rimproverò la sua lentezza. Egli uscì quindi per dare alcuni ordini, e Emilia chiese il motivo di quella partenza subitanea. La zia parve ignorarlo come lei, e che non intraprendesse quel viaggio se non con estrema ripugnanza.

Finalmente tutta la famiglia s'imbarcò, ma nè Morano, nè Cavignì si fecero vedere. Questa circostanza rianimò un poco gli spiriti abbattuti di Emilia, la quale somigliava ad un condannato a morte, cui venga accordata una breve dilazione: il suo cuore si alleggerì ancor più, quando ebbero fatto il giro di San Marco senza fermarsi per prendere il conte.

L'alba cominciava appena a biancheggiar l'orizzonte ed il lido. Emilia non ardiva fare veruna interrogazione a Montoni, che restò qualche tempo in cupo silenzio, e s'avvolse quindi nel mantello, come se avesse voluto dormire. Sua moglie fece altrettanto. Emilia, non potendo prender sonno, alzò una cortina, e si mise a considerar il mare. L'aurora illuminava grandemente la sommità dei monti friulani; ma le loro coste e le onde che le bagnavano, erano tuttavia sepolte nell'ombra: la fanciulla, immersa in dolce malinconia, osservava i progressi del giorno, che stendevasi sul mare, illuminando Venezia, i suoi isolotti, e finalmente le spiagge italiane, lungo le quali cominciavano già a mettersi in moto le barche. I gondolieri venivano spesso chiamati da coloro che portavano le provvisioni al mercato di Venezia. Un'infinita quantità di barchette coperse in breve la laguna. Emilia gettò l'ultimo sguardo su quella magnifica città; ma il di lei spirito allora era soltanto occupato da mille congetture sui casi che l'attendevano, sul paese ov'era trascinata, e sul motivo di quel viaggio repentino.

 

Le parve dopo mature riflessioni, che Montoni la conducesse al suo castello isolato per costringerla più sicuramente all'obbedienza con mezzi di terrore. Se le scene tenebrose e solitarie che vi si disponevano non sortissero il bramato esito, il suo matrimonio vi sarebbe celebrato per forza, e con maggior mistero forse e meno smacco per l'onore di Montoni. Il poco coraggio resole dalla proroga svanì a questa terribile idea, e quando si toccò la riva, ell'era ricaduta nel più penoso abbattimento.

Montoni non rimontò la Brenta, ma continuò in carrozza per andare agli Appennini. Durante questo viaggio fu così severo con Emilia che ciò solo avrebbe servito a confermare le sue congetture allarmanti.

I viaggiatori cominciarono a salire gli Appennini: a quell'epoca que' monti erano coperti da immense foreste di abeti. La strada passava in mezzo a questi boschi, e non lasciava vedere che rupi spaventevoli sospese sul loro capo, a meno che qualche radura non lasciasse distinguere momentaneamente il sottoposto piano. L'oscurità di quei luoghi, il loro cupo silenzio, quando neanche il più lieve vento agitava la cima degli alberi, l'orrore dei precipizi susseguentisi, ciascun oggetto, in una parola, rendeva più imponenti le triste riflessioni d'Emilia. Essa non vedeva a sè intorno che immagini di spaventosa grandezza e di tetra sublimità.

A misura che i viaggiatori montavano attraverso le selve, le rupi accatastavansi a rupi, i monti parevano moltiplicarsi, e la cima di un'eminenza sembrava servir di base ad un'altra. Finalmente trovaronsi sopra un piccolo piano, ove i mulattieri sostarono. La scena vasta e magnifica che si presentava nella valle, eccitò l'ammirazione universale, ed interessò perfino la signora Montoni. Emilia obliò un momento i suoi mali nell'immensità della natura. Al di là d'un anfiteatro di montagne, le cui masse parevano numerose quanto le onde del mare, e le cui falde erano coperte di folti boschi, scuoprivansi le campagne d'Italia dove i fiumi, le città, gli oliveti, le vigne e tutta la prosperità della coltura si mischiavano in una ricca confusione. L'Adriatico circoscriveva l'orizzonte. Il Po e la Brenta, dopo aver fecondato tutta l'estensione del bel paese, venivano a scaricarvi le loro fertili acque. Emilia contemplò a lungo lo splendore di quei luoghi deliziosi che abbandonava, e la cui magnificenza sembrava non ispiegarsi davanti a lei se non per cagionarle maggior rincrescimento. Per lei, il mondo intero non conteneva che Valancourt, il di lei cuore dirigevasi a lui solo, e per lui solo versava tante lacrime.

Da quel punto di vista sublime i viaggiatori continuarono a salire penetrando in una gola angusta che mostrava soltanto minacciose rupi sospese sulla strada. Nessun vestigio umano, verun segno di vegetazione compariva colà. Questa gola conduceva nel cuore degli Appennini. Si allargò finalmente, scoprendo una catena di monti sterilissimi, attraverso i quali bisognò viaggiare per più ore.

Verso sera, la strada svoltò in una valle più profonda, circondata quasi tutta da scoscese montagne. Il sole tramontava allora dietro lo stesso monte che scendevano i viaggiatori, prolungandone l'ombra verso la valle; ma i suoi raggi orizzontali, traversando qualche spaccatura, doravano le sommità dell'opposta foresta, e scintillavano sulle alte torri ed i comignoli d'un castello, i cui vasti bastioni estendevansi lungo uno spaventoso precipizio. Lo splendore di tanti oggetti bene illuminati veniva accresciuto dal contrasto dell'ombre che avvolgevano già la valle.

« Ecco il castello di Udolfo, » disse Montoni, parlando per la prima volta dopo parecchie ore.

Emilia guardò il castello con una specie di terrore, quando seppe ch'era quello di Montoni; sebbene illuminato in quel momento dal sole all'occaso la gotica magnificenza di quell'architettura, le antiche mura di pietra bigia, ne formavano un oggetto imponente e sinistro. La luce s'affievolì insensibilmente, spargendo una tinta purpurea che si estinse grado grado, e lasciò i monti, il castello e tutti gli oggetti circonvicini in tetra oscurità.

Isolato, vasto e massiccio, esso sembrava dominare la contrada. Più la notte diveniva oscura, più le sue alte torri parevano imponenti. L'estensione e l'oscurità di quegli immensi boschi erano considerate da Emilia come adatte soltanto a servir di covile a masnadieri. Finalmente, le carrozze giunsero alle porte del castello. La lunga oscillazione della campana che fu suonata alla porta d'ingresso aumentò il terrore di Emilia. Mentre si aspettava l'arrivo di qualcuno che aprisse quelle imposte formidabili, ella considerò il maestoso edifizio. Le tenebre che l'avvolgevano non le permisero di discernerne il recinto, le grosse mura, i bastioni merlati e d'accorgersi che era vasto, antico e spaventoso. La porta d'ingresso conduceva nei cortili, ed era di proporzioni gigantesche. Due fortissime torri ne difendevano il passaggio. Invece di stendardi si vedevano svolazzare, su per le sconnesse pietre, erbe lunghissime e piante salvatiche abbarbicate nelle rovine, e che parevano crescere a stento in mezzo alla desolazione che le circondava. Le torri erano congiunte da una cortina munita di merli e casematte. Dall'alto della vôlta cadeva una pesante saracinesca. Da questa porta, le mura dei bastioni comunicavano con altre torri sporgenti sul precipizio; ma queste muraglie quasi rovinate mostravano i guasti della guerra. Mentre Emilia osservava con tanta attenzione, si udì aprire i grossi catenacci. Un vecchio servitore comparve, e spinse le imposte per lasciar entrare il suo signore. Mentre le ruote giravano con fracasso sotto quelle saracinesche impenetrabili, Emilia si sentì mancare il cuore, credendo entrare nella sua prigione. Il cupo cortile che traversarono confermònne la lugubre idea; e la di lei immaginazione, sempre attiva, le suggerì un terror maggiore di quel che potesse giustificarlo la sua ragione.

Un'altra porta l'introdusse nel secondo cortile, ancor più tristo del primo. Emilia ne giudicava alla fioca luce del crepuscolo, vedendone le alte mura tappezzate d'ellera e di musco, e le merlate torri giganteggianti. L'idea di lunghi patimenti e d'un assassinio le colpì l'immaginazione d'improvviso orrore. Questo sentimento non diminuì allorchè entrò in una sala gotica, immensa, tenebrosa. Una face che brillava da lontano traverso una lunga fila d'arcate serviva solo a renderne più sensibile l'oscurità.

L'arrivo inaspettato di Montoni non aveva permesso alcun preparativo per riceverlo. Il servo da lui spedito partendo da Venezia, l'aveva preceduto di pochi momenti, e questa circostanza scusava in qualche modo lo stato di nudità e disordine del castello.