bepul

I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2

Matn
iOSAndroidWindows Phone
Ilova havolasini qayerga yuborishim mumkin?
Mobil qurilmada kodni kiritmaguningizcha oynani yopmang
TakrorlashHavola yuborildi

Mualliflik huquqi egasi talabiga ko`ra bu kitob fayl tarzida yuborilishi mumkin emas .

Biroq, uni mobil ilovalarimizda (hatto internetga ulanmasdan ham) va litr veb-saytida onlayn o‘qishingiz mumkin.

O`qilgan deb belgilash
Shrift:Aa dan kamroqАа dan ortiq

CAPITOLO XV

Il giorno seguente, di buonissim'ora, i viaggiatori partirono per Torino. La ricca pianura che si estende dalle Alpi a quella magnifica città, non era allora, come adesso, ombreggiata da grossi alberi. Piantagioni d'ulivi, di gelsi, di fichi, frammiste di viti, formavano un magnifico paesaggio, traverso il quale l'impetuoso Eridano si slancia dalle montagne, e si unisce a Torino colle acque dell'umile Dora. A misura che i viaggiatori avanzavano, le Alpi prendevano ai loro sguardi tutta la maestà del loro aspetto. Le giogaje s'innalzavano le une sopra le altre in una lunga successione. Le cime più alte, coperte di nubi, si perdevano qualche volta nelle loro ondulazioni, e spesso slanciavansi di sopra ad esse. Le falde di que' monti, le cui irregolari cavità presentavano ogni sorta di forme, tingevansi di porpora e di azzurro al movimento della luce e delle ombre, variando ad ogni istante la scena. A levante si spiegavano le pianure di Lombardia; scoprivansi già le torri di Torino, e, in maggior distanza, gli Appennini circoscrivevano un immenso orizzonte.

La magnificenza di quella città, la vista delle sue chiese, dei suoi palagi e delle grandiose piazze, oltrepassavano non solo tutto ciò che Emilia avea veduto in Francia, ma tutto quello ancora che si era immaginato.

Montoni, il quale conosceva già Torino, e non n'era sorpreso, non cedè alle preghiere della consorte, che avrebbe desiderato vedere qualche palazzo; non si fermò che il tempo necessario per riposarsi, e si affrettò di partir per Venezia. Durante il viaggio, egli si mostrò altiero e riservatissimo, specialmente colla moglie; ma questa riserva però era meno quella del rispetto che dell'orgoglio e del malcontento. Si occupava pochissimo di Emilia. I suoi discorsi con Cavignì avevano sempre per soggetto la guerra o la politica, che lo stato convulsivo d'Italia rendeva allora molto interessanti. Emilia osservava che, nel raccontare qualche fatto illustre, gli occhi di Montoni perdevano la loro fosca durezza, e sembravan brillare di gioia. Sebbene ella dubitar potesse talvolta che questo istantaneo cambiamento fosse piuttosto l'effetto della malizia, che la prova del valore, pure questo pareva convenir molto bene al di lui carattere, e alle sue maniere superbe e cavalleresche; e Cavignì, con tutta la sua disinvoltura e buona grazia, non era in grado di stargli a confronto.

Entrando nel Milanese, lasciarono il loro cappello alla francese pel berretto italiano scarlatto, ricamato in oro. Emilia fu sorpresa nel vedere Montoni aggiungervi il pennacchio militare, e Cavignì contentarsi delle piume che vi si portavano di solito. Credè finalmente che Montoni prendesse l'equipaggio soldatesco per traversar con più sicurezza una contrada inondata di truppe, e saccheggiata da tutti i partiti. Si vedeva in quelle feraci pianure la devastazione della guerra. Laddove le terre non restavano incolte, si riconoscevano le tracce della rapina. Le viti erano strappate dagli alberi che dovevano sostenerle; le olive giacevano calpestate; i boschetti di gelsi erano stati tagliati per accenderne il fuoco devastatore de' casali e dei villaggi. Emilia volse gli sguardi, sospirando, a settentrione, sulle Alpi Elvetiche: le loro solitudini severe parevano essere il sicuro asilo degli infelici perseguitati.

I viaggiatori osservarono spesso distaccamenti di truppe che marciavano a qualche distanza, e negli alberghi ove sostavano provarono gli effetti della estrema carestia, e tutti gli altri inconvenienti che sono le conseguenze delle guerre intestine. Pur non ebbero mai alcun motivo di temere per la loro sicurezza. Giunti a Milano, non si fermarono nè per considerare la grandiosità di quella metropoli, nè per visitarne il magnifico tempio, che si stava ancora costruendo.

Passato Milano, il paese portava il carattere di una devastazione più spaventosa. Tutto allora parea tranquillo; ma come il riposo della morte sopra un volto che conserva ancora l'impronta orribile delle ultime convulsioni. Lasciato il Milanese, incontrarono essi nuovamente truppe. La sera era avanzata; videro un esercito sfilare da lontano nella pianura, e le cui lance e gli elmi scintillavano ancora agli ultimi raggi del sole. La colonna inoltrò sopra una parte della strada chiusa fra due poggi. Si distinguevano facilmente i capi che dirigevano la marcia. Parecchi uffiziali galoppavano sui fianchi, trasmettendo gli ordini ricevuti dai superiori; altri, separati dall'avanguardia, volteggiavano nella pianura a destra.

Nell'avvicinarsi, Montoni, dai pennacchi, dalle bandiere e dai colori delle divise dei vari corpi, credè riconoscere la piccola oste comandata dal famoso condottiero Utaldo. Egli era amico di lui e de' capi principali. Fece fermare le carrozze per aspettarli, e lasciar libero il passo. Una musica guerriera si fece in breve sentire; essa andò sempre crescendo, e Montoni, persuaso che fosse proprio la banda del celebre Utaldo, sporse il capo dalla carrozza, e salutò il generale agitando per aria il berretto. Il condottiere rese il saluto colla spada, e vari uffiziali, avvicinatisi alla carrozza, accolsero Montoni come un antico conoscente: il capitano stesso arrivò poco stante; la truppa fece alto, ed il capo s'intertenne con Montoni, cui sembrava contentissimo di rivedere. Emilia comprese, dai loro discorsi, esser quello un esercito vittorioso che tornava nel suo paese; i numerosi carriaggi che l'accompagnavano erano carchi delle ricche spoglie dei nemici, non che di feriti e prigionieri che sarebbero stati riscattati alla pace. I capi doveano separarsi il giorno seguente, dividere il bottino, ed accantonarsi, colle proprie bande, nei rispettivi castelli. Quella sera doveva dunque esser consacrata ai piaceri, in memoria della comune vittoria, e del congedo che prendevano scambievolmente.

Utaldo disse a Montoni che le sue schiere si sarebbero accampate quella notte in un villaggio distante mezzo miglio di là; l'invitò a tornare addietro, e a prender parte al banchetto, assicurandolo che le signore sarebbero benissimo trattate. Montoni se ne scusò allegando che voleva arrivare a Verona la sera medesima, e dopo qualche domanda sullo stato dei dintorni di quella città, si accommiatò e partì, ma non potè giungere a Verona che a notte molto tarda.

Emilia non potè vederne la deliziosa situazione che il giorno dopo. Abbandonarono di buon'ora quella bella città, e giunti a Padova, s'imbarcarono sulla Brenta per Venezia. Qui, la scena era intieramente cambiata. Non eran più i vestigi di guerra sparsi nelle pianure del Milanese, ma al contrario tutto respirava il lusso e l'eleganza. Le sponde verdeggianti della Brenta non offrivano che bellezze, delizie ed opulenza. Emilia considerava con istupore le ville della nobiltà veneta, i loro freschi portici, i bei colonnati ombreggiati da pioppi e cipressi di maestosa altezza; gli aranci, i cui fiori odorosi imbalsamavano l'aria, ed i folti salci che bagnavan le lunghe chiome, nel fiume, formando ombrosi ricetti. Il carnevale di Venezia sembrava trasportato su quelle sponde incantevoli. Le gondole, in perpetuo moto, ne aumentavano la vita. Tutta la bizzarria delle mascherate formava una superba decorazione; e verso sera, molti gruppi andavano a ballare sotto i grossi alberi.

Cavignì istruiva Emilia del nome dei gentiluomini ai quali appartenevano le ville; e per divertirla vi aggiungeva un leggiero schizzo dei loro caratteri, essa compiacevasi talvolta ad ascoltarlo; ma il suo brio non faceva più sulla signora Montoni l'effetto di prima: questa parea quasi sempre seria, e Montoni era constantemente riservato.

È indescrivibile la meraviglia della fanciulla allorchè scoprì Venezia, i suoi isolotti, i suoi palazzi e le sue torri che tutti insieme sorgevano dal mare riflettendo i loro svariati colori sulla superficie chiara e tremolante. Il tramonto dava alle acque ed ai monti lontani del Friuli, che circondano a tramontana l'Adriatico, una tinta giallastra di effetto mirabilissimo. I portici marmorei e le colonne di San Marco erano rivestite di ricche tinte e dell'ombra maestosa della sera. A misura che si avanzavano, la magnificenza della città disegnavasi più particolareggiatamente. I suoi terrazzi, sormontati da edifizi aerei eppur maestosi, illuminati, com'eranlo allora, dagli ultimi raggi del sole, parevano piuttosto fatti uscir dall'onde dalla bacchetta di un mago, che costruiti da mano mortale.

Il sole essendo finalmente sparito, l'ombra invase gradatamente le acque e le montagne, spegnendo gli ultimi fuochi che ne doravan le sommità; e il violaceo malinconico della sera si stese ovunque come un velo. Quanto era profonda e bella la tranquillità che avvolgeva la scena! La natura pareva immersa nel riposo. Le più soavi emozioni dell'anima eran le sole che si destassero. Gli occhi di Emilia si empivano di lacrime: essa provava i trasporti di una devozione sublime, innalzando gli sguardi alla vôlta celeste, mentre una musica deliziosa accompagnava il mormorio delle acque. Ella ascoltava in tacita estasi, e nessuno ardiva rompere il silenzio. I suoni pareano ondeggiar nell'aere. La barca avanzavasi con movimento sì placido, che appena si poteva distinguere; e la brillante città sembrava moverle incontro da sè per ricevere i forestieri. Distinsero allora una voce donnesca che, accompagnata da qualche istrumento, cantava una dolce e languida arietta. La sua espressione patetica, che sembrava ora quella di un amore appassionato, ed ora l'accento lamentevole del dolore senza speranza, annunziava bene come il sentimento che le dettava non fosse finto. « Ah! » disse Emilia sospirando e rammentandosi Valancourt; « quel canto parte sicuramente dal cuore! »

Essa guardavasi intorno con attenta curiosità. Il crepuscolo non lasciava più distinguere che immagini imperfette. Intanto, a qualche distanza, le parve vedere una gondola, ed intese nel tempo istesso un coro armonioso di voci e d'istrumenti. Esso era così dolce, così soave! Era come l'inno degli angeli che scendono nel silenzio della notte. La musica finì, e parve che il coro sacro risalisse al cielo. La calma profonda che susseguì era espressiva quanto l'armonia poc'anzi cessata. Finalmente, un sospiro generale parve risvegliar tutti da una specie d'estasi. Emilia però restò a lungo abbandonata all'amabile tristezza, che si era impadronita de' suoi sensi; ma lo spettacolo ridente e tumultuoso della piazza di San Marco fugò le sue meditazioni. La luna, che sorgea allora sull'orizzonte, spandeva un debole chiarore su' terrazzi, su' portici illuminati, sulle magnifiche arcate, e lasciava vedere le numerose società, i cui passi leggieri, i canti ed i suoni si mescolavano confusamente.

 

La musica che i viaggiatori avevano già intesa, passò vicino alla barca di Montoni, in una di quelle gondole che si vedevano errare sul mare, piene di gente che andava a godere il fresco della sera. Quasi tutte avevano suonatori. Il mormorio dell'acque, i colpi misurati dei remi sull'onde spumanti, vi aggiungevano un incanto particolare. Emilia osservava, ascoltava, e le pareva di essere nel tempio delle fate. Anche la zia provava qualche piacere. Montoni felicitavasi di essere tornato finalmente a Venezia, ch'esso chiamava la prima città del mondo; e Cavignì era più allegro ed animato del solito.

La barca passò pel Canal grande ov'era situata la casa di Montoni. I palazzi di Sansovino e Palladio spiegavano agli occhi d'Emilia un genere di bellezza e magnificenza tale, onde la sua immaginazione non aveva potuto formarsi un'idea. L'aria era agitata da dolci suoni ripetuti dall'eco del canale, e gruppi di maschere che ballavano al lume della luna, realizzavano le più brillanti funzioni della fantasmagoria.

La barca si fermò davanti al portico di una gran casa, ed i viaggiatori sbarcarono su d'un terrazzo, che per una scala marmorea li condusse in un salotto, la cui magnificenza fece stupire Emilia. Le pareti ed il soffitto erano ornati di affreschi. Lampade d'argento, sospese a catene dello stesso metallo, illuminavano la stanza. Il pavimento era coperto di stuoie indiane dipinte di mille colori. La tappezzeria delle finestre era di seta verde chiaro, ricamata in oro, arricchita di frange verdi ed oro. Il balcone guardava sul Canal grande. Emilia, colpita dal carattere tetro di Montoni, osservava con sorpresa il lusso e l'eleganza di quei mobili. Si rammentava con istupore che glielo avevano descritto per un uomo rovinato. – Ah! » si diceva ella; « se Valancourt vedesse questa casa, non parlerebbe più così! Come sarebbe convinto della falsità delle ciarle. —

La signora Montoni prese le arie d'una principessa; Montoni, impaziente e contrariato, non ebbe neppure la civiltà di salutarla e complimentarla sul di lei ingresso in casa sua. Appena giunto ordinò la gondola ed uscì con Cavignì per prender parte ai piaceri della serata. La Montoni divenne allora seria e pensierosa: Emilia, cui tutto sorprendeva, si sforzò di rallegrarla, ma la riflessione non diminuiva nè i capricci, nè il cattivo umore della zia, le cui risposte furono talmente sgarbate, che Emilia, rinunziando al progetto di distrarla, andò ad una finestra, per godere almeno lei d'uno spettacolo così nuovo ed interessante. Il primo oggetto che la colpì fu un gruppo di persone che ballavano al suono di una chitarra e di altri strumenti. La donna che teneva la chitarra e quella che suonava il tamburello, ballavano esse pure con molta grazia, brio ed agilità. Dopo queste vennero le maschere: chi era travestito da gondoliere, chi da menestrello e cantavano tutti versi accompagnati da pochi strumenti. Si fermarono a qualche distanza dal portico, ed in que' canti Emilia riconobbe le ottave dell'Ariosto. Cantavano le guerre dei mori contro Carlo Magno, e le sventure del paladino Orlando. Cambiò il tuono della musica, ed intese le malinconiche stanze del Petrarca; la magia di quegli accenti dolorosi veniva sostenuta da un'espressione e da una musica veramente italiana. Il chiaro di luna compiva l'incantesimo.

Emilia era entusiasmata; versava lacrime di tenerezza, e la sua immaginazione si portava in Francia vicino a Valancourt; vide con rincrescimento svanire quella scena incantata, e restò per qualche tempo assorta in una pensierosa tranquillità. Altri suoni risvegliarono di lì a poco la sua attenzione: era una maestosa armonia di corni. Osservò che molte gondole si mettevano in fila alle sponde; riconobbe nella lontana prospettiva del canale una specie di processione che solcava la superficie dell'acque; a misura che si avvicinava, i corni ed altri strumenti facevano echeggiar l'aria de' più soavi concenti.... Poco dopo le deità favolose della città parvero sorgere dal seno delle acque. Nettuno, con Venezia sua sposa, si avanzavano sul liquido elemento, circondati dai Tritoni e dalle naiadi. La bizzarra magnificenza di questo spettacolo sembrava avere improvvisamente realizzato tutte le visioni de' poeti; le vaghe immagini, delle quali era ripiena l'anima di Emilia, le restarono impresse anche molto dopo la comparsa di quella mascherata.

Dopo cena, sua zia vegliò lunga pezza, ma Montoni non tornò a casa. Se Emilia aveva ammirata la magnificenza del salotto, non fu però meno sorpresa nell'osservare lo stato nudo e miserabile di tutte le stanze, che dovè traversare per giungere alla sua camera: vide essa una lunga fuga di grandi appartamenti, il cui dissesto indicava bastantemente come non fossero stati abitati da molto tempo. Vi erano su qualche parete brani sbiaditi di antichissimi parati, su alcune altre qualche affresco quasi distrutto dall'umidità. Finalmente essa giunse alla sua camera, spaziosa, elevata, sguarnita come le altre, e con grandi finestroni; questa stanza richiamolle alla fantasia le idee più tetre, ma la vista del mare le dissipò.

CAPITOLO XVI

Montoni ed il suo compagno non erano ancora tornati a casa all'alba: i gruppi delle maschere o dei ballerini si dispersero collo spuntar del giorno, come tante chimere. Montoni era stato occupato altrove; la di lui anima poco suscettibile di frivole voluttà, si pasceva nello sviluppo delle passioni energiche, le difficoltà, le tempeste della vita che rovesciano la felicità degli altri, rianimavano tutta l'elasticità dell'anima sua, procurandogli i soli godimenti dei quali potesse esser capace; senza un estremo interesse la vita non era per lui che un sonno. Quando gli mancava l'interesse reale, se ne formava di artificiali, finchè l'abitudine, venendo a snaturarli, cessassero di esser fittizi: tale era l'amore pel giuoco. Non vi si era abbandonato dapprincipio che per togliersi dall'inerzia e dal languore, e vi aveva persistito con tutto l'ardore di una passione ostinata. Aveva passata la notte con Cavignì a giuocare in una società di giovani che avevan molto da spendere e molti vizi da soddisfare. Montoni sprezzava la maggior parte di questa gente, più per la debolezza de' loro talenti, che per la bassezza delle inclinazioni, e non li frequentava se non per renderli strumenti de' suoi disegni. Fra costoro però eranvene di più abili, e Montoni li ammetteva alla sua intimità, conservando però sopra di loro quell'alterigia decisa che comanda la sommessione agli spiriti vili o timidi, e suscita l'odio e la fierezza degli spiriti superiori. Egli avea dunque numerosi e mortali nemici; ma l'antichità del loro odio era la prova certa del di lui potere; e siccome il potere era il suo unico scopo, gloriavasi più di quest'odio che di tutta la stima che avessero potuto tributargli. Sprezzava dunque un sentimento tanto moderato come quello della stima, ed avrebbe disprezzato sè medesimo, se si fosse creduto capace di contentarsene. Nel numero ristretto di coloro ch'egli distingueva, contavansi i signori Bertolini, Orsino e Verrezzi. Il primo aveva un carattere allegro e passioni vive; era di una dissipazione e d'una stravaganza senza pari, ma del resto generoso, ardito e schietto. – Orsino, orgoglioso e riservato, amava il potere più che l'ostentazione: avea indole crudele e sospettosa; sentiva vivamente le ingiurie, e la sete della vendetta non gli dava riposo. Sagace, fecondo in ripieghi, paziente, costante nella sua perseveranza, sapeva signoreggiare le azioni e le passioni. L'orgoglio, la vendetta e l'avarizia erano quasi le sole ch'ei conoscesse: pochi riflessi che valessero ad arrestarlo, e pochi gli ostacoli che potessero eludere la profondità de' suoi stratagemmi. Costui era il favorito di Montoni.

Verrezzi non mancava di talenti; ma la violenza della sua immaginazione lo rendeva schiavo delle passioni più opposte. Egli era giocondo, voluttuoso, intraprendente, ma non aveva nè fermezza, nè coraggio vero, ed il più vile egoismo era l'unico principio delle sue azioni. Pronto ne' progetti, petulante nelle speranze, il primo ad intraprendere e ad abbandonare non solo le sue imprese, ma anche quelle degli altri; orgoglioso, impetuoso ed insobordinato: tal Verrezzi; chiunque però conosceva a fondo il di lui carattere, e sapeva dirigere le sue passioni, lo guidava come un fanciullo.

Questi erano gli amici che Montoni introdusse in casa sua, ed ammise a mensa, il giorno dopo il suo arrivo a Venezia. Vi era parimente fra loro un nobile Veneziano chiamato il conte Morano, ed una tal signora Livona, che Montoni presentò alla moglie come persona di merito distinto; essa era venuta la mattina per congratularsi del suo arrivo, ed era stata invitata a pranzo.

La signora Montoni ricevè di mala grazia i complimenti di quei signori. Bastava, per dispiacerle, che fossero amici di suo marito; e li odiava perchè accusavali d'aver contribuito a fargli passar la notte fuori di casa. Finalmente l'invidiava, chè, sebbene convinta della poca influenza di lei su Montoni, supponeva che preferisse la loro società alla sua. Il grado del conte Morano gli fruttò un'accoglienza che ricusava a tutti gli altri: il di lei portamento, le maniere sprezzanti, ed il suo stravagante e ricercato abbigliamento (essa non aveva ancora adottato le fogge veneziane), contrastavano forte colla bellezza, modestia, dolcezza e semplicità della nipote. Questa osservava con più attenzione che piacere la società che la circondava: la bellezza però, e le grazie seducenti della signora Livona l'interessarono involontariamente; la dolcezza de' suoi accenti e la sua aria di compiacenza risvegliarono in Emilia le tenere affezioni che sembravano sopite da lungo tempo.

Per profittare della frescura della sera, tutta la compagnia s'imbarcò nella gondola di Montoni. Lo splendido fulgore del tramonto coloriva ancora le onde, andando a morire a ponente; le ultime tinte parevano dileguarsi a poco a poco, mentre l'azzurro cupo del firmamento cominciava a scintillar di stelle. Emilia abbandonavasi ad emozioni dolci e serie insieme; la quiete della laguna su cui vogava, le immagini che venivano a pingervisi, un nuovo cielo, gli astri ripercossi nelle acque, il profilo tetro delle torri e de' portici, il silenzio infine in quell'ora solenne, interrotto sol dal gorgoglio dell'onda e dai suoni indistinti di lontana musica, tutto sublimava i suoi pensieri. Sgorgaronle lagrime; i raggi della luna, luminosi ognor più che le ombre diffondeansi, proiettavano allora su di lei il loro argenteo splendore. Semicoperta d'un nero velo, la sua figura ne ricevea un'inenarrabile soavità. Il conte Morano, seduto accanto ad Emilia, e che l'aveva considerata in silenzio, prese improvvisamente un liuto, e suonandolo con molta agilità, cantò un'aria piena di malinconia con voce insinuante. Quand'ebbe finito, diede il liuto ad Emilia, che, accompagnandosi con quell'istrumento, cantò con molto gusto e semplicità una romanza, poi una canzonetta popolare del suo paese; ma questo canto le richiamò al pensiero rimembranze dolorose: la voce tremante le spirò sul labbro, e le corde del liuto non risuonarono più sotto la sua mano. Vergognandosi infine della commozione che l'aveva tradita, passò tosto ad una canzone sì allegra e graziosa, che tutta la conversazione proruppe in applausi e fu obbligata a ripeterla. In mezzo ai complimenti che le venivano fatti, quelli del conte non furono i meno espressivi, e non cessarono se non quando Emilia passò il liuto alla signora Livona, la quale se ne servì con tutto il gusto italiano.

Il conte, Emilia, Cavignì e la signora Livona cantarono quindi canzonette accompagnate da due liuti, e da qualche altro istrumento. Talvolta gli strumenti tacevano, e le voci, in accordo perfetto, andavano indebolendosi fino all'ultimo grado; dopo una breve pausa si rialzavano, gli strumenti riprendevan forza, ed il coro generale echeggiava per l'aria.

Intanto, Montoni, annoiato di quella musica, rifletteva al mezzo di disimpegnarsi per seguir coloro che volevano andare a giuocare in un casino. Propose di tornare a terra: Orsino l'appoggiò con piacere, ma il conte e tutti gli altri vi si opposero con vivacità.

 

Montoni meditava di nuovo il modo di sbarazzarsi da quell'impaccio; una gondola vuota che tornava a Venezia passò accanto alla sua. Senza tormentarsi più a lungo per una scusa, profittò dell'occasione, e affidando le signore agli amici partì con Orsino. Emilia, per la prima volta, lo vide andar via con rincrescimento, poichè considerava la di lui presenza come una protezione, senza saper bene ciò che avesse a temere. Egli sbarcò alla piazza San Marco, e correndo al casino, si perdè nella folla de' giuocatori.

Il conte aveva fatto partire segretamente un suo servo nella barca di Montoni per mandar cercare i suoi suonatori e la propria gondola. Emilia, ignara di tutto questo, intese le allegre canzonette de' gondolieri che, turbando coi remi le onde argentine, ove ripercoteasi la luna, si avvicinavano, e distinse poco dopo il suono degli istrumenti, ed una sinfonia veramente armoniosa; nell'istante medesimo le barche si avvicinarono, il conte spiegò tutto, e passarono nella di lui gondola parata col gusto più squisito.

Mentre la società gustava rinfreschi di frutti e gelati, i suonatori nell'altra barca eseguivano deliziose melodie: il conte, seduto accanto ad Emilia, occupavasi di lei sola, e le prodigava con voce soave ed appassionata complimenti, il cui senso non poteva esser dubbioso; per evitarli, essa parlava colla signora Livona, e prendeva con lui un tuono riservato ed imponente, ma troppo dolce per contenere le di lui sollecitudini. Egli non poteva vedere, nè ascoltare altri che Emilia, e non poteva parlare che a lei. Cavignì l'osservava con mal umore, e la fanciulla con imbarazzo.

Sbarcarono tutti alla piazza San Marco; la serenità della notte determinò la Montoni ad accettare le proposte del conte, di passare cioè alcun tempo prima di andare a cena, al di lui casino col resto della società. Se qualche cosa avesse potuto dissipare gli affanni di Emilia, sarebbe stata per certo la novità di tutto ciò che la circondava, gli ornamenti dei ricchi palazzi ed il tumulto delle maschere.

Finalmente recaronsi al casino, ornato col miglior gusto: eravi preparata una splendida cena; ma quivi il contegno riserbato di Emilia fece comprendere al conte quanto gli fosse necessario il favore della Montoni; la condiscendenza da essa già dimostratagli gl'impediva di giudicare l'impresa molto difficile; rivolse allora parte delle sue attenzioni sulla zia, la quale fu talmente lusingata di tale distinzione, che non potè dissimulare la gioia, e prima della fine della cena il conte possedeva tutta la sua stima. Quand'egli si dirigea a lei, il suo volto accigliato si rasserenava, e sorridea a tutte le sue parole, gradiva tutte le di lui proposte: Morano la invitò colla società a prendere il caffè nel suo palco al teatro per la sera dopo; Emilia, avendo inteso ch'ella accettava, non si occupò più che di trovare una scusa per dispensarsene.

Era già tardi quando s'imbarcarono; la sorpresa d'Emilia fu estrema, allorchè, uscendo dal casino, vide il sole sorgere dall'Adriatico, e la piazza San Marco tuttavia piena di gente. Il sonno da gran pezza le aggravava le palpebre; la frescura del vento marino la ravvivò, ed essa sarebbe partita di colà con rincrescimento, se non fosse stata la presenza del conte, il quale volle assolutamente accompagnar le signore fino a casa. Montoni non era tornato ancora: la di lui moglie entrò nelle proprie stanze, e liberò Emilia dalla noia della sua compagnia.

Montoni tornò tardi ed era furente: aveva fatto una grossa perdita; prima di coricarsi, volle parlare a quattr'occhi con Cavignì, e l'aria di quest'ultimo fece conoscere abbastanza il dì seguente che il soggetto della conferenza eragli riuscito poco gradevole.

La Montoni, che per tutto il dì era stata taciturna e pensierosa, ricevè verso sera alcune Veneziane, la cui affabilità piacque assai ad Emilia. Queste signore avevano un'aria di scioltezza e cordialità inesprimibile co' forestieri; parevan conoscerli da molto tempo; la loro conversazione era a vicenda tenera, sentimentale e briosa. La Montoni istessa, che non aveva veruna attrattiva per quel genere di trattenimento, e la cui asciuttezza e l'egoismo contrastavano sovente all'eccesso colla loro squisita cortesia, ella stessa non potè essere insensibile alle loro grazie.

Cavignì andò a trovar le signore alla sera: Montoni aveva altri impegni. S'imbarcarono esse nella gondola per andare alla piazza San Marco, ove il concorso era numeroso. Dopo una breve passeggiata, si misero a sedere alla porta di un casino; e mentre Cavignì faceva portare il caffè e gelati, arrivò il conte Morano. S'avvicinò ad Emilia con aria d'impazienza e di piacere, che, unita alle di lui attenzioni della sera precedente, l'obbligarono a riceverlo con timida riservatezza.

Era quasi mezzanotte allorchè andarono al teatro. Emilia nell'entrarvi, si rammentò tutto ciò che aveva veduto, e ne fu meno abbagliata. Tutto lo splendore dell'arte le pareva inferiore alla semplicità della natura. Il suo cuore non era commosso dall'ammirazione come alla vista dell'immenso Oceano e della grandezza de' cieli, al fragor dell'onde tumultuanti, alle melodie d'una musica campestre. Tai memorie doveano renderle insipida la scena affettata che le s'offriva allo sguardo.

Scorsero così varie settimane, nelle quali Emilia si compiacque a considerare un teatro i costumi tanto opposti ai francesi; ma il conte Morano vi si trovava troppo frequentemente per la di lei tranquillità. Le sue grazie, la sua figura, le sue belle doti, che facevano l'ammirazione generale, avrebbero forse interessato anche Emilia, se il suo cuore non fosse stato prevenuto per Valancourt. Fors'anco avrebbe fatto meglio a mettere meno pertinacia nelle sue premure. Qualche tratto del suo carattere che rivelò, indisposero Emilia, e la prevennero contro le di lui migliori qualità.

Poco dopo il suo arrivo a Venezia, Montoni ricevè una lettera da Quesnel, che gli annunziava la morte dello zio della propria moglie nella sua villa sulla Brenta, ed il suo progetto di venir tosto a prender possesso di cotesta casa e degli altri beni toccatigli. Questo zio era fratello della madre della signora Quesnel. Montoni eragli parente da parte di padre, e sebbene non avesse nulla a pretendere da cotesta ricca eredità, non potè nascondere tutta l'invidia che tale notizia suscitavagli in cuore.

Emilia aveva osservato che, dopo la sua partenza dalla Francia, Montoni non aveva conservato nessun riguardo per sua zia: in principio l'aveva trascurata, ed ora non le mostrava che avversione e cattivo umore. Ella non aveva mai supposto che i difetti della zia fossero sfuggiti al discernimento di Montoni, e che lo spirito e la figura di lei avessero meritata la sua attenzione. La sorpresa cagionatale da questo matrimonio era stata estrema; ma la scelta era fatta, e non s'immaginava com'egli potesse così presto mostrarle il suo aperto disprezzo. Montoni, allettato dall'apparente ricchezza della Cheron, si trovò singolarmente deluso nelle sue speranze. Sedotto dalle astuzie da essa messe in opra finchè l'avea creduto necessario, si trovò incappato nel laccio in cui egli avrebbe voluto far cadere lei stessa. Era stato giocato dall'accortezza d'una donna, della quale stimava pochissimo l'intelligenza, e si trovava aver sacrificato l'orgoglio e la libertà, senza preservarsi dalla rovina disastrosa sospesa sul di lui capo. La signora Cheron erasi posta in testa propria la maggior parte delle sostanze. Montoni s'era impadronito del resto, e benchè la somma ricavatane fosse inferiore alla sua aspettativa ed ai suoi bisogni, aveva portato questo danaro a Venezia per abbagliare il pubblico, e tentar la fortuna con un ultimo sforzo.