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I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2

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CAPITOLO XX

La luce del giorno fugò i vapori della superstizione, ma non quelli della paura. Si alzò, e per distrarsi delle importune idee, cercò occuparsi degli oggetti esterni. Contemplò dalla finestra le selvagge grandezze che le s'offrivano; i monti accatastati l'un sull'altro, non lasciavan vedere che anguste valli ombreggiate da folte selve. I vasti bastioni, gli edifizi diversi del castello, stendevansi lungo uno scosceso scoglio appiè del quale rumoreggiava un torrente precipitandosi sotto annosi abeti in profondo burrone. Una lieve nebbia occupava le lontane fondure, e svanendo gradatamente ai raggi del sole, scopriva gli alberi, le coste, gli armenti ed i pastori.

Osservando queste ammirabili vedute, Emilia si trovò alquanto sollevata.

L'aria fresca del mattino contribuì non poco a rianimarla. Innalzò i pensieri al cielo, chè sentivasi ognor più tranquilla allorchè gustava le sublimità della natura. Quando si ritrasse dalla finestra, girò gli occhi verso la porta da lei assicurata con tanta cura la notte precedente. Era decisa di esaminarne la riuscita, quando, nell'avvicinarsi per levar la sedia, si avvide ch'essa n'era già stata alquanto scostata. È impossibile descrivere la di lei sorpresa nel trovar poscia la porta chiusa. Rimase attonita come se avesse veduto uno spettro. La porta del corridoio era chiusa come l'aveva lasciata; ma l'altra, che non si poteva chiudere se non dal di fuori, eralo stata necessariamente nel corso della notte. Si spaventò all'idea di dover dormir ancora in una camera nella quale era sì facile penetrare, e così lontana da qualunque soccorso: si decise pertanto di dirlo alla signora Montoni, e domandarle il cambiamento della camera.

Dopo qualche difficoltà le riuscì di ritrovare la sala della sera precedente, ove stava già preparata la colazione. Sua zia era sola, Montoni essendo andato a visitare i contorni del castello, per esaminar lo stato delle fortificazioni in compagnia di Carlo. Emilia notò che la zia aveva pianto, e il suo cuore s'intenerì per lei con un sentimento che si manifestò più nelle sue maniere che nelle parole. Si fece coraggio non ostante, e profittando dell'assenza di Montoni, chiese un'altra camera, ed informossi del motivo di quel viaggio. Sul primo articolo, la zia la rimandò a Montoni, ricusando di mescolarsene; e sul secondo, protestò la più assoluta ignoranza. Parlarono quindi del castello e del paese che lo circondava; e la zia non potè resistere al piacere di motteggiare la buona Emilia sul di lei gusto per le bellezze della natura. Questi discorsi furono interrotti dall'arrivo di Montoni, il quale si mise a tavola senza mostra di avvedersi che vi fosse qualcuno vicino a lui.

Emilia, che l'osservava tacendo, vide nella sua fisonomia un'espressione più tetra e severa del solito. – Oh! se io potessi indovinare, – diss'ella tra sè, – i pensieri ed i progetti di quella testa, non sarei condannata a questo crudele stato d'incertezza! – Avanti la fine della colazione, passata nel silenzio, Emilia arrischiò la domanda del cambiamento della camera, allegando i motivi che ve la inducevano.

« Non ho tempo di occuparmi di queste inezie, » disse Montoni; « quella è la camera che vi fu destinata, e dovete contentarvene. Non è presumibile che nessuno siasi preso l'incomodo di salire una scala per chiudere una porta; se non lo era quando entraste, è probabilissimo che il vento abbia sospinto un chiavistello. Ma io non so perchè dovrei occuparmi d'una circostanza così frivola. »

Questa risposta non soddisfece punto Emilia, la quale avea notato come i chiavistelli fossero rugginosi, e per conseguenza non tanto facili a moversi. Non fe' noto questa sua osservazione, ma rinnovò la domanda.

« Se volete essere schiava di simili paure, » disse Montoni severamente, « astenetevi almeno dal molestare gli altri. Sappiate vincere tutte queste frivolezze, ed occupatevi nel fortificare il vostro spirito. Non avvi esistenza più spregevole di quella avvelenata dalla paura. » Sì dicendo, egli guardava fisso la moglie, la quale arrossì, e non proferì parola. Emilia, sconcertata ed offesa, trovava allora i suoi timori troppo giusti per meritare que' sarcasmi; ma vedendo che qualunque osservazione in proposito sarebbe inutile affatto, mutò discorso.

Carlo entrò di lì a poco portando frutti. « Vostra eccellenza dev'essere stanca di quella lunga passeggiata, » diss'egli mettendo le frutta sulla tavola; « ma dopo la colazione ci resta da vedere assai più: c'è un posto, nella strada sotterranea, che conduce a… »

Montoni aggrottò le ciglia e gli accennò di ritirarsi. Carlo troncò il discorso e chinò gli occhi; poi, avvicinandosi alla tavola, soggiunse: « Mi son presa la libertà, eccellenza, di portare alcune ciliege per le mie padrone: degnatevi gustarle, » diss'egli presentando il paniere alle donne; « sono buonissime; le ho colte io stesso; vedete, sono grosse come susine.

– Andiamo, andiamo, » disse Montoni impazientito, « basta così. Uscite ed aspettatemi, poichè avrò bisogno di voi. » Quando i due coniugi si furono ritirati, Emilia cercò distrarsi esaminando il castello. Aprì una gran porta e passò sui bastioni, contornati per tre lati da precipizii. L'ampiezza di essi ed il paese svariato cui dominavano eccitarono la di lei ammirazione. Percorrendoli, sostava ella sovente a contemplare la gotica magnificenza d'Udolfo, la sua orgogliosa irregolarità, le alte torri, le fortificazioni, le anguste finestrelle, le numerose feritoie delle torrette. Affacciatasi al parapetto, misurò coll'occhio la voragine spaventosa del sottoposto precipizio, di cui le nere cime delle selve celavano ancora la profondità. Dovunque volgea gli sguardi, non vedeva che picchi erti, tetri abeti e gole anguste, che internavansi negli Appennini, e sparivano alla vista tra quelle inaccessibili regioni. Stava così intenta quando vide Montoni accompagnato da due uomini che si arrampicavano per un sentiero praticato nel vivo sasso. Egli si fermò sopra un poggio considerando il bastione, e voltandosi alla scorta, si esprimeva con aria e gesti molto energici. Emilia conobbe che un di coloro era Carlo, e che solo all'altro, vestito da contadino, dirigevansi gli ordini di Montoni. Si ritirò dal muro al repentino fracasso d'alcune carrozze ed al tintinnar della campana d'ingresso, e le venne subito l'idea che fosse giunto il conte Morano. Tornò celeramente alla propria stanza, agitata da mille paure; corse alla finestra, e vide sul bastione Montoni che passeggiava con Cavignì: parevano intertenersi in animatissimo colloquio.

Mentre stava agitata e perplessa, udì camminare nel corridoio, ed Annetta entrò.

« Ah! signorina, » diss'ella, « è arrivato il signor Cavignì: son contentissima di veder finalmente una faccia cristiana in questo luogo. Egli è così buono, m'ha sempre dimostrato tanto interesse.... C'è pure il signor Verrezzi, ed un altro che voi non indovinereste mai.

– Il conte Morano forse, suppongo… » E cedendo all'emozione, cadde quasi svenuta sulla sedia.

– Il conte? Ma chi ve lo dice? No, signorina, egli non è qui, fatevi coraggio.

– Ne sei tu ben sicura?

– Sia lodato Iddio, » soggiunse Annetta, « che vi siete riavuta presto. In verità, vi credeva moribonda.

–-Ma sei proprio sicura che il conte non c'è?

– Oh! sicurissima. Io guardava da un finestrino nella torretta di settentrione, quando sono arrivate le carrozze: non mi aspettava certo una vista tanto cara in questa spaventosa cittadella. Ma ora vi sono padroni, servitori, e si vede un po' di moto. Noi staremo allegri: andremo a ballare e cantare nel salotto, ch'è lontano dall'appartamento del padrone. Ma, a proposito, Lodovico è venuto con loro. Vi dovete ricordare di Lodovico, signora Emilia: quel bel giovane che governava la gondola del cavaliere nell'ultima regata, e guadagnò il premio! Quello che cantava poesie così belle, sempre sotto la mia finestra, al chiaro della luna, a Venezia! Oh! come l'ascoltava io!

– Temo che que' versi non ti abbiano guadagnato il cuore, Annetta mia. Ma se è così, ricordati di non lasciarglielo capire. Adesso sono riavuta, e puoi lasciarmi.

– Mi scordava di domandarvi in qual maniera avete potuto riposare in questa antica e spaventosa camera la notte scorsa.

– Come secondo il solito.

– Non avete dunque inteso alcun rumore?

– No.

– Nè veduto nulla?

– Niente affatto.

– È sorprendente.

– Ma dimmi, per qual motivo mi fai tu queste interrogazioni?

– Oh! signorina, non ve lo direi per tutto l'oro del mondo, nè molto meno quel che mi fu raccontato di questa camera… Vi spaventereste troppo.

– Se è così, tu mi hai già spaventata. Potrai dunque dirmi tutto quel che ne sai senza aggravarti la coscienza.

– Dio Signore! si dice che compariscano spiriti in questa camera, e da un bel pezzo.

– Se è vero, gli è uno spirito che sa chiudere molto bene i chiavistelli, » disse Emilia sforzandosi di ridere, malgrado la sua paura. « Ieri sera lasciai quella porta aperta, e stamane l'ho trovata chiusa. »

Annetta impallidì, e tacque.

« Hai tu inteso dire che qualche servitore abbia chiusa questa porta stamattina prima ch'io mi alzassi?

– No, signora Emilia, vi giuro che non lo so, ma andrò a domandarlo, » disse Annetta correndo alla porta del corridoio.

– Fermati, Annetta, ho altre domande da farti. Dimmi quel che sai di questa camera e della scaletta segreta.

– Vado subito a domandarlo, signorina; eppoi son persuasa che la padrona avrà bisogno di me, e non posso più restare. » Ed uscì ratta, senza aspettare risposta. Emilia, sollevata dalla certezza che Morano non era arrivato, non potè astenersi di ridere del repentino terrore superstizioso di Annetta, benchè anch'ella se ne risentisse talfiata.

Montoni aveva negato ad Emilia un'altra camera, ed ella si decise a sopportar rassegnata il male che non poteva evitare. Procurò di rendere la sua abitazione più comoda che potè; situò su d'un grand'armadio la sua piccola biblioteca, delizia dei giorni felici, e consolazione nella sua malinconia, preparò le matite, avendo deciso di disegnare il sublime punto di vista che scorgevasi dalla finestra; ma rammentandosi quante volte avesse intrapreso anche altrove una distrazione di quel genere, e quante ne fosse stata impedita da nuove imprevedute disgrazie, titubò ad accingersi al lavoro, turbata dal presupposto prossimo arrivo del conte.

 

Per evitare queste penose riflessioni, si mise a leggere; ma la sua attenzione non potendo fissarsi sul libro che aveva in mano, lo buttò sul tavolino, e risolse di visitare il castello. Rammentandosi la strana istoria dell'antica proprietaria, si ricordò del quadro coperto dal velo, e risolse d'andarlo a scoprire. Traversando le stanze che vi conducevano, si sentì vivamente agitata: i rapporti di quel quadro colla signora del castello, il discorso di Annetta, la circostanza del velo, il mistero di quell'affare, eccitavano nell'anima sua un lieve sentimento di terrore, ma di quel terrore che s'impadronisce dello spirito, l'innalza ad idee grandiose, e, per una specie di magia, all'oggetto medesimo, che n'è la cagione.

Emilia camminava tremando, e si fermò un momento alla porta prima di risolversi di aprirla. Si avanzò verso il quadro, che parea di straordinaria grandezza e trovavasi in un canto; si fermò nuovamente; alla fine, con mano timida alzò il velo, ma tosto lasciollo ricadere. Non era un dipinto che aveva veduto, e, prima di poter fuggire, svenne sul pavimento.

Allorchè ebbe ricuperato l'uso de' sensi la rimembranza di ciò che aveva veduto la fece quasi mancare una seconda volta, ed ebbe appena la forza di uscir da quel luogo e di tornare nella sua camera. Quando vi fu rientrata, non ebbe coraggio di restarvi sola. L'orrore la dominava intieramente, e quando fu un poco riavuta, non seppe decidersi se dovesse informare la signora Montoni di ciò che aveva visto; ma il timore di esser nuovamente derisa, la determinò a tacere. Sedette alla finestra per riprender coraggio. Montoni e Verrezzi passarono di lì a poco; essi parlavano e ridevano, e la loro voce la rianimò alquanto. Bertolini e Cavignì li raggiunsero sul terrazzo. Emilia, supponendo allora che la signora Montoni fosse sola, uscì per recarsi da lei. Sua zia stava abbigliandosi pel pranzo. Il pallore e la costernazione della nipote la sorpresero assai, ma la fanciulla ebbe forza bastante per tacere, sebbene il labbro ad ogni momento fosse in procinto di tradirla. Restò nell'appartamento della zia fino all'ora del pranzo; essa vi trovò i forestieri, i quali avevano un aria insolita di preoccupazione, e parevano distratti da interessi troppo importanti, per fare attenzione a Emilia od alla zia: parlarono poco, e Montoni anche meno: Emilia fremè nel vederlo. L'orrore di quella camera le stava sempre innanzi, e cambiò colore temendo di non poter contenere l'emozione; ma potè vincere sè medesima, interessandosi ai discorsi ed affettando un'ilarità poco d'accordo colla mestizia del cuore. Montoni mostrava evidentemente riflettere a qualche grande operazione. Il pasto fu silenzioso. La tristezza di quel soggiorno influiva perfino sul giocondo carattere di Cavignì.

Il conte Morano non fu nominato. La conversazione s'aggirò tutta sulle guerre che in quei tempi laceravano l'Italia, sulla forza delle milizie veneziane e sulla bravura dei generali. Dopo il pranzo, Emilia intese che il cavaliere sul quale Orsino aveva saziata la sua vendetta, era morto in conseguenza delle ferite ricevute, e che l'omicida veniva cercato con cura. Questa notizia parve allarmar Montoni; ma seppe dissimulare, e s'informò dove fosse nascosto Orsino. Gli ospiti, eccettuato Cavignì, ignari che Montoni a Venezia ne avesse favorito la fuga, risposero che desso era scappato la medesima notte con tanta fretta e segretezza, che neppure i suoi più intimi amici non ne avevano saputo nulla.

Emilia si ritirò poco dopo colla signora Montoni, lasciando quei signori occupati nei loro consigli segreti. Aveva già Montoni avvertito la consorte, con cenni espressivi, a ritirarsi. Questa andò sui bastioni a passeggiare, nè aprì bocca: Emilia non interruppe il corso de' suoi pensieri. Essa ebbe bisogno di tutta la sua fermezza per astenersi dal comunicare alla zia il soggetto terribile del quadro. Si sentiva tutta convulsa, ed era tentata di palesarle ogni cosa per sollevarsi il cuore; ma, considerando che un'imprudenza della zia poteva perderle ambedue, preferì soffrire un male presente anzichè sottoporsi per l'avvenire ad uno maggiore. Essa aveva in quel giorno strani presentimenti. Le pareva che il suo destino l'incatenasse a quel luogo lugubre. Nondimeno, la rimembranza di Valancourt, la perfetta fiducia che aveva del suo amore costante, bastavano a versarle in seno il balsamo della consolazione.

Mentre appoggiavasi al parapetto del bastione, scorse in poca distanza parecchi operai ed un mucchio di pietre che parevano destinate a risarcire una breccia. Vide parimenti un antico cannone smontato. La zia si fermò per parlare co' lavoranti, domandandoli cosa facessero. « Si vuol risarcire le fortificazioni, signora, » disse uno di loro. Ella fu sorpresa che Montoni pensasse a que' lavori, tanto più ch'ei non le aveva mai manifestata l'intenzione di voler soggiornare colà lunga pezza. Si avanzò verso un'alta arcata che conduceva al bastiono di mezzogiorno, e che, essendo unita da una parte al castello, sosteneva una torretta di guardia dominante tutta la valle. Nell'avvicinarsi a quell'arcata, vide da lontano scendere dai boschi una numerosa truppa di cavalli e d'uomini, cui riconobbe per soldati al solo splendore delle lance e delle altre armi, giacchè la distanza non permetteva di giudicare esattamente dei colori. Mentre guardava, l'avanguardia uscì dal bosco, ma la truppa continuava a stendersi fino all'estremità del monte. L'uniforme militare si distingueva nelle prime file, alla testa delle quali inoltrava il comandante, che pareva dirigere la marcia delle schiere, avvicinandosi gradatamente al castello.

Un tale spettacolo, in quelle contrade solitarie, sorprese ed allarmò singolarmente la Montoni, la quale corse in fretta da alcuni contadini che lavoravano all'altro bastione, a domandar loro cosa fosse quella truppa. Queglino non poterono darle alcuna risposta soddisfacente; e, sorpresi anch'essi, osservavano stupidamente la cavalcata. La signora, credendo necessario comunicare al marito il soggetto della di lei sorpresa, mandò Emilia per avvertirlo che desiderava parlargli. La nipote non approvava l'ambasciata, temendo il mal umore dello zio; pure obbedì senza aprir bocca.

Nell'avvicinarsi alle stanze, ove si trovava Montoni cogli ospiti, Emilia udì una contesa violenta. Si fermò temendo la collera che poteva produrre il suo arrivo inaspettato. Poco dopo tacquero tutti; allora essa ardì aprir la porta. Montoni si volse vivamente, e la guardò senza parlare; ella eseguì la commissione. « Dite alla signora che sono occupato, » ei le rispose.

La fanciulla credè bene raccontargli il motivo dell'ambasciata. Montoni e gli altri si alzarono tosto e corsero alle finestre; ma, non vedendo le truppe, andarono sul bastione, e Cavignì congetturò dovesse essere una legione di condottieri in marcia per Modena. Parte di quella soldatesca era allora nella valle, l'altra risaliva i monti verso ponente, e la retroguardia era ancora sull'orlo dei precipizi, dond'erano venuti. Mentre Montoni e gli altri osservavano quella marcia militare, s'udì lo squillo delle trombe e dei timpani, i cui acuti suoni venivan ripetuti dagli echi. Montoni spiegò i segnali, di cui pareva espertissimo, e concluse che non avean nulla di ostile. La divisa dei soldati e la qualità delle armi lo confermarono nell'opinione di Cavignì; ebbe la soddisfazione di vederli allontanare, nè ritirossi fintantochè non furono intieramente scomparsi.

Emilia, non sentendosi bastantemente rimessa per sopportare la solitudine della sua camera, rimase sul baluardo fino a sera. Gli uomini cenarono fra loro. La signora Montoni non uscì dalle sue stanze: Emilia recossi da lei prima di ritirarsi, e la trovò piangente ed agitata. La tenerezza della nipote era naturalmente così insinuante, che riusciva quasi sempre a consolare gli afflitti; ma le più dolci espressioni a nulla valsero colla zia. Ella finse, colla solita delicatezza, di non osservare il dolore di lei, ma ne' modi usò una grazia così squisita, una premura così affettuosa, che quella superba se ne offese. Eccitare la pietà della nipote, era per lei un affronto sì crudele pel suo orgoglio, che s'affrettò a congedarla. Emilia non le parlò della sua estrema ripugnanza a trovarsi isolata; le chiese soltanto in grazia che Annetta potesse restare con lei fino al momento di coricarsi. L'ottenne a stento; e siccome Annetta allora era co' servitori, le convenne ritirarsi sola. Traversò veloce le lunghe gallerie. Il fioco chiarore del lume non serviva che a rendere più sensibile l'oscurità, ed il vento minacciava di spegnerlo ad ogni istante. Passando davanti la fuga delle stanze visitate la mattina, credette udir qualche suono, ma guardossi bene dal fermarsi per accertarsene. Giunta alla sua camera, non vi trovò neppure una scintilla di fuoco. Prese un libro per occuparsi, finchè Annetta venisse; ma la solitudine e la quasi oscurità la piombarono nuovamente nella desolazione, tanto più ch'era prossima al luogo orribile scoperto la mattina. Non sapendo risolversi a dormire in quella stanza dove per certo la notte precedente era entrato qualcuno, aspettava Annetta con penosa impazienza, volendo saper da lei un'infinità di circostanze. Desiderava egualmente interrogarla su quell'oggetto d'orrore, di cui la credea informata, sebbene inesattamente. Stupiva però, che la camera che lo conteneva restasse aperta tanto imprudentemente. Il fioco chiarore diffuso sulle pareti dal lume presso a spegnersi, aumentava il suo terrore. Si alzò per tornare nella parte abitata del castello, prima che l'olio fosse totalmente consunto.

Nell'aprir la porta, intese alcune voci, e vide un lume in fondo al corridoio. Era Annetta con un'altra serva. « Ho piacere che siate venute, » disse Emilia; « qual cagione vi ha trattenute tanto? Favorite di accendere il fuoco.

– La padrona aveva bisogno di me, » rispose Annetta un poco imbarazzata. « Vado subito a prendere le legna.

– No, » disse Caterina, « è incombenza mia. » Ed uscì. Annetta voleva seguirla; ma Emilia la richiamò, ed ella si mise a parlar forte e a ridere, come se avesse avuto paura di stare silenziosa.

Caterina tornò colle legna, e tostochè fu acceso il fuoco e la serva se ne fu andata, la fanciulla domandò ad Annetta se avesse prese le informazioni ordinatele.

« Sì, signora, » rispose la ragazza, « ma nessuno sa nulla. Io ho osservato Carlo con attenzione, perchè dicono ch'egli sappia di cose strane; quel vecchio ha una cert'aria che non saprei esprimere: mi domandò più volte se era ben sicura che la porta della scaletta segreta non fosse chiusa. – Sicurissima, gli risposi. In verità, signorina, son tanto sbalordita, che non so quel che mi dica. Non vorrei dormire in questa camera più che sul cannone del baluardo, là in fondo.

– E perchè meno su quel cannone che in qualunque altra parte del castello? » disse Emilia sorridendo. « Credo che il letto sarebbe duro.

– Sì, ma non si può trovarne un più cattivo. Il fatto sta che la notte scorsa fu veduto qualcosa vicino a quel cannone, che vi stava come di guardia.

– E tu credi a tutte le favole che ti spacciano?

– Signorina, vi farò vedere il cannone di cui si tratta. Voi potete scorgerlo qui dalla finestra.

– È vero, ma è una prova che sia guardato da un fantasma?

– Come! Se vi faccio vedere il cannone, non lo credete neppure allora?

– No, non credo altro se non quel che vedo co' miei occhi.

– Ebbene, lo vedrete, se volete avvicinarvi soltanto alla finestra. »

Emilia non potè trattener le risa, e Annetta parve sconcertata. Vedendo la di lei facilità a credere al maraviglioso, la fanciulla credè bene astenersi dal parlarle del soggetto del suo terrore, temendo ch'ella soccombesse a paure ideali. Parlò dunque delle regate di Venezia.

« Oh! sì, signorina, » disse Annetta, « que' bei lampioni e quelle belle notti al chiaro di luna: ecco che cosa c'è di magnifico a Venezia; son certa che la luna è più bella in quella città che altrove. Che musica deliziosa si sentiva! Lodovico cantava così spesso vicino alla mia finestra, sotto il portico! Fu Lodovico a parlarmi di quel quadro che avevate tanta smania di vedere ieri.

– Che quadro? » disse Emilia, volendo far parlare Annetta.

 

– Quel quadro terribile col velo nero.

– L'hai tu veduto?

– Chi? io? giammai; ma stamattina, » continuò la cameriera, parlando sottovoce e guardandosi intorno, « stamattina, quando fu giorno chiaro, – voi sapete ch'io aveva un gran desiderio di vederlo, ed aveva inteso strane cose in proposito, – andai fino alla porta decisa di entrarvi, ma la trovai chiusa. »

Emilia fremette, e temendo d'essere stata osservata, poichè la porta era stata chiusa sì poco tempo dopo la sua visita, tremava la sua curiosità non le attirasse la vendetta di Montoni; e comprendendo quel soggetto essere troppo spaventoso per occuparsene a quell'ora, cambiò discorso. Era vicina la mezzanotte, e Annetta accingeasi ad andarsene, allorchè intesero suonare la campana della porta d'ingresso; ristettero spaventate: dopo una lunga pausa udirono il rumore di una carrozza nel cortile; Emilia si abbandonò sopra la sedia esclamando: « È il conte senz'altro.

– A quest'ora! oh no! parendomi impossibile ch'egli abbia scelto questo momento per arrivare in una casa.

– Cara mia, non perdiamo tempo in vani discorsi, » disse Emilia spaventata; « va, te ne prego, va a vedere chi può essere. »

Annetta uscì portando via il lume, e lasciandola all'oscuro: ciò le avrebbe fatto paura qualche minuto prima, ma in quel momento non ci badava: aspettava ed ascoltava quasi senza respirare. Infine Annetta ricomparve.

« Sì, » diss'ella, « avevate ragione; è il conte.

– Giusto cielo! » sclamò Emilia; « ma è proprio lui? l'hai realmente riconosciuto?

– Sì, l'ho veduto distintamente; sono andata al finestrino della corte occidentale che, come sapete, guarda nel cortile intorno. Ho veduto la sua carrozza, ov'egli aspettava qualcuno: vi erano molti cavalieri con torce accese. Quando gli si presentò Carlo, disse alcune parole ch'io non potei capire, e scese in compagnia d'un altro signore. Credendo che il padrone fosse già in letto, corsi al gabinetto della padrona per saper qualcosa; incontrai Lodovico, dal quale seppi che il signor Montoni vegliava ancora, e teneva consiglio cogli altri signori in fondo alla galleria di levante. Lodovico mi fe' segno di tacere, ed io son tornata subito qui. »

Emilia domandò chi fosse il compagno del conte, e come li avesse ricevuti Montoni; ma Annetta non potè dirle nulla.

« Lodovico, » soggiuns'ella, « andava appunto a chiamare il cameriere del padrone per informarlo di questo arrivo, allorchè io lo trovai. »

Emilia restò alcun tempo incerta; finalmente pregò Annetta di andar a scoprire, se fosse possibile, l'intenzione del conte venendo al castello.

« Volentieri, » rispose l'altra; « ma come potrò io trovare la scala, se vi lascio la lucerna? »

Emilia si offrì di farle lume. Quando furono in cima alla scala, essa riflettè che poteva essere veduta dal conte, e, per evitar di passare pel salone, Annetta la condusse per vari anditi ad una scala segreta che metteva nel tinello.

Tornando indietro, Emilia temè di smarrirsi, ed essere nuovamente spaventata da qualche misterioso spettacolo, e fremea all'idea di aprire una sola porta. Mentre stava perplessa e pensierosa, le parve udire un singulto; si fermò, e ne sentì un altro distintamente: avea a destra parecchi usci; tese l'orecchio; quando fu al secondo, intese una voce lamentevole, ma non sapeva decidersi ad aprir la porta, o ad allontanarsi. Riconobbe sospiri convulsi e le querele d'un cuore alla disperazione: impallidì, e considerò ansiosa le tenebre che circondavanla: i lamenti continuavano; la pietà vinse il terrore. Nella probabilità che le di lei attenzioni valessero a consolarlo, depose il lume, ed aprì la porta pian piano: tutto era tenebre, tranne un gabinetto in fondo d'onde trapelava una fioca luce. Parendole riconoscere la voce, si avanzò adagio, e vide sua zia appoggiata al tavolino, col fazzoletto agli occhi… Essa restò immobile per lo stupore.

Un uomo stava assiso vicino al caminetto, ma non potè distinguerlo, perchè le voltava le spalle; tratto tratto egli diceva qualche parola sottovoce, che non potevasi intendere, ed allora la zia piangeva più forte. Avrebbe Emilia voluto indovinare il motivo di quella scena, e riconoscere colui che a quell'ora si trovava colà: non volendo però aumentare le smanie della zia scuoprendo i suoi segreti, si ritirò con cautela, e, sebbene a stento, le riuscì di trovare la sua camera, ove in breve altri interessi le fecero obliare la di lei sorpresa.

Annetta tornò senza risposta soddisfacente. I servi, coi quali aveva parlato, ignoravano il tempo che il conte doveva restare nel castello: non parlavano che delle strade cattive percorse, dei pericoli superati, e maravigliavansi che il loro padrone avesse fatto quella strada a notte così avanzata. Ella finì col chiedere il permesso d'andarsi a riposare.

Emilia, conoscendo che sarebbe stata una crudeltà il trattenerla, la congedò. Rimase sola, pensando alla propria situazione ed a quella della zia; e gli occhi di lei fermaronsi alfine sul ritratto trovato nelle carte che il padre aveale imposto di ardere, e che stava sul tavolo con vari disegni estratti da una scatoletta poche ore innanzi: tal vista la immerse in tristi riflessioni, ma l'espressione commovente del ritratto ne addolciva l'amarezza. Guardò intenerita que' leggiadri lineamenti; d'improvviso, ricordossi conturbata le parole del manoscritto trovato colla miniatura, e che allora aveanla compresa d'incertezza e d'orrore. Infine, si riscosse, e decise di coricarsi; ma il silenzio, la solitudine in cui si trovava a quell'ora tarda, l'impressione lasciatale dal soggetto cui stava meditando, le ne tolsero il coraggio. I racconti di Annetta, benchè frivoli, aveanla però conturbata, tanto più dopo la spaventosa circostanza ond'ella era stata testimone poco lungi dalla sua camera.

La porta della scala segreta era forse il soggetto d'un timore meglio fondato. Decisa a non ispogliarsi, si gettò vestita sul letto; il cane di suo padre, il buon Fido, coricato ai di lei piedi, le serviva di sentinella.

Preparata così, procurò di bandire le triste idee; ma il suo spirito errava tuttavia sui punti che più l'interessavano, e l'orologio suonò le due prima ch'ella potesse chiuder occhio. Cedè finalmente ad un sonno leggero, e ne fu svegliata da un rumore che le parve sentire in camera. Tremante alzò il capo, ascoltò attenta: tutto era nel silenzio; credendo essersi ingannata, si riadagiò sul guanciale.

Poco dopo il rumore ricominciò: pareva venir dalla parte della scaletta. Si rammentò allora il disgustoso incidente della notte scorsa, in cui una mano ignota aveva socchiuso quell'uscio. Il terrore le agghiacciò il cuore. Si alzò sul letto, e stirando lievemente il cortinaggio, osservò la porta della scala. Il lume che ardeva sul caminetto spandeva una luce fiochissima. Il rumore che credeva venire dalla porta continuò a farsi sentire. Le pareva che ne smovessero i chiavistelli; poi si fermavano, e quindi ricominciavano pian piano, come se avessero temuto di farsi udire. Mentre Emilia fissava gli occhi da quella parte, vide l'imposta muoversi, aprirsi lenta e qualcosa entrare in camera, senza che l'oscurità le permettesse distinguer nulla. Quasi morta dallo spavento, fu abbastanza padrona di sè stessa per non gridare e lasciar ricader la cortina. Osservò tacendo quell'oggetto misterioso, il quale pareva cacciarsi nelle parti più oscure della camera, poi talvolta fermarsi; ma quando si avvicinò al camino, Emilia potè distinguere una figura umana. Una tetra rimembranza fu quasi per farla soccombere. Continuò nonostante ad osservar quella figura, la quale restò immobile buona pezza, e si avvicinò quindi pian piano ai piedi del letto. Le cortine, socchiuse alquanto, permettevano alla fanciulla di vederla; ma il terrore la privava perfin dalla forza di fare un movimento. Dopo un istante, la figura tornò al camino, prese il lume, considerò la camera, e riaccostossi adagio al letto. I raggi della lampada svegliarono allora il cane, il quale saltò a terra, latrò forte, e corse sull'incognito, che lo respinse colla spada coperta dal fodero. Emilia riconobbe il conte Morano. Essa lo guardò muta dallo spavento. Egli cadde in ginocchio, scongiurandola di non temere, e gettando il ferro, volle prenderle una mano. Ma, ricuperando allora le forze paralizzate dal terrore, Emilia saltò giù dal letto, Morano si alzò, la seguì verso la porta della scaletta, e la fermò mentre ne toccava il primo gradino; ma già al chiarore d'un lume, essa aveva veduto un altr'uomo a metà della scala medesima. Gettò un grido di disperazione, e, credendosi tradita da Montoni, si diè per perduta.