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Kitobni o'qish: «Racconti e novelle», sahifa 15

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I primi passi alla scienza

Lo stradale che da Milano conduce a Pavia, al cominciare del novembre 1839, presentava l'aspetto di un corso. Era l'epoca nella quale gli studenti si recano all'Università per corroborare l'intelletto colla scienza, e lo stomaco col vino di Stradella e di Voghera.

L'avvocato Griffanti, il giorno cinque di novembre noleggiò dunque una vettura per accompagnare il proprio figliuolo Annibale fino alle porte dell'Ateneo. Il viaggio fu lungo, e le prediche dell'ottimo padre più lunghe ancora e forse più noiose. Annibale ascoltava, fingeva di ascoltare, interrompendo di tempo in tempo il buon vecchio con un: sì, papà, accompagnato da un leggiero chinar del capo.

– Figliuol mio, tu mi costi un occhio della testa. Dal giorno che io e tua madre ti abbiam dato alla luce, ho speso pel tuo mantenimento fisico ed intellettuale diecimila cinquecento trenta lire e sessanta centesimi. È inutile che io ti faccia notare che più cresci in età, e più danaro mi consumi. Ad opera finita mi verrai a costare ventimila lire incirca; somma considerevole, che tu, quando avrai compiuto il corso degli studi, non saprai riguadagnare in vent'anni d'avvocatura. Comprendi tu l'importanza e la gravezza dei sacrifici paterni?

– Sì, papà.

– Io potevo destinarti ad un'arte volgare; e forse a quest'ora tu saresti un eccellente falegname, o un sarto, un parrucchiere, e guadagneresti di che vivere col frutto delle tue fatiche, ed io sarei esonerato da ogni dispendio. Tu desiderasti addottorarti in ambo le leggi: io non mi opposi alla tua vocazione. Bada però che siamo ancora in tempo a far un passo addietro, e se quest'anno non metti la testa a partito, se, trascinato dal tuo mal genio, o corrotto dalle cattive pratiche, non corrispondi alle speranze ch'io ho di te concepite, l'anno venturo ti mando senz'altro a bottega. Lo studio dell'avvocatura non presenta grandi difficoltà; a' miei tempi ho veduto addottorarsi certi pecoroni, che in zucca non aveano due grani di sale; eppure oggigiorno essi occupano cariche distinte, e sanno farsi pagar caro anche dai clienti che mandano in rovina. Ma io so che lo studiare non ti incresce, e da questo lato me ne sto tranquillo…

– Sì, papà.

– Ciò che mi preoccupa maggiormente è il pensiero della tua condotta economico-morale. Ah! quella benedetta economia! Essa è il fondamento di tutto lo scibile umano. Io credo che, a' miei tempi, un giovane regolato, in Pavia, poteva passarsela assai bene con venticinque soldi il giorno, o poco più. È una città dove si vive anche oggigiorno a buon patto; vi sono delle trattorie dove per quindici soldi si hanno due piccole, la minestra e il giardinetto. Il vino (di cui però ti consiglio ad astenerti), costa a un dipresso sei soldi al boccale; come tu vedi, si può quindi con venti soldi circa fare un pranzo lautissimo. Anche gli alloggi sono a buon prezzo; io spero trovarti una camera decente per lire quindici al mese. Ecco dunque, pel prezzo di quaranta lire al mese, proveduto di pranzo e d'alloggio. L'altre spese di colazione, cena, lavatura di biancheria, libri, penne, ceralacca, zolfanelli, ponno ammontare ad altre quindici lire; si aggiungano altre due lire pei minuti piaceri, ed ecco con sessantadue lire te la passi da principe. Non ti pare che io abbia ben calcolato?

– Si, papà.

– Cionondimeno io voglio essere largo. Io ti ho destinata una pensione di lire ottanta, che riceverai regolarmente, di trenta in trenta giorni, dal mio corrispondente. Sai tu che a Milano, con ottanta lire al mese, vivono molti impiegati, i quali hanno moglie e figliuoli, e fanno una bella figura nel mondo?..

– Si, papà… fanno delle belle figure!.. borbotta Annibale fra i denti.

– Nella valigia troverai una macchinetta per cuocere il caffè, la stessa di cui mi sono servito io quando studiava all'Università. Il caffè è una bevanda eccellente per isvegliare lo spirito dopo tre o quattro ore di profondo studio; nondimeno ti consiglio ad usarne con moderazione. Una tazza ogni mattina, due tre fette di pane, ed ecco hai fatta una colazione più che sufficiente. Durante il giorno non ti consiglio di farne uso, tranne in caso di indigestione; ma un giovane costumato e dabbene non deve andar soggetto alle indigestioni. Con un pranzo di venticinque soldi, si previene qualunque indisposizione di tal genere; nella valigia troverai tanto caffè e tanto zuccaro quanto ti potrà bastare per due mesi. Posso io sperare che non abuserai delle larghezze paterne?

– Sì, papà.

– Avverti bene, figliuol mio, che noi non siamo ricchi. Tu hai quattro fratelli e tre sorelle, alla cui educazione io debbo pensare. Alla mia morte d'altro non vi lascio eredi che d'un nome onorato; in altri tempi il nome era un capitale, al giorno d'oggi gli è quasi una passività. Oh! potessi prima di chiuder gli occhi all'eterno sonno, vedere i miei figli ben avviati! È l'unico compenso che io vi domando, in mercede del tanto che ho già fatto, e che farò per l'utile vostro. Annibale, tu devi precedere gli altri coll'esempio… tu puoi colla tua condotta essere il decoro ed il sostegno della nostra famiglia, o immergerla nella desolazione e nella miseria. Sovvengati della tua povera madre… dei savi consigli ch'ella spesso ti ripeteva… e dirigi ogni tua azione come s'ella ti fosse presente.

– Sì, papà.

Annibale era commosso. La memoria della madre perduta fece in quel giovine cuore di diciannove anni maggior impressione che non i calcoli e le esortazioni precedenti. Egli profferì mentalmente la promessa di essere mai sempre costumato e studioso, e in pari tempo si asciugò una lagrima dalle ciglia. L'avvocato Griffanti, attribuendo la commozione del figlio all'effetto delle sue eloquenti parole, sorrise di compiacenza e d'orgoglio. Il padre e l'avvocato non avevano ottenuto mai un più grande trionfo.

Quando piacque al cielo, la vettura giunse alle porte di Pavia. Trovata una camera decente, Annibale vi fece trasportare la propria valigia, poscia in compagnia del padre si recò a pranzare in una modesta trattoria, dove malgrado tutte le osservanze economiche, vennero a spendere circa dieci lire.

Un'ora dopo, l'avvocato Griffanti ha risoluto di tornare a Milano. Annibale riceve colla massima compunzione le ottanta lire della pensione e un centinajo di consigli più meno seccanti; il padre ed il figlio si abbracciano teneramente; questi si avvia passo passo alla sua abitazione, e poco dopo s'affaccia alla finestra zufolando, unico mezzo di distrazione per chi non è abituato a fumare dieci o dodici zigari al giorno.

Ed ecco tre studenti vengono a passare sotto la finestra. L'un d'essi è un intimo amico di Annibale, un capo sventato, già celebre al liceo di Sant'Alessandro, per poca volontà di studiare e moltissima volontà di divertirsi.

– Buon giorno, Annibale!

– Oh! tu pure all'Università?

– Mio padre ha secondata la mia vocazione. Intendo applicarmi alle matematiche. E tu, da quando sei arrivato?

– Da sta mattina a mezzo giorno.

– Se permetti, vengo a farti una visita, in compagnia di questi buoni amici.

– Prenderemo insieme una tazza di caffè.

I tre studenti salgono rapidamente le scale, entrano nella camera d'Annibale, e sedendo chi sulle scranne, chi sul letto, cominciano a conversare lietamente delle faccende loro. Annibale, per fare onore ai suoi ospiti, dà fuoco alla macchinetta, e prepara il caffè.

– È permesso?

– Avanti.

– Si può far conoscenza coi nostri vicini?

– Con chi ho l'onore di parlare?

– Con un anziano, che da quattordici anni studia le scienze mediche.

– Ben giunto! Presto; un altro bicchier d'acqua e due cucchiai di caffè.

Il nuovo arrivato è un uomo di circa trentadue anni, di professione studente, grasso, rotondo, barbuto, un naso fatto a guisa di peperone, che a forza di immergersi nelle scodellette del vino piemontese, in sulla punta è divenuto pavonazzo. Nell'entrare egli stringe la mano ai quattro matricolini, ed assumendo un tuono autorevole e misurando a gran passi la stanza, improvvisa una predica, i cui concetti morali sono press'a poco del tenore seguente:

– Voi cominciate, ed io ho quasi finito. Gli anni più belli della vita son quelli che si passano all'Università! guai a chi non sa profittarne! Gli studi sono un pretesto, un eccellente pretesto per emanciparsi dalla sorveglianza, dalla tirannia dei parenti. Allegri dunque, figliuoli! A scuola meno che possibile; la vera scienza si acquista nelle osterie, fra buoni compagnoni, con un fiasco di vino sulla tavola. A Pavia, checchè ne dicano taluni, si può passarsela allegramente; il vino è a buon patto, vi hanno osterie eccellenti, trattorie e caffè dove si paga metà a chiacchiere, metà a pugni, e le donne… per chi sa snidarle… sono belle ed amabili anche qui come negli altri paesi del globo. Penetrato da siffatte verità, io non mi sono affrettato di troppo a domandare l'alloro dottorale. Ho già veduto due generazioni di studenti passarmi dinanzi, ed ho sorriso di compassione nell'osservare con qual ansia affannosa corrano taluni verso una meta, che è il principio di tutte le calamità. La laurea dottorale è la tomba della giovinezza. Figliuoli, io vi metterò sulla buona strada. Le vostre menti ancora intorpidite hanno bisogno di una scossa. Tutto dipende dai primi passi, dalle prime lezioni. Slanciatevi senza paura, e sarete salvi. Io non dubito che voi abbiate delle disposizioni eccellenti per fare una buona riuscita… Ercole Roccadura, il decano degli studenti di medicina, vi stende la mano, e promette scortarvi coi propri lumi, colla propria esperienza.

Annibale e i suoi compagni son commossi di entusiasmo, e, facendosi intorno all'oratore, con un misto di confidenza e di venerazione, gli dicono ad una voce:

– Qual fortuna d'aver fatta la vostra conoscenza!

– A scuola meno che è possibile!

– Viva l'allegria! viva le donne… ed il vino!

– Viva gli studenti! Viva il decano Ercole Roccadura!

In meno di un quarto d'ora, nella stanza del giovane studente è un vero baccanale. Roccadura invita a salire tutti gli amici che passano nella via; Annibale gli accoglie colla cordialità del perfetto gentiluomo; la macchinetta suda perennemente a preparare il caffè per ogni nuovo arrivato, e dopo aver preparato il caffè, suda di bel nuovo per l'ebollizione dei punchs.

– Che bella compagnia! grida Roccadura, dominando colla sua gran voce e colla sua gran barba l'intera assemblea. Questo si chiama inaugurar bene l'anno scolastico! Veggo che il nostro matricolino ha belle disposizioni… Questi punchs sono eccellenti! Viva gli amici degli amici!

– Viva! urlano ad una voce gli altri studenti.

– Poichè s'è cominciato, tant'è che si finisca allegramente! Se invitassimo a prendere il punch… Ah!.. vediamo se le due Caruccelli stanno ancora qui dirimpetto…?

– Chi sono le Caruccelli?

– Due ragazze… due modiste… di buona volontà… vere figlie dell'amore… amiche degli studenti… matte per il punch e pel vino d'Asti… due ballerine numero uno! Ah! vi giuro, se io posso indurle a passare la serata con noi, me ne avrete all'indomani infinite obbligazioni.

– Presto, si chiamino le Caruccelli…

– Io mi incarico di snidarle dal loro coviglio e condurvele innanzi belle e spiumate.

Roccadura esce per pochi istanti, quindi rientra accompagnando le modiste, che non sono nè giovani, nè belle, nè amabili, e nullameno vengono accolte dagli studenti con una esplosione di applausi fragorosi.

– Presto! una tazza di punch… alle donne… Bella Marietta… adorabile Carolina…

Libare a nappo amico

Spero che a voi non gravi!

– Il punch mi fa male, risponde Carolina.

– Preferirei un bicchiere di vino d'Asti… soggiunge l'altra strega.

– Vino d'Asti! Annibale, presto! si mandi a prendere del buon vino d'Asti… Al caffè qui sull'angolo… ve n'ha di squisito… Onore, gloria e servitù al bel sesso!

Le due donne si accovacciano in un angolo della camera. L'una si diverte a masticar caffè tostato, l'altra, per preparare lo stomaco al vino d'Asti, trangugia d'un fiato un bicchiere di rhum, che Annibale le offre recitando una stroffetta di Metastasio.

Poco dopo, Roccadura entra colle bottiglie. La vista del liquore spumante rianima la festa, cui, per dir vero, la presenza delle Caruccelli non aveva aggiunto alcun brio. Carolina e Marietta s'affrettano a vuotare parecchi bicchierini; le loro guancie si colorano di porpora, gli occhi sfavillano cisposi, le lingue si snodano, e ai tanti complimenti, alle tante dichiarazioni e proteste da cui sono assediate, rispondono anch'esse colle espressioni più amabili e più sentimentali, ingemmando i loro discorsi di tutte le eleganze e le grazie del dialetto pavese.

– Ora vediamo di utilizzare queste donne a beneficio di tutti, esclama Roccadura. Io direi che si rinculassero i tavolini e gli altri mobili inutili, e qui senz'altri apparecchi, si improvvisasse una festa da ballo. All'orchestra ci penso io. L'amico Bogni suonerà l'ottavino, io corro a prendere il mio bombardone, e vi giuro che noi due soli faremo tanto fracasso da far ballare anche le pareti della casa. Annibale, tu bada a tener accesa la macchina.

– Dopo il vino d'Asti, queste signore non rifiuteranno di prendere anche il punch… Io conosco il mal delle bestie… Su! snodate le gambe! e viva l'allegria!

In meno di due minuti la sala è preparata per la festa. Bogni e Roccadura ritornano co' loro strumenti, montano sul letto, mettono la piva in becco, e i ballerini si slanciano, mandando urli frenetici, e facendo traballare il pavimento.

Annibale è pazzo dalla gioia. Il punch, il vino d'Asti, il caffè, il contatto di quelle donne, che sebbene non abbiano le forme ed i vezzi di Venere, hanno però quanto basta ad esaltare l'immaginazione d'un giovinotto di sedici anni, cioè una gonnella e quattro sottane inamidate; la gioia di trovarsi libero da ogni sorveglianza; il frastuono, il ballo, le grida, il polverìo che si solleva dai mattoni, tutto concorre ad infiammargli il cervello. Le due Caruccelli lo esortano a bere, ballano sovente con lui, e nel fervore della danza gli stringono di tempo in tempo la mano in segno di predilezione. Egli ad ogni valzer, ad ogni galoppe, diventa più ardito; fa mille dichiarazioni d'amore in tono patetico e sentimentale, e dopo aver giurato eterna fede ad ambedue le sorelle, promette sposarle appena compiuto il corso degli studi.

L'intemperante allegria degli studenti ha già portato qualche guasto nei mobili. Lo specchio è caduto dalla tavola da notte, ed ha mandato in frantumi una diecina di bottiglie vuote, la catinella ed il vaso dell'acqua. Marietta colla coda delle sue sottane s'è tirata dietro la guantiera con dieci o dodici fra chicchere e bicchieri colmi di punch. Roccadura, battendo la misura col piede, ha spezzato le assi del letto, che dividendosi in quattro parti, sprofonda i due suonatori fra i guanciali ed il pagliericcio, rinversando in pari tempo il vaso da notte.

Due studenti liberatisi dal paletot, si involgono nello scialle delle modiste; queste indossano il paletot degli studenti, e appena Annibale ha finito di aggiustarsi sul capo la cuffia di Marietta e farsi col sughero due enormi mustacchi, la porta si apre inaspettatamente, e l'avvocato Griffanti comparisce in sul limitare.

Annibale rimane interdetto, immobile, pietrificato. Le donne vanno a nascondersi dietro le cortine; malauguratamente, in quella rapida evoluzione, una d'esse spinge col gomito la bottiglia dell'alcool, che, versandosi in sulla macchinetta, prende subito fuoco e cola sul pavimento come una lava.

L'avvocato Griffanti contempla per qualche minuto senza dir parola quello spettacolo di disordine e di devastazione; poi con voce tranquilla, senza avanzarsi d'un passo dice al figliuolo:

– La vettura, con che io doveva recarmi a Milano, è ribaltata in un fosso a due miglia dalle porte; come tu vedi, ho dovuto retrocedere, e questa notte resterò ancora in Pavia. Quando hai sbrigate queste tue faccende, vieni a trovarmi all'osteria della Croce bianca, dove vado ad attenderti.

– Si, papà… risponde Annibale fregandosi colle dita i mustacchi e levandosi coll'altra mano la cuffia di Marietta.

E mentre l'avvocato Griffanti si allontana a lenti passi va mormorando: – Alla sua età ho fatto anch'io lo stesso e forse peggio.. e con tutto ciò sono dottore. Ah! siamo pur ridicoli, noi altri papà!..

Ciò che si vuole

I

Chi ha moglie, non legga. Le scene che qui trascrivo non possono interessare che gli innamorati e i fidanzati, quei felici che sono ancora in tempo a sfuggire il fatal laccio. I mariti non hanno che a rassegnarsi e a pregar Dio che ammollisca o sdruscisca le loro catene. Che potrebbero essi apprendere di nuovo, qual frutto ricavare dal riflesso di questi bozzetti?

Ecco in qual modo Valentina Cornalbo, alla vigilia delle sue nozze, scriveva a Clotilde Bellocchio:

«Mia tenera amica,

«Domani nella chiesa di San Bartolomeo, in presenza degli uomini e del cielo, io diverrò sposa di Cristoforo Montorio, agente comunale della nostra borgata, ricco possidente, segretario della fabbriceria, capo della confraternita, direttore della banda civica, membro onorifico della Società d'incoraggiamento per l'ingrasso dei campi, ecc. Questo matrimonio, come ti dissi altre volte, fu progettato e condotto a compimento dalla mia buona zia Carmelinda, la quale mi ha sempre raccomandato di preferire uno sposo costumato e dovizioso ad uno di questi azzimati bellimbusti, che hanno molta apparenza e poca sostanza. Cristoforo non è bello, pure ha molte qualità interessanti, e sebbene il suo aspetto non risponda all'ideale delle mie fantasie giovanili, spero col volger del tempo corrispondergli quella tenerezza e quell'amore, che fino ad oggi non seppe ispirarmi. Se tu vedessi i bei regali da nozze! Quando io penso che domani tutte queste perle brilleranno sui miei capelli…! Oh, il mio Cristoforo è un uomo… adorabile. Il vestito da nozze è di una magnificenza… di una eleganza… E i braccialetti! Figurati… quattro braccialetti… l'uno di forma di serpente, colle spire screziate a mille colori e gli occhi di diamante; l'altro… una ghirlanda di viole colorita da mille pietruzze; il terzo… un gran medaglione su cui spicca il ritratto di Montorio… in abito di presidente della confraternita… Oh il mio Cristoforo! Io sento che un giorno o l'altro sarò costretta a volergli bene… anche a lui. E i libri di preghiera, legati in velluto, con mille rabeschi d'argento! E il ventaglio! E questo magnifico orologio d'oro… con una catena lunga dieci braccia! Che posso desiderare di più? Domani mi metterò addosso tutte queste belle forniture. Domani!.. Ah Clotilde!.. come io bramerei che tu mi vedessi così bardata! Mio marito, dopo la cerimonia, vuol condurmi a fare un viaggio… fino a Milano; al mio ritorno verrò a farti una visita. Io non intendo di rimanere a lungo imprigionata in codesto villaggio… Ho bisogno di muovermi… di prender aria… di correre un poco anch'io questo bel mondo, di cui finora non conobbi che l'oscuro angoluccio dove son nata. Sì… Clotilde… noi verremo a trovarti… e allora ti dirò il resto… Frattanto, mentre auguro anche a te un buon marito, aggradisci un bacio della tua compagna di collegio, ed amica

Valentina Cornalbo, domani Montorio.»

Seregno, 18 Ottobre 1837.»

II

Risposta di Clotilde alla lettera precedente:

«Mia buona Valentina,

«Quando riceverai questa lettera tu sarai già sposa. Mentre ti ricambio mille auguri di felicità, mi affretto ad annunziarti che fra quindici giorni anch'io sarò unita all'uomo che adoro… unita per sempre. Il mio fidanzato non è ricco, nè insignito di cariche illustri… Egli è un giovine poeta, che da sei settimane venne, per ragioni di salute, ad abitare nei dintorni di Varese. Questo nome di poeta ti farà sorridere, mia Valentina; forse tu ti sovverrai del Cambiaggio nell'opera i Falsi monetari, a cui assistemmo insieme. Pure il mio poeta non ha nulla di comune con don Euticchio. Figurati un bel giovine di venticinque anni, pallido in volto, due occhi neri pieni di tristezza, un labbro vellutato da un bel pajo di mustacchi nascenti, un portamento nobile ed elegante, l'insieme della persona aggraziato e gentile. Quando verrai a trovarmi, io ti narrerò tutta la storia di questo amore, che fu il primo e sarà anche l'ultimo della mia vita. – Quanti ostacoli prima di ottenere da' miei parenti il bramato consenso! Mia madre ha perorato in nostro favore, ed ha vinto. Il giorno stesso ch'io ricevetti l'ultima tua lettera, fu anche deciso il mio matrimonio con Alfredo Leoni – Alfredo Leoni! Che ti pare di questo nome? Non somiglia a quei nomi, che sovente abbiamo letto nei romanzi o nei drammi francesi? Ma il mio fidanzato (perdona se io ti parlo sempre di lui) è veramente un personaggio da romanzo, uno di quegli esseri che io credeva non esistessero se non nella immaginazione degli scrittori.

»Il nostro matrimonio verrà celebrato senza pompa. Il povero Alfredo non può fare di grandi spese per me; nè io lo pretendo. Egli ha ottenuto un impiego, a Milano, dove ora si è recato per farvi ammobiliare un modesto appartamento. Subito dopo il matrimonio, ci recheremo colaggiù a vivere dei prodotti del suo impiego e della piccola rendita che mio padre mi ha stabilita per dote, felici del nostro amore, che durerà quanto la vita. Verrai tu ad assistere alle mie nozze? Oh! come te ne sarei grata! Saremo in piccolo comitato di parenti e di amici; alla mattina ci recheremo alla chiesa; poi, si farà un pranzerello in casa di mio padre; Alfredo reciterà dei versi, tu suonerai una dozzina di polke; balleremo, canteremo, si farà un po' di baldoria e poi ci separeremo… per rivederci… Dio sa quando… A proposito di versi, sai tu che la è una gran bella cosa… l'esser amata da un poeta! Se tu lo sentissi, quand'è in vena, od è, come si suol dire, infiammato dall'estro! Io mi starei tutta la giornata ad ascoltarlo. Per verità in quelle sue lunghe tirate io non ci comprendo gran cosa; ma l'espressione del suo volto, l'accento della sua voce, quei gesti, quel fuoco, quell'enfasi… tutto in lui mi rapisce e mi esalta. Egli paragona i miei occhi a due stelle; dice che il mio sorriso è un'aura di paradiso, e che non sarà mai più da me diviso; che quando io canto, lo sforzo al pianto, che quando io rido, il cor gli uccido… e tant'altre cose tutte belle… tutte piacevoli ad udirsi. Oh! io voglio che tu lo veda… che tu lo senta… Verrai, non è vero? verrai a trovarmi il giorno delle mie nozze. Pensa che senza di te la festa non sarebbe compiuta.

Addio, o piuttosto a rivederci presto, mia buona Valentina. Mille saluti al tuo sposo che desidera vivamente di conoscere.

La tua Clotilde»

«Varese, 18 ottobre 1837.

Yosh cheklamasi:
12+
Litresda chiqarilgan sana:
28 oktyabr 2017
Hajm:
370 Sahifa 1 tasvir
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