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Kitobni o'qish: «Le meraiglie del Duemila», sahifa 5

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LE FERROVIE DEL Duemila

Dopo aver fatto un’abbondante colazione, innaffiata da parecchi bicchieri di generoso vino spagnolo ed italiano, il signor Holker ed i suoi compagni congedarono Harry e si diressero verso un enorme fabbricato, sormontato da una torre d’acciaio dalla cui cima si diramavano parecchi grossi fili di metallo.

«Ecco la stazione ferroviaria» disse Holker.

«Scusate, signor Holker,» disse Brandok, nel momento di entrare «voi ci promettete di condurci al polo nord?»

«Sì.»

«Avete trovato il modo di avvicinare il Sole, per caso?»

«Perché mi fate questa domanda?»

«Fa ancora freddo?»

«Come ai vostri tempi e forse più, ve lo dissi già. L’anno passato la stazione polare ha segnato 55° sotto zero.»

«E ci condurrete con queste vesti?»

«Non ve ne date pensiero» rispose Holker. «Alla stazione di Quebec troveremo i bagagli contenenti l’occorrente per sfidare i freddi più intensi. Aspettate un momento che vada a far lanciare un telegramma aereo ad uno di quei negozianti che conosco.»

Mentre si recava all’ufficio telegrafico, Toby e Brandok erano entrati in un’ampia sala, alla cui estremità si scorgeva uno scalone.

«Dove sono questi treni? Io non li vedo e non odo quei mille fragori che ai nostri tempi si ripercuotevano sotto le immense tettoie» disse Brandok.

«Da qualche parte vedremo sbucare quello che ci deve portare a Quebec.»

«Sai, Toby, che io a forza di cadere di stupore in stupore finirò per diventare pazzo?»

«Non ti senti bene?…»

«Mi trovavo meglio cent’anni fa col mio spleen. Provo sempre una eccitazione strana.»

«È la tensione elettrica.»

«Amici miei,» disse in quel momento Holker «il treno sta per giungere; abbiamo appena il tempo di discendere la scala.»

«I biglietti?» chiese Toby.

«Sono già nel mio portafoglio; ho preso uno scompartimento per noi, così potremo discorre tranquillamente senza che vi siano testimoni.»

All’estremità della scala si udì una voce poderosa gridare:

«Pronti! Il treno è giunto!».

Una ventina di persone, che pareva avessero il diavolo addosso, si erano precipitate giù dalla gradinata. Holker ed i suoi amici le avevano seguite.

Una galleria fornita di una decina di porte che in quel momento erano aperte e attraverso le quali si vedevano uscire sprazzi di luce intensa, si allungava per una quarantina di metri.

Holker spinse i suoi compagni verso una di quelle porte, dicendo:

«Presto, salite!».

I due risuscitati si trovarono in un piccolo scompartimento, con quattro comode poltroncine che si potevano trasformare in letti, tutte di raso rosso, e illuminato da una lampadina contenente un pezzetto di radium.

«La ferrovia?» chiese BrandOk.

Le porte di ferro si erano chiuse con fracasso.

Per qualche istante si udirono delle voci gridare e poi più nulla. Anche le porte dello scompartimento si chiusero da sé, sorgendo da terra.

«Non ci muoviamo?» chiese dopo qualche istante Brandok.

«Siamo già in viaggio» rispose Holker, ridendo.

«Io non provo nessuna scossa, né odo alcun rumore di macchine.»

«Eppure il treno corre con una velocità fantastica. Quanto percorrevano all’ora i vostri treni?»

«Centoventi chilometri al massimo.»

«E questo procede colla velocità di trecento!»

«Quale macchina lo spinge?»

«Nessuna macchina; viene aspirato e spinto contemporaneamente.»

«Spiegati meglio, nipote mio» disse Toby. «Noi siamo troppo vecchi per capire a volo le invenzioni moderne.»

«Noi viaggiamo in un tubo d’acciaio della circonferenza di cinque metri, i cui carrozzoni, che sono ordinariamente in numero di venti, combaciano perfettamente colle pareti di metallo. Questi vagoncini, hanno una forma cilindrica la cui circonferenza è esattamente precisa a quella interna del tubo e possono contenere 24 passeggeri. Fra le due stazioni principali vi sono delle pompe mosse da macchine poderose, che iniettano nel tubo correnti d’aria; in quella di partenza le pompe sono prementi; in quella d’arrivo invece, delle pompe aspiranti. I cilindri che costituiscono i carrozzoni, e che sono pure di acciaio, vengono in tal guisa spinti ed aspirati. In poche parole sono treni ad aria compressa.»

«Stupefacente!» esclamò Toby. «Che cosa non avete inventato voi, uomini del Duemila?»

«Osservo una cosa» disse Brandok. «Datemi una spiegazione.»

«Dite pure.»

«I cilindri, collo sfregamento, non s’infiammano? Mi pare che noi dovremmo cuocere qui dentro, mentre la temperatura si conserva relativamente fresca.»

«Niente affatto: prima perché viene adoperato un metallo che è lentissimo a riscaldarsi, il tantalio, che se non erro ai vostri tempi valeva 50.000 lire al chilogrammo e la chimica d’oggi può dare ad un prezzo eguale a quello dell’argento. Poi perché il cilindro di testa e quello di coda sono formati da due immensi serbatoi, i quali proiettano incessantemente getti d’acqua, impedendo il riscaldamento.»

«E l’aria pei viaggiatori?»

«Viene fornita da cilindri d’acciaio che sono serbatoi d’aria compressa. Provate difficoltà a respirare?»

«No» rispose Brandok.

«Vi è un tubo solo per ogni linea?» chiese Toby.

«No, zio, ve ne sono quattro. Uno pei treni diretti che non si fermano che nelle grandi stazioni, come questo, uno per le stazioni intermedie e due pei treni merci.

«Appena uno giunge, l’altro di ritorno parte. Ogni due ore abbiamo treni che vanno ed altri che giungono.»

«Così gli scontri sono impossibili» disse Brandok.

«Non possono accadere non essendovi che uno o al più due treni nel tubo, che seguono la medesima via.»

«Quando si pensa come si viaggiava una volta c’è da impazzire! Che cosa direbbero Francesco I re di Francia e Carlo V, se potessero tornare al mondo! E pretendevano di avere i più rapidi corrieri del mondo!»

«Quei re?» disse Holker. «Avevano delle lumache, forse.»

«E che cosa direbbero il capitano Paulin, Burocchio, Chameran e soprattutto Marivaux?»

«Chi erano costoro?» chiese Brandok.

«I più rapidi corrieri dell’Europa medievale, che fecero in quell’epoca stupire tutti per la loro velocità! Paulin aveva impiegato venti giorni per recarsi da Costantinopoli a Fontainebleau per portare un messaggio a Francesco I; Burocchio ne aveva impiegati quattro per portare al re di Polonia la notizia della morte di Carlo IX e Marivaux quattro giorni per percorrere la distanza che corre fra Parigi e Marsiglia. E quei nostri bravi antenati affermavano che con simili corrieri le distanze ormai erano scomparse!»

«Si contentavano di poco i nostri vecchi» disse Holker.

Un sibilo acuto, che proveniva dall’alto, fece alzare la testa a Brandok ed a Toby. Era uscito da un piccolo tubo che si ripiegava in basso vicino alla lampada a radium.

«Ci avverte che siamo giunti?» chiese Brandok.

«No, è una comunicazione dell’»Jum» a cui è abbonata questa linea ferroviaria per tenere i viaggiatori al corrente delle notizie più importanti, anche viaggiando.»

«In qual modo?»

«Mediante un filo che si svolge su un rocchetto, a misura che il treno procede. Ascoltiamo.»

Una voce metallica si fece subito udire:

«Grave disastro sul Missouri prodotto da una piena improvvisa.

«Omaha è quasi interamente distrutta e sessantamila persone si sono annegate. Il governo del Nebraska ha mandato ingegneri con ventimila uomini, viveri e scialuppe.

«Europa. Gli anarchici della città sottomarina che hanno saccheggiato Cadice sono stati completamente distrutti dai pompieri di Malaga. Il governo spagnolo indennizzerà gli abitanti.

«Asia. Il governo dell’India si trova in gravi imbarazzi causa la carestia. Gl’indiani muoiono di fame a milioni».

«Brandok, tutto ciò non è prodigioso?» chiese Toby.

«Continuiamo a sognare» rispose il giovine. «Ormai io sono convinto di essermi risvegliato non più sulla terra, bensì in un altro mondo.»

«E quasi lo penso anch’io» rispose Toby.

«Eppure esistono altre meraviglie ben più grandiose» disse Holker.

Una lieve scossa ed un fragore di porte che pareva s’aprissero, lo interruppero. Quasi nel medesimo istante si udì una voce gridare:

«Montreal!…».

«Di già nel Canada!» esclamò Brandok.

«Sono le due» disse Holker, osservando il suo cronometro.

«Quando giungeremo a Quebec?»

«Alle tre e qualche minuto.»

«Ed al polo nord?»

«Fra due giorni.»

«E noi supereremo in così breve tempo una così enorme distanza?»

«Scivoleremo con una velocità di duecento miglia all’ora. Altro che la foga degli uragani!…»

«Scivoleremo?»

«È la parola.»

«E come?»

«Lo saprete quando avremo raggiunto i confini del continente americano e ci inoltreremo sull’Oceano Polare.»

«Brandok!»

«Toby!»

«Sogni ancora?»

«Sempre.»

«E sogno anch’io.»

Cinque minuti dopo, il treno riprendeva la sua corsa infernale e alle tre pomeridiane si fermava alla stazione di Quebec, la capitale del Canada.

Appena usciti dallo scompartimento, un uomo che gridava «signor Jacob Holker!» entrò nella galleria, portando due enormi valigie.

«Sono io» rispose il nipote di Toby, muovendogli incontro. «Siete ai servigi del signor Wass?»

«Sì, signore.»

«Le valigie devono contenere gli indumenti per una gita al polo.»

«Allora siete proprio quello che cercavo. Abbiamo ricevuto il vostro telegramma due ore or sono da Buffalo.»

Holker pagò, senza mercanteggiare, l’importo, poi condusse i suoi amici al ristorante della stazione, anche quello automatico, e offrì da bere.

«Abbiamo dieci minuti di tempo per prendere il treno per il polo nord» disse. «Approfittiamone per scaldarci lo stomaco con un po’ di caper-brandy.»

Infatti dieci minuti dopo i tre amici prendevano posto in uno scompartimento del treno del Labrador, diretti al Capo Wolstenholme sullo Stretto di Hudson e partivano con una velocità di duecentosettanta chilometri all’ora.

«Quando giungeremo sulle coste dell’Oceano Artico?» chiese Brandok.

«Alle cinque di domani mattina» rispose Holker.

«Troveremo qualche albergo lassù?»

«Ed anche un buon letto.»

«Fra i ghiacci?»

«Il Capo Wolstenholme è una stazione estiva, molto frequentata durante i mesi di giugno, luglio ed anche d’agosto, al pari di quella dello Spitzbergen.»

«Dello Spitzbergen!» esclamò Toby.

«Perché vi stupite zio?»

«Perché ai nostri tempi quella grande isola dell’Oceano Artico non era frequentata che da orsi bianchi e da cacciatori di foche e di balene.»

«Oggi è diventata un po’ come la Svizzera» rispose Holker. «Fra quelle montagne nevose si trovano alberghi che nulla hanno da invidiare a quelli di Nuova York. Vedrete che meraviglie!»

«Passeremo di là?»

«Sì, nel ritorno, perché la galleria polare sbocca appunto in quell’isola.»

«Che cosa mai ci narri!»

«Vedrete!… Vedrete!… Siamo nel Duemila, miei cari amici e non già nei lontani tempi del 1900.»

«Ed esquimesi ve ne sono ancora nelle regioni polari?» chiese Brandok.

«Alcune famiglie soltanto; le altre tribù sono invece quasi tutte scomparse.»

«E per quale motivo?»

«In seguito alla totale distruzione delle balene e delle foche che costituivano la loro alimentazione.»

«Sono stati uccisi dalla fame?»

«Sì, signor Brandok.»

«Eppure mi avete detto che vi è una numerosa colonia polare.»

«È vero, ed è costituita da anarchici, colà confinati perché non turbino la pace del mondo.»

«E come vivono quelli?»

«I pesci abbondano ancora al di là del circolo polare; e poi i governi americani ed europei li provvedono di viveri, a patto che non lascino i ghiacci.»

«Sicché è loro proibito di tornare in Europa ed in America?»

«E anche in Asia!»

«Ed il mondo è tornato tranquillo dopo la loro espulsione?»

«Abbastanza» rispose Holker.

«E nella colonia polare regna la calma?»

«Costretti a pescare ed a cacciare incessantemente, non hanno più tempo di occuparsi delle loro pericolose teorie: così regna la calma ed un certo accordo.»

«Erano diventati numerosi in questi cento anni?» chiese Toby.

«Sì, e anche molto pericolosi. Ora non son più da temersi, essendo relegati colle loro famiglie al polo nord e nelle città sottomarine. Oh! non inquieteranno più l’umanità.»

«Eppure il dispaccio di quel tal giornale smentisce ciò che voi avete affermato» osservò Brandok.

«Quello è stato un puro caso. E poi avete saputo come sono stati trattati dai pompieri spagnoli. Pochi getti d’acqua elettrizzata a correnti altissime e tutto è finito. Diamine!… Il mondo ha il diritto di vivere e di lavorare tranquillamente senza essere disturbato. Chi secca gli altri, si manda nel regno delle tenebre e vi assicuro che nessuno piange.»

«Una specie di giustizia turca» disse Brandok, ridendo.

«Chiamatela come volete, tutti l’approvano e l’approveranno anche in avvenire.»

Mentre così passavano il tempo, il treno correva entro il tubo d’acciaio con velocità spaventevole, attraversando i gelidi territori del Labrador.

Essendo come abbiamo detto autunno assai inoltrato, la neve doveva aver coperto già da qualche mese, quelle terre d’uno strato considerevole, ed al di fuori il freddo doveva essere intensissimo; eppure i viaggiatori non se ne accorgevano affatto. D’altronde bastava la lampada a radium per spandere negli scompartimenti un dolce calore che si poteva aumentare a volontà. Alle otto della sera il treno si fermava alla stazione di Mississinny innalzata sulle rive del lago omonimo.

Appena aperte le porte d’acciaio e le portiere dei carrozzoni, degli uomini si presentarono ai viaggiatori portando delle tazze fumanti di brodo, dei pesci bolliti e fritti, dei puddings, liquori e tè.

«Avrei preferito cenare al ristorante della stazione» disse Brandok.

«Stiamo meglio qui» disse Holker. «Fuori fa un freddo cane. Quanti gradi?» chiese al cameriere che aveva portato la cena.

«Quindici sotto zero, signore» rispose l’interrogato. «L’inverno si annunzia rigidissimo, quest’anno, ed il lago è già gelato da tre settimane.»

«E l’oceano?»

«Tutto lo stretto è percorso da massi enormi di ghiaccio.»

«Funziona ancora il battello-tramvai?»

«Fino alla spiaggia di Baffin.»

«Quali notizie della galleria?»

«È più salda che mai. Non si è prodotta nessuna screpolatura nemmeno quest’anno. Buon viaggio, signori, il treno riparte.»

Depose le vivande sulle mensole che si trovavano vicino alle poltroncine, poi scese rapidamente. Un momento dopo le portiere si chiusero, le porte d’acciaio anche, ed il treno, aspirato da una parte e spinto dall’altra, riprese la corsa.

«Ceniamo, facciamo la nostra toeletta polare e poi cerchiamo di fare una dormita. Fino alle cinque di domani mattina non verremo più disturbati.»

«E poi cambiamo treno?» chiese Toby.

«Sì, per prendere il battello-tramvai» rispose Holker.

«Che cos’è?»

«Lo vedrete domani mattina, zio. Una bella e comoda invenzione anche quella. Ceniamo.»

IL BATTELLO-TRAMVAI

Alle cinque del mattino i tre amici, che dopo aver indossati i pesanti vestiti dei viaggiatori polari, si erano addormentati, venivano svegliati dalle grida degli impiegati ferroviari della stazione di Wolstenholme.

Holker per il primo aveva aperto gli occhi, dicendo ai suoi amici:

«Siamo sulle rive dell’Oceano Artico ed il battello-tramvai ci aspetta per attraversare lo Stretto d’Hudson. Non abbiamo tempo da perdere».

Presero i loro bagagli, lasciarono il caldo scompartimento e uscirono dalla galleria d’acciaio per entrare nella stazione.

«Una buona tazza di tè con un bicchierino di whisky prima di tutto» disse Holker, entrando in una sala che serviva da ristorante e che era splendidamente illuminata da una grossa lampada a radium. «Deve fare molto freddo, fuori.»

Riscaldatisi lo stomaco, lasciarono la stazione, seguiti da altri otto o dieci viaggiatori, per la maggior parte inglesi e tedeschi che si recavano al polo.

Era ancora notte, però numerose lampade a radium illuminavano le vie del piccolo villaggio costruito sulle rive dell’Oceano Polare, ed il freddo era intensissimo.

La neve copriva ogni cosa e doveva avere uno spessore considerevole.

«Chi abita questo paese da lupi?» chiese Brandok, mentre si infagottava in un ampio mantello di pelle d’orso nero.

«Vi sono qui tre o quattro dozzine di pescatori canadesi» rispose Holker. «Tutti i tentativi fatti per colonizzare queste vaste terre sono riusciti vani. È un vero peccato, perché qui lo spazio non mancherebbe per far sorgere delle città gigantesche.»

«E piantare cavoli e seminar grano» disse Brandok, ridendo.

«Eppure qualche cosa nasce e matura qui, nonostante il freddo.»

«Ed in qual modo avete potuto ottenere questi miracoli?»

«Proiettando sulle piante e sul terreno un continuo getto di luce a radium,» rispose Holker. «Le patate vi crescono assai bene, e anche i funghi, nelle cantine delle case.»

«Raccogliere dei funghi presso il circolo polare artico! Questa è grossa! Che cosa direbbero Franklin e Ross, se tornassero in vita?»

In quel momento un fischio acuto risuonò a breve distanza ed un potente fascio di luce fu proiettato sulla piccola schiera che era guidata da un impiegato ferroviario.

«Che cosa c’è?» chiese Toby.

«È il battello-tramvai che ci chiama» rispose Holker.

«È un piroscafo od un carrozzone che viaggia sulla terra?»

«L’uno e l’altro, zio» disse Holker.

«Un’altra invenzione diabolica?»

«Ma praticissima.»

Affrettarono il passo e, dopo qualche minuto, si trovarono sulla spiaggia dell’Oceano Artico. All’estremità di un ponte di legno, illuminato da parecchie lampade, vi era un grosso battello sormontato da un solo albero, sulla cui cima brillava una grossa palla di radium che lanciava in tutte le direzioni dei fasci di luce brillantissima, leggermente azzurrina.

Parecchi uomini, coperti da vestiti villosi che li facevano rassomigliare ad orsi polari, stavano allineati lungo le murate, tenendo in mano delle lunghe aste colla punta d’acciaio.

«Dei soldati polari?» chiese Brandok.

«Dei marinai» rispose Holker.

«Perché hanno quelle lance?»

«Per allontanare i ghiacci che s’accostano al battello. Ve ne saranno molti al largo.»

«E dove ci porterà questo battello?»

«Fin sulla Terra di Baffin, oltre il lago di Nettelling.»

«Mio caro nipote,» disse Toby «ai nostri tempi quel lago si trovava nel cuore dell’isola.»

«È così, zio.»

«Questo battello non potrà quindi spingersi fin là, a meno che non abbia delle ruote che lo conducano.»

«E se così fosse? Se questo meraviglioso battello potesse ad un tempo navigare e correre anche sulla terra, come una semplice automobile?»

«Amico James, che cosa dici di questa nuova invenzione?» chiese Toby.

«Che finirò per non stupirmi più di nulla, anche se dovessi trovare dei mari tramutati in campi fertili» rispose Brandok.

Giunti all’estremità del ponte, salirono sul piroscafo, cortesemente salutati dal capitano e dai suoi due ufficiali.

Era una bella nave, dai fianchi piuttosto rotondi per meglio sfuggire alle strette dei ghiacci, lunga una trentina di metri, con in mezzo una galleria formata da vetri di grande spessore, per difendere i viaggiatori dai morsi del vento polare, senza impedire loro di vedere ciò che succedeva all’esterno, e bene illuminata.

Brandok, Holker e Toby presero posto a prora, sotto la galleria, seguiti subito dagli altri passeggeri.

La porta fu chiusa, la macchina lanciò un fischio acuto ed il battello si mise in moto a velocità moderata, mentre i suoi uomini, che si trovavano fuori della galleria, salivano sulle murate immergendo nell’acqua le loro aste dalla punta ferrata.

Lo Stretto di Hudson, che separa il territorio del Labrador dalla grande isola di Baffin, era tutto ingombro di ghiacci.

Si vedevano delle montagne galleggianti andare alla deriva, spinte dal vento polare e anche molti banchi popolati da una grande quantità di uccelli marini.

Sotto i fasci di luce della potente lampada a radium che brillava sulla cima dell’albero, quei ghiacci scintillavano come enormi diamanti e producevano un effetto sorprendente e meraviglioso.

Il battello, abilmente guidato, si teneva a distanza da quei pericolosi ostacoli.

Ora rallentava, poi, quando trovava uno spazio libero o un canale, aumentava considerevolmente la velocità. Talora investiva poderosamente i banchi di ghiaccio col suo tagliamare e li stritolava adoperando certi bracci d’acciaio forniti di denti come quelli delle seghe, che agivano ai due lati della prora, e che in pochi istanti sgretolavano i massi.

«Una vera nave da ghiaccio» disse Brandok, che guardava con viva curiosità. «Quante belle invenzioni!»

«E quando la vedrete salire sulla riva e correre sui campi di ghiaccio della Terra di Baffin come una immensa vettura?» disse Holker.

«È incredibile e nessuno ai nostri tempi avrebbe mai osato sperare di trasformare una nave in un tramvai» disse Toby.

«E che esce dall’acqua e che prosegue la sua corsa, senza cambiare apparentemente nulla, senza interrompersi nemmeno un istante; che diventa vettura dopo essere stata battello e che torna di nuovo battello dopo essere vettura con un’agilità e rapidità unica» aggiunse Holker. «Sì, è una vera nave meravigliosa.»

«Io vorrei sapere come avviene questa trasformazione» disse Toby.

«In una maniera semplicissima» rispose Holker. «Il battello non ha che una sola macchina messa in moto dall’elettricità, capace però di servire a diversi fini e producente una forza applicabile in parecchi modi, per un’azione sempre diversa. Avviene così che la nave, avvicinandosi alla riva, riceve dalla motrice tutta la forza che s’accumula su due ruote collocate a prora e nascoste entro due nicchie aperte nella carena. Appena l’acqua comincia a mancare, quelle ruote, mediante un meccanismo speciale, si abbassano e si mettono in funzione, mentre le eliche vengono fermate. A poppa vi sono pure altre due ruote le quali agiscono perché trascinate dall’impulso di quelle anteriori. Ecco la nave trasformata, senza bisogno di manovre faticose, in un enorme tramvai. Sale la riva e si mette in marcia per terra e prosegue fino a che trova o qualche canale o qualche lago o qualche braccio di mare. Allora le ruote entrano nelle loro nicchie, le eliche si rimettono in funzione ed ecco il tramvai tornato battello. Non è ingegnoso tutto ciò?»

«Ve ne sono molte di queste navi?»

«Sì, specialmente in Europa dove esistono spiagge basse, come in Germania, in Danimarca, in Irlanda, in Italia e così via.»

«E questi battelli conservano la loro velocità anche in terra?» chiese Brandok.

«La medesima,» rispose Holker «e la loro forza locomotrice è di centosessanta metri al minuto.»

«E sempre nuove invenzioni le une più meravigliose e più sorprendenti delle altre. Ah! Toby!»

«Cos’hai, James?»

«Sai che fra questi ghiacci non provo più quella strana agitazione che mi faceva sussultare i muscoli?»

«Nemmeno io» rispose il dottore. «E ciò dipende dall’essere lontani dalle grandi città. Qui l’elettricità non può farsi sentire come laggiù o come sopra le cascate del Niagara.»

«Se noi non potremo resistere alle tensioni elettriche che si faranno sentire fortemente anche nelle grandi città europee, ci rifugeremo al polo.»

«E diventeremo anche noi anarchici» disse il dottore, ridendo.

Il battello-tramvai continuava intanto a lottare vigorosamente contro i ghiacci per raggiungere le sponde meridionali della Terra di Baffin, che si discernevano già vagamente fra le brume dell’orizzonte.

Delle montagne enormi, dei così detti ice-bergs, apparivano di quando in quando, cappeggiando pericolosamente e dondolandosi fra le onde, e minacciando di rovesciarsi addosso alla piccola nave. Questa con una rapida manovra le evitava, gettandosi in mezzo ai banchi che sormontava con slanci impetuosi e che spezzava col proprio peso.

Nessuna nave si scorgeva su quel mare. Da quando le balene erano scomparse e le foche pure, quelle acque erano diventate deserte.

Abbondavano invece sempre gli uccelli marini, anzi si mostravano così familiari che calavano in buon numero sulla galleria del battello senza inquietarsi per la presenza dei marinai.

Verso le dieci del mattino, dopo un’abbondante colazione offerta dal capitano ai passeggeri, e che era già compresa nel prezzo del biglietto, il Narval, tale era il nome del battello, giungeva dinanzi alle spiagge meridionali della Terra di Baffin e precisamente all’imboccatura di un canale che era formato da due immense rupi, alla cui estremità si vedeva la terra scendere dolcemente.

La nave con pochi colpi di sperone si aprì il passo fra i ghiacci che avevano già otturata l’entrata del passaggio, poi s’avanzò lentamente finché l’acqua venne a mancare.

Le quattro ruote avevano lasciate le loro nicchie, abbassandosi in attesa di mettersi in funzione.

«Ecco che diventa tramvai,» disse Holker. «La nave lascia il mare per la terra.»

Il Narval si era bruscamente inclinato e le ruote anteriori si erano messe in movimento.

Mentre la poppa era ancora in acqua, la prora saliva la riva senza scosse e senza fatica.

Ben presto l’intera nave si trovò in terra e partì con una velocità di trentacinque o quaranta chilometri all’ora, come fosse un vero tramvai elettrico, percorrendo una via segnalata da altissimi pali.

Una pianura immensa, quasi liscia, coperta da un alto strato di ghiaccio e di neve gelata, si estendeva a perdita d’occhio dinanzi ai viaggiatori polari.

Quella terra, quantunque spazzata dai venti e dagli uragani polari, non era del tutto disabitata.

Di quando in quando, a lunghi intervalli, il Narval passava dinanzi a piccoli raggruppamenti di case di ghiaccio, di forma semiovale, abitate dalle ultime famiglie di esquimesi sfuggite miracolosamente alla morte per fame, dopo la distruzione delle ultime balene e delle ultime foche da parte degli avidi pescatori americani.

Vedendo il battello avanzarsi si affrettavano a uscire dalle loro casupole per chiedere qualche biscotto o qualche scatola di carne o di brodo concentrato.

Erano i medesimi tipi di cent’anni prima. Un tronco tozzo su due gambe pure tozze, una testa grossa cogli zigomi sporgenti, faccia larga, capelli neri, naso schiacciato; una certa somiglianza insomma con le loro buone amiche ormai scomparse: le foche.

Disgraziatamente per loro, non si nutrivano più colle carni delle loro foche come un secolo prima, non si vestivano più colle loro calde pellicce, non illuminavano più le loro casupole col loro grasso.

Avevano anche essi un pezzo di radium, ed invece di avere delle fiocine colla punta di osso, portavano a tracolla dei buoni fucili elettrici coi quali si procuravano il cibo giornaliero massacrando gli uccelli marini, sempre numerosi in grazia della cattiva qualità delle loro carni, eccessivamente oleose per i palati americani ed europei.

Erano molto sparuti però, quei poveri diavoli, quantunque si sapesse, anche cent’anni prima, di che specie di appetito erano dotati quegli abitanti dei ghiacci eterni.

Essi infatti non facevano smorfie dinanzi ad un pesce avariato, o a dei volatili in piena decomposizione, e a degli intestini d’orso bianco, e perfino dinanzi a degli escrementi o agli avanzi non ancora digeriti che ritiravano dal ventre delle renne uccise.

Avevano anche perduta la loro proverbiale gaiezza in seguito alla mancanza di scorpacciate di lardo di balena!

Si capiva che proprio la distruzione di quei giganteschi mammiferi aveva modificato profondamente il loro temperamento, un tempo così gaio.

«Ecco una razza destinata a scomparire al pari dei pellirosse» disse Brandok, che era già uscito parecchie volte dalla galleria, per gettare a quei disgraziati parecchie ceste di biscotti, acquistate dal dispensiere del Narval.

«Quanti anni durerà ancora?»

«Pochi lustri di certo» rispose Holker. «Non sono uomini da poter prendere parte alla grande lotta per l’esistenza. Scomparse le foche e le balene di che cosa potrebbero vivere? Se i viaggiatori che vanno al polo non li aiutassero, a quest’ora sarebbero completamente spariti.»

«Eppure vi è una colonia polare lassù, mi avete detto.»

«Quelli sono uomini che appartengono alla nostra razza» rispose Holker.

«Ecco l’egoismo della razza bianca!…»

«In coscienza non posso darvi torto.»

«Noi, sempre noi soli a dominare il mondo.»

«È la lotta per la vita, signor Brandok.»

«O meglio la lotta di razza.»

«Come volete» rispose Holker. «Comincia a far buio. Come son brevi le giornate in questa stagione, sulle terre polari! Ecco che il sole tramonta e non sono che le tre pomeridiane!»

«Quando prenderemo il treno polare?» chiese Toby, con evidente impazienza.

«Domani sera.»

«Allora possiamo cenare e coricarci. Vi saranno delle cabine in questo battello.»

«E bene riscaldate, e con un comodo letto. La società polare ferroviaria non lesina mica in fatto di comodità. Venite, amici, per intanto andiamo in sala da pranzo.»

Lasciarono la galleria e scesero in uno splendido salone illuminato da quattro grosse lampade a radium, che mantenevano un calore piacevolissimo.

Si assisero ad una tavola dove si vedevano oltre a dei piatti d’argento, delle coppe di cristallo piene di fiori ottimamente conservati, raccolti probabilmente nelle serre di Quebec.

La composizione della cena era veramente polare. Salmone, filetti di narvalo, fegato di caribou, coscia di renna con crescione, pasticcio di fegato di morsa, gelato, e liquori a discrezione, con tè e caffè a scelta.

«Almeno qui abbiamo della selvaggina» disse Brandok. «Un piatto di gran lusso al giorno d’oggi, è vero, signor Holker?»

«Dite rarissimo, anche nelle grandi città! Vive qui ancora qualche gruppo di renne e si trovano anche dei caribou e qualche morsa. Fra pochi anni vedrete che quegli animali e quegli anfibi saranno completamente scomparsi.»

Cenarono con molto appetito e verso le cinque, mentre un folto nebbione al di fuori scendeva sulle pianure di ghiaccio, si fecero condurre nelle loro cabine dove trovarono dei soffici letti che non erano inferiori a quelli della casa del signor Holker.

Yosh cheklamasi:
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30 avgust 2016
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