Una Ragione per Morire

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Parchani o`qish
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“Va bene e grazie… ma sinceramente sono più in ansia per Rose. È una brava ragazza.”

“Sì, lo è,” disse Avery, e chiuse la chiamata.

A quel punto, era a meno di mezzo miglio dalla sua nuova casa. Trovò il numero di Rose e lo chiamò, premendo con più energia il piede sul pedale del gas. Credeva di sapere cosa sarebbe successo di lì a poco, ma provò un pizzico di speranza ogni volta che il telefono le squillò all’orecchio.

Come si era aspettata, la chiamata finì nella segreteria telefonica. Rose aveva risposto a una sola delle sue telefonate da quando suo padre era stato assassinato, e quando era successo era stata incredibilmente ubriaca. Avery preferì non lasciare un messaggio, sapendo che la figlia non l’avrebbe ascoltato, né tantomeno l’avrebbe richiamata a sua volta.

Parcheggiò nel proprio vialetto d’ingresso lasciando il motore acceso, e corse dentro per indossare una tenuta più presentabile. Fu di ritorno all’auto tre minuti più tardi, e si mise in viaggio verso Boston. Era certa che Rose sarebbe stata furiosa scoprendo che la madre era tornata in città per controllare come stava, ma Avery non vedeva altra possibilità, dopo l’appello di Gary King.

Non appena la strada si fece più facile e con meno curve, prese velocità. Non sapeva bene cosa le avrebbe portato il futuro in termini di lavoro, ma c’era una cosa che le sarebbe mancata della sua carriera in polizia: l’abilità di superare il limite di velocità ogni volta che voleva.

Rose era nei guai.

Lo sentiva.

CAPITOLO DUE

Era appena passata l’una quando Avery arrivò alla porta di Rose. La figlia viveva in un appartamento a piano terra in una parte abbastanza decente della città. Riusciva a permetterselo grazie alle mance che prendeva lavorando come barista in un locale alla moda, un posto che aveva trovato poco dopo che Avery si era trasferita nella sua cabina. Prima ancora aveva avuto un lavoro decisamente meno gratificante: era stata cameriera in un ristorante per famiglie e aveva integrato lo stipendio correggendo bozze per una ditta pubblicitaria. Avery avrebbe voluto che si convincesse a finire il college, ma sapeva anche che più avesse insistito e meno favorevole Rose sarebbe stata a seguire i suoi consigli.

Bussò alla porta, sapendo che la ragazza era in casa perché la sua auto era parcheggiata poco distante lungo la strada. E anche se non l’avesse notata, Avery aveva imparato che sin da quando era andata a vivere da sola, Rose aveva scelto lavori notturni per poter dormire fino a tardi e rimanere chiusa in casa tutto il giorno. Bussò con più forza quando la figlia non rispose e stava per chiamarla ad alta voce, ma decise di non farlo, immaginando di essere persino meno benvenuta del padrone di casa che lei stava cercando di evitare.

Probabilmente ha capito che sono io perché ho provato a chiamarla prima, rifletté.

Quindi optò per quello che sapeva fare meglio: la negoziazione.

“Rose,” disse, continuando a bussare. “Apri. Sono la mamma. Fa freddo qua fuori.”

Aspettò un momento ma non ricevette alcuna risposta. Invece di bussare di nuovo, si avvicinò con calma alla porta, fermandosi il più vicino possibile. Quando parlò di nuovo, la sua voce era alta abbastanza da essere udita dall’interno ma senza dare spettacolo in strada.

“Puoi ignorarmi quanto ti pare, ma io continuerò a chiamarti, Rose. E se per caso decidessi di impegnarmi davvero, ricordati che cosa facevo di lavoro. Se volessi sapere dove sei in ogni momento, ci riuscirei. O puoi semplicemente rendere le cose più semplici ad entrambe e aprire questa maledetta porta.”

Concluso il discorso, bussò di nuovo. Quella volta Rose le rispose dopo pochi secondi. Aprì lentamente la porta dall’altro lato e sbirciò fuori come una donna che non si fidasse di nessuno fosse dall’altro lato della soglia.

“Che cosa vuoi, mamma?”

“Voglio entrare solo per un minuto.”

Rose ci pensò un istante e poi spalancò la porta. Avery fece del suo meglio per non prestare troppa attenzione al fatto che la figlia aveva perso peso. E anche molto. Si era anche tinta i capelli di nero e li aveva stirati.

Avery entrò e trovò l’appartamento meticolosamente pulito. C’era un ukulele sul divano, l’unico oggetto che sembrava fuori posto. Avery lo indicò e le lanciò uno sguardo indagatore.

“Volevo imparare a suonare qualcosa,” spiegò Rose. “La chitarra prende troppo tempo e i piano sono troppo costosi.”

“Sei brava?” chiese Avery.

“So suonare cinque accordi e posso quasi fare tutta una canzone.”

Avery annuì, colpita. Era sul punto di chiederle di suonarle la canzone, ma forse sarebbe stato troppo. Poi pensò di sedersi sul divano, ma non voleva darle l’impressione che si stesse mettendo comoda. Era abbastanza certa che Rose non l’avrebbe invitata a farlo, comunque.

“Sto bene, mamma,” disse la ragazza. “Se è per questo che sei qui…”

“Infatti,” la interruppe Avery. “Ed era da un po’ che volevo parlarti. Lo so che mi odi e che mi incolpi di tutto quello che è successo. E fa schifo, ma posso conviverci. Però oggi il tuo padrone di casa mi ha chiamata.”

“Oddio,” esclamò Rose. “Quel bastardo avido non mi vuole proprio lasciare in pace e…”

“Vuole solo il suo affitto, Rose. Ce l’hai? Ti servono dei soldi?”

La ragazza sbuffò in risposta. “Ho fatto trecento dollari di mance, l’altra sera,” disse. “E li raddoppio praticamente ogni sabato notte. Quindi no, non mi servono soldi.”

“Bene. Ma… beh, dice anche che è preoccupato per te. Che ha sentito certe cose che hai detto. Ora basta cazzate, Rose. Come stai, veramente?”

“Veramente?” ripeté la figlia. “Come sto, veramente? Beh, mi manca papà. E sono stata quasi ammazzata dallo stesso stronzo che ha ucciso lui. E anche se mi manchi a tu, non riesco a pensarti senza che mi venga in mente come è stato ucciso. Lo so che non è giusto, ma ogni volta che penso a papà e come è morto, mi viene da odiarti. E penso che da quando hai iniziato a lavorare come detective, per un motivo o per l’altro, la mia vita è stata un casino.”

Fu difficile per Avery sentirselo dire, ma sapeva che sarebbe potuto essere molto peggio. “Riesci a dormire?” chiese. “E a mangiare? Rose… quanto peso hai perso?”

Rose scosse la testa e cominciò a indietreggiare verso la porta. “Mi hai chiesto come stavo e ti ho risposto. Sono felice? Cazzo, no. Ma non sono il tipo da fare cose stupide, mamma. Quando mi passerà allora starò meglio. E passerà. Lo so. Ma se voglio che mi passi, non posso averti intorno.”

“Rose, è…”

“No, mamma. Tu per me sei tossica. Lo so che hai cercato davvero di aggiustare le cose tra di noi, che sono anni che ci provi. Ma non sta funzionando e non credo che lo farà mai, dopo quello che è successo. Quindi… ti prego, vattene. Vattene e smettila di chiamarmi.”

“Ma Rose, questo…“

Allora la ragazza scoppiò a piangere, aprendo la porta ed esplodendo. “Mamma, vuoi per favore andartene, cazzo!”

Poi abbassò lo sguardo al pavimento, soffocando i singhiozzi. Avery trattene le lacrime e obbedì alla figlia. Le passò davanti, lottando con tutte le sue forze contro la tentazione di abbracciarla o di cercare di farle cambiare idea. Uscì dall’appartamento e si ritrovò fuori, al freddo.

Ma forse il rumore della porta che si sbatteva alle sue spalle fu la cosa più fredda di tutte.

***

Prima ancora di riuscire ad avviare l’auto, Avery si mise a piangere. Una volta in strada e diretta verso la sua nuova casa, fece di tutto per trattenere i singhiozzi che le squassavano il petto. Mentre le lacrime le scorrevano sul volto, si rese conto che aveva pianto di più negli ultimi quattro mesi che quanto avesse fatto in tutti gli anni precedenti. Prima la morte di Jack, poi Ramirez. E ora questo.

Forse Rose aveva ragione. Forse era tossica. Perché in fin dei conti, le morti di Jack e Ramirez erano state colpa sua. La sua carriera ambiziosa aveva portato l’assassino alle persone che più le stavano a cuore, e ne aveva fatto degli obiettivi.

E quella stessa carriera aveva allontanato Rose. Non importava nemmeno che ormai fosse finita. Si era ritirata poco dopo il funerale di Ramirez e anche se sapeva che Connelly e O’Malley l’avrebbero ripresa senza problemi, non era un invito che aveva intenzione di accettare.

Entrò nel suo vialetto d’ingresso, parcheggiò l’auto ed entrò in casa con il volto ancora striato di lacrime. La triste verità era che se avesse abbandonato del tutto la carriera, la sua vita sarebbe rimasta vuota. Il suo futuro marito era stato ucciso, così come l’ex marito con cui era stata in buoni rapporti, e ora, l’unica sopravvissuta del suo passato, sua figlia, non voleva più avere niente a che fare con lei.

E invece di sistemare le cose, che cosa hai fatto? chiese una piccola parte di lei. Sembrava la voce di Ramirez, che voleva spiegarle come stava peggiorando la sua situazione. Hai abbandonato la città e ti sei ritirata nei boschi. Invece di affrontare il dolore di una vita sconvolta, sei fuggita e hai passato gli ultimi giorni a bere per dimenticare. E ora cosa farai? Scapperai di nuovo? Non sarebbe meglio aggiustare tutto?

Una volta tornata dentro la sua cabina, si sentì più al sicuro di quanto non fosse stata sulla porta di Rose. Il dolore di essere stata cacciata dalla casa della figlia si attenuò. Sì, si sentiva una codarda, ma non sapeva cos’altro fare.

Ha ragione, pensò. Io sono tossica per lei. Negli ultimi anni non ho fatto altro che renderle la vita difficile. È iniziato tutto quando ho messo la carriera al di sopra di suo padre ed è diventato peggio quando il lavoro è diventato più importante di lei, per quanto cercassi di limitarlo. Ed eccoci di nuovo qui, lontane anche se non ho più il mio lavoro.

 

Perché mi incolpa per l’omicidio di suo padre.

E non ha tutti i torti.

Lentamente si avvicinò al letto che doveva ancora sistemare. Lì c’era la sua cassetta di sicurezza, appoggiata tra la testata e le doghe. Mentre l’apriva, ripensò a come era entrata nel soggiorno di Jack e l’aveva trovato morto. Pensò a Ramirez all’ospedale, già ferito gravemente prima ancora di essere ucciso.

Le sue mani erano sporche del loro sangue, e non sarebbe mai riuscita a pulirle.

Estrasse la Glock dalla cassetta. Era familiare tra le sue mani, come una vecchia amica.

Riprese a piangere, appoggiando la schiena alla testata del letto. Guardò la pistola, studiandola. Ne aveva avuta una al fianco o sulla schiena per quasi due decenni, più intima di quanto fosse stato ogni altro essere umano. Le sembrò fin troppo naturale appoggiarsela contro la carne morbida sotto il mento. Il suo tocco era freddo ma deciso.

Emise un singhiozzo spostandone l’inclinazione, per essere certa che il proiettile l’avrebbe attraversata nel modo migliore. Il suo dito trovò il grilletto e vi tremò contro.

Si chiese se avrebbe sentito lo sparo prima di morire e se in quel caso, sarebbe stato più assordante della porta che Rose le aveva sbattuto alle spalle.

Piegò il dito sul grilletto e chiuse gli occhi.

Il campanello di casa squillò e Avery fece un balzo.

Allentò il dito e la tensione abbandonò di colpo il suo corpo. La Glock ricadde a terra.

Per poco, pensò, mentre il cuore le pompava adrenalina a litri nel sangue. Solo un altro istante e sul muro dietro di me ci sarebbero le mie cervella.

Abbassò lo sguardo sulla Glock e l’allontanò con uno schiaffo, come se fosse stata un serpente velenoso. Sprofondò la testa tra le mani e si asciugò le lacrime.

Ti sei quasi ammazzata, disse la voce che avrebbe potuto essere quella di Ramirez. Non ti fa sentire una codarda?

Allontanò quel pensiero mentre si alzava in piedi e si dirigeva verso la porta. Non aveva idea di chi potesse essere. Osò sperare che fosse Rose ma era certa che non fosse così. Sua figlia era come lei da quel punto di vista, fin troppo testarda.

Aprì la porta e non trovò nessuno. Tuttavia vide il retro di un camioncino delle Poste che stava uscendo dal suo vialetto. Abbassò lo sguardo sulla veranda e trovò una scatoletta. La sollevò, leggendo il proprio nome e il nuovo indirizzo in una scrittura molto elegante. Non c’era il mittente, solo un recapito di New York.

La portò dentro e l’aprì lentamente. Quasi non pesava nulla e una volta aperta vide solo dei giornali arrotolati. Li tolse e trovò un’unica cosa per lei, appoggiata sul fondo.

Era un foglio di carta, piegato a metà. Lo aprì e quando lesse il messaggio, il suo cuore si fermò per un istante.

E così, svanì anche il desiderio di uccidersi.

Lesse e rilesse il messaggio, cercando di trovargli un senso. La sua mente lo analizzò, cercando una risposta. E con quell’enigma davanti, era fuori questione anche solo l’idea di morire, prima della sua risoluzione.

Si sedette sul divano e lo fissò, continuando a leggerlo.

chi sei tu, avery?

tuo,

Howard

CAPITOLO TRE

Nei giorni seguenti, Avery continuò a toccarsi il punto sotto il mento dove aveva poggiato la canna della pistola. Le prudeva, come una puntura d’insetto. Ogni volta che si sdraiava per dormire e stendeva il collo con la testa sul cuscino, si sentiva la pelle esposta e vulnerabile.

Avrebbe dovuto affrontare il fatto che aveva toccato il fondo. Anche se ne era stata sollevata, aveva raggiunto il momento più buio della sua esistenza. Sarebbe stata per sempre una macchia nei suoi ricordi e sembrava che gli stessi nervi del suo corpo non volessero permetterle di dimenticarlo.

Nei tre giorni dopo il suo quasi-suicidio, fu più depressa di quanto non fosse mai stata prima nella sua vita. Passò quelle giornate stesa sul divano. Cercò di leggere ma non riusciva a concentrarsi. Cercò di trovare la motivazione per andare a fare una corsa, ma era troppo stanca. Continuava a guardare la lettera di Howard, tanto che la carta iniziò a spiegazzarsi per il continuo contatto con le sue mani.

Smise di bere dopo aver ricevuto la lettera. Lentamente, come un bruco, iniziò a uscire dal suo bozzolo di autocommiserazione. Riprese a fare esercizio, poco alla volta. Poi toccò al Sudoku e alle parole crociate, per tenere la mente allenata. Senza dover lavorare, e sapendo di aver abbastanza soldi da non dover preoccuparsi di niente per almeno un anno, era fin troppo facile cadere nella pigrizia.

Il pacco di Howard la sollevò dal suo letargo. Le aveva dato aveva un mistero da risolvere e un compito da svolgere. E quando Avery Black aveva un compito da svolgere, non si riposava fino ad aver ultimato la sua missione.

Una settimana dopo l’arrivo della lettera, trovò una specie di routine. Era ancora la routine di un’eremita, ma la sua ripetitività la faceva sentire normale. Come se ci fosse qualcosa per cui valeva la pena vivere. Una struttura, delle sfide mentali. Ecco che cosa l’aveva sempre motivata, e lo fece anche in quei giorni.

Le sue mattine iniziavano alla sette. Usciva subito a correre, percorrendo due miglia di stradine sterrate attorno alla casa, tutti i giorni della prima settimana. Poi tornava al cottage, faceva colazione, e studiava i documenti dei vecchi casi. Ne aveva più di un centinaio, ed erano solamente i suoi, tutti risolti. Ma li aveva tirati fuori per tenersi impegnata e per ricordarsi che oltre che ai fallimenti subiti verso la fine, aveva anche goduto di diversi successi.

Poi passava un’ora ad aprire scatole e a mettere in ordine. Seguiva il pranzo e un’altra parola crociata o un puzzle di qualche tipo. Poi si dedicava a un semplice circuito di esercizi in camera da letto: solo una serie di piegamenti, addominali, flessioni, altri allenamenti di base. Infine passava del tempo a controllare i documenti del suo ultimo caso, quello che aveva finito per prendere le vite di Jack e Ramirez. Certi giorni li guardava per soli dieci minuti, altri riusciva a fissarli per ore e ore.

Dove aveva sbagliato? Che cosa si era persa? E lei sarebbe sopravvissuta al caso se non fosse stato per le interferenze dietro le quinte di Howard Randall?

Alla sera cenava, leggeva un po’, faceva altre pulizie e andava a letto. Era una routine semplice, ma almeno era qualcosa.

Le servirono due mesi per mettere in ordine e pulire tutta la cabina. A quel punto la sua corsa di due miglia diventò di cinque. Smise di studiare i suoi vecchi documenti o quelli dell’ultimo caso. Invece iniziò a leggere libri comprati su Amazon a proposito di crimini veri e casi autentici. Di tanto in tanto variava con letture sulle valutazioni psicologiche dei più famosi serial killer della storia.

Era solo parzialmente consapevole che quello era il suo modo per riempire il vuoto lasciato dal suo lavoro. Man mano che se ne rendeva conto, continuava a chiedersi che cosa avrebbe fatto in futuro.

Una mattina, durante la sua corsa attorno a Walden Pond, con il freddo che le bruciava i polmoni in una maniera più piacevole che sgradevole, quel pensiero la colpì più duramente del solito. Non riusciva a smettere di riflettere sugli interrogativi risvegliati dall’arrivo del pacco di Randall.

Per prima cosa, come faceva a sapere dove era andata a vivere? E da quando lo sapeva? Era stata certa che fosse morto dopo la sua caduta nella baia, la notte in cui l’ultimo terribile caso era arrivato alla sua conclusione. E anche se il suo corpo non era stato trovato, si diceva che un poliziotto sulla scena gli avesse sparato prima ancora che toccasse l’acqua. Mentre correva, cercò di mettere in fila i suoi prossimi passi per scoprire dove fosse e perché le avesse mandato quello strano messaggio: chi sei tu?

Il pacco è arrivato da New York, ma è ovvio che sia ancora nei dintorni di Boston. Come farebbe a sapere che mi sono trasferita, altrimenti? Come farebbe a sapere dove vivo?

Quell’idea ovviamente le portò alla mente un’immagine di Randall nascosto tra gli alberi, con gli occhi fissi sulla sua cabina.

Che fortuna, pensò. Chiunque altro nella mia vita è morto o mi ha abbandonata. Ha senso che l’unico a cui freghi qualcosa di me sia un assassino.

Sapeva che il pacco stesso non le avrebbe dato risposte. Aveva già imparato quando era stato spedito e da dove. Era solo un modo per Randall di provocarla, per farle sapere che era vivo, ancora in libertà, e interessato a lei in un modo o nell’altro.

Ci stava ancora pensando mentre tornava a casa dalla corsa. Mentre si sfilava la cuffia e i guanti, con le guance arrossate e accese dal freddo, si avvicinò a dove aveva lasciato la scatola. L’aveva studiata da cima a fondo alla ricerca di indizi o significati nascosti ma non ne aveva trovati. Neanche la carta di giornale arrotolata le era stata utile. Aveva letto ogni articolo sulla carta spiegazzata e non vi aveva visto niente che potesse servirle. Era stata solo un riempitivo. Ovviamente ciò non le aveva impedito di rileggere diverse volte ogni singola parola su quelle pagine.

Stava tamburellando nervosamente sul cartone, quando il suo cellulare squillò. Lo prese dal tavolo della cucina e fissò il numero sullo schermo per un istante. Un sorriso esitante le apparve sul volto, e lei cercò di ignorare la felicità che le sbocciò nel cuore.

Era Connelly.

Le sue dita si paralizzarono perché non aveva onestamente idea di cosa fare. Se l’avesse chiamata solo due o tre settimane prima, avrebbe semplicemente ignorato la telefonata. Ma in quel momento… beh, qualcosa era cambiato, no? E per quanto odiasse ammetterlo, supponeva che dovesse ringraziare Howard e la sua lettera per quello.

All’ultimo secondo prima che la chiamata finisse in segreteria, rispose.

“Ehi, Connelly,” disse.

Ci fu una lunga pausa dall’altro capo prima che Connelly parlasse. “Ehi, Black. Io… beh, a dire la verità credevo che avrei parlato con la tua segreteria telefonica.”

“Mi spiace averti deluso.”

“Oh, niente affatto. Sono felice di sentire la tua voce. È passato troppo tempo.”

“Già, sembra anche a me.”

“Devo dedurre che stai cominciando a pentirti del tuo pensionamento fin troppo anticipato?”

“Adesso non esageriamo. Come vanno le cose?”

“Le cose vanno… bene. Voglio dire, nel distretto tu e Ramirez avete lasciato un vuoto, ma tiriamo avanti. Finley si sta davvero dando da fare. Sta lavorando insieme a O’Malley. Detto tra me e te, credo che Finley abbia preso personalmente la tua decisione di ritirarti, e che abbia stabilito che se qualcuno doveva prendere il tuo posto, beh, l’avrebbe fatto lui.”

“Sono contenta per lui. Digli che mi manca.”

“Beh, speravo che potessi venire qui e dirglielo tu stessa,” disse Connelly.

“Non penso di essere già pronta per una visita,” rispose lei.

“Okay, io non sono mai stato bravo con le chiacchiere,” si arrese l’uomo. “Arrivo dritto al punto.”

“È quello che sai fare meglio,” commentò Avery.

“Senti… abbiamo un caso…”

“Fermo subito,” lo interruppe lei. “Non torno indietro. Non adesso, e forse mai più, anche se non lo voglio escludere del tutto.”

“Lascia che ti spieghi, Black,” insistette Connelly. “Aspetta di aver sentito tutti i dettagli. Anzi, probabilmente li conosci già. È stato su tutti i telegiornali.”

“Non li guardo,” disse lei. “Uso il computer solo per Amazon. Non mi ricordo l’ultima volta che ho letto un titolo di giornale.”

“Beh, è maledettamente strano e non riusciamo a cavare un ragno dal buco. Io e O’Malley stavamo bevendo qualcosa insieme l’altra sera e ci siamo decisi a chiamarti. Non voglio adularti per convincerti… ma sei l’unica persona che ci è venuta in mente che potrebbe risolvere questo caso. Se non hai visto le notizie, posso dirti che…”

“La risposta è no, Connelly,” ripeté lei, interrompendolo. “Apprezzo il pensiero e il gesto, ma no. Se mai mi sentirò pronta a tornare, ti chiamerò.”

“È morto un uomo, Avery, e l’assassino potrebbe non avere ancora finito,” disse il detective.

Per qualche ragione, sentirlo usare il suo nome di battesimo la ferì. “Mi dispiace, Connelly. Ricordati di portare a Finley i miei saluti.”

 

Detto quello, chiuse la telefonata. Fissò il cellulare con lo sguardo perso nel vuoto, chiedendosi se avesse appena fatto un enorme sbaglio. Avrebbe mentito a se stessa se avesse detto che l’idea di tornare a lavoro non l’aveva emozionata. Persino sentire la voce di Connelly le aveva risvegliato il desiderio di tornare alla sua vecchia vita.

Non puoi, disse a se stessa. Se ora torni a lavoro, è come se dicessi a Rose che non ti importa niente di lei. E finiresti dritta tra le braccia della creatura che ti ha spinta dove ti trovi adesso.

Si alzò in piedi e guardò fuori dalla finestra. Scrutò tra gli alberi, le ombre fitte anche durante il giorno in mezzo ai i tronchi, e pensò alla lettera di Howard Randall.

Alla domanda di Howard Randall.

Chi sei tu?

Stava iniziando a credere di non essere più certa della risposta. E forse il motivo era che nella sua vita non c’era più il lavoro.

***

Quel pomeriggio interruppe la routine per la prima volta da quando l’aveva stabilita. Guidò fino a South Boston, al cimitero di St. Augustine. Era un luogo che evitava sin dal suo trasloco, non solo per il senso di colpa ma anche perché sembrava che qualsiasi forza crudele manipolasse il fato le avesse sferrato un ennesimo colpo. Sia Ramirez che Jack erano sepolti al cimitero di St Augustine e anche se erano in punti diversi, per Avery era lo stesso. Per quel che la riguardava, il centro dei suoi fallimenti e del suo dolore era in quel parco verde e lei non voleva averci niente a che fare.

Per quello era la prima volta che ci andava dopo i funerali. Rimase seduta in auto per un momento, guardando verso la tomba di Ramirez. Lentamente uscì dalla macchina e si incamminò dove era seppellito l’uomo che era stata pronta a sposare. La lapide era modesta. Qualcuno vi aveva recentemente lasciato sopra dei fiori bianchi, probabilmente sua madre, che si sarebbero seccati e appassiti al freddo in pochi giorni.

Non sapeva che cosa dire ma immaginò che fosse normale. Se Ramirez era consapevole della sua presenza e se avesse potuto sentire le sue parole (e una gran parte di Avery credeva che fosse così), avrebbe saputo che non era una donna sentimentale. Magari era persino scioccato, in qualsiasi luogo etereo si trovasse, che fosse andata a visitarlo.

Si infilò una mano in tasca ed estrasse l’anello che Ramirez aveva avuto intenzione di metterle al dito.

“Mi manchi,” disse. “Mi manchi e ora mi sento così… così persa. E non ti posso mentire… non è solo perché non ci sei più. Non so più cosa fare di me stessa. La mia vita sta candendo a pezzi e l’unica cosa che so potrebbe rimetterla insieme, il lavoro, forse è la scelta peggiore che potrei prendere.”

Cercò di immaginarselo lì con lei. Che cosa le avrebbe detto se avesse potuto? Sorrise pensando a come le avrebbe lanciato uno dei suoi ghigni sarcastici. Stringi i denti e fallo. Ecco cosa le avrebbe detto. Riporta il culo al lavoro e riprenditi quello che è rimasto della tua vita.

“Non mi sei d’aiuto,” disse a sua volta con un sorriso ironico. La inquietava un pochino quanto le veniva naturale parlargli attraverso la tomba. “Mi diresti di tornare a lavoro e di capire come andare avanti, non è vero?”

Fissò la lapide come se volesse costringerla a risponderle. Le scivolò una singola lacrima dall’angolo dell’occhio destro. L’asciugò mentre si voltava e si incamminava verso la tomba di Jack. Lui era stato sepolto dall’altro lato del cimitero, che riusciva a malapena a vedere da dove si trovava. Percorse un sentierino che attraversava il terreno, apprezzando il silenzio. Non fece caso alle poche altre persone lì a commemorare e a ricordare i propri cari, lasciandogli la loro privacy.

Ma quando arrivò alla tomba di Jack, vide che c’era già qualcuno. Era una donna, bassa e con la testa china. Dopo qualche altro passo, Avery capì che era Rose. Aveva le mani infilate nelle tasche e indossava un cappotto con il cappuccio, che era alzato a coprirle la testa.

Avery preferì non chiamarla, sperando di arrivare abbastanza vicino da poter parlare con lei. Ma dopo poco, Rose sembrò percepire il suo arrivo. Si voltò, si accorse di Avery e subito prese ad allontanarsi.

“Rose, non fare così,” disse Avery. “Non possiamo parlare solo per un minuto?”

“No, mamma. Gesù, non vorrai rovinarmi anche questo?”

“Rose!”

Ma la ragazza non aveva nient’altro da dirle. Affrettò il passo e Avery lottò contro se stessa per non inseguirla. Nuove lacrime le inondarono il volto mentre si voltava verso la tomba di Jack.

“Da chi l’ha presa questa testardaggine?” chiese alla lapide.

Come prima, anche la tomba di Jack non rispose. Avery si girò a destra e guardò Rose che camminava in lontananza. Allontanandosi da lei fino a svanire completamente.