Una Ragione per Morire

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CAPITOLO QUATTRO

Quando Avery entrò nell’ufficio della dottoressa Higdon, si sentì un cliché. La dottoressa era una donna composta ed elegante. Sembrava avere sempre la testa alzata verso l’alto, per mostrare la punta perfetta del naso e l’angolo del mento. Era attraente, anche se un po’ appariscente.

Avery aveva lottato contro la tentazione di andare da una psicologa ma sapeva abbastanza di come funzionavano le menti traumatizzate da sapere che ne aveva bisogno. Ed era doloroso da ammettere. Odiava l’idea di andare da una strizza-cervelli e non voleva ridursi a servirsi dei servizi di quella assegnata dalla polizia di Boston che aveva visto negli ultimi anni dopo certi casi particolarmente duri.

Quindi si era rivolta alla dottoressa Higdon, una psicologa di cui aveva sentito parlare l’anno precedente durante un caso in cui il sospettato l’aveva usata per superare una serie di fobie irrazionali.

“Apprezzo che mi abbia dato appuntamento così velocemente,” esordì Avery. “In realtà credevo di dover aspettare qualche settimana.”

Higdon scrollò le spalle mentre si accomodava sulla sua sedia. Quando Avery prese posto sul divano vicino, l’idea di essere un cliché umano crebbe.

“Beh, ho sentito parlare di lei diverse volte al telegiornale,” spiegò la psicologa. “E numerosi nuovi pazienti mi hanno fatto il suo nome, delle persone che apparentemente ha incontrato durante il suo lavoro. Quindi oggi avevo un’ora libera e ho pensato che sarebbe stato bello conoscerla.”

Sapendo che era straordinario ottenere un appuntamento con una psicologa rispettata solo due giorni dopo aver chiamato il suo ufficio, Avery aveva capito di non dover dare niente per scontato. E non essendo tipo da perdersi in chiacchiere, non aveva problemi ad arrivare subito al punto.

“Ho voluto vedere una psicologa perché, a essere sincera, ho una gran confusione in testa al momento. Una parte di me dice che starò meglio allontanandomi dal lavoro. Un’altra dice che invece guarirò solo essendo produttiva e rimanendo in ambiti che mi sono familiari… il che mi riporterebbe a lavoro.”

“Conosco solo i minimi dettagli dei problemi a cui sta accennando,” disse la Higdon. “Potrebbe elaborare?”

Avery passò dieci minuti facendo esattamente quello. Iniziò raccontando come si era svolto l’ultimo caso e concluse con la morte del suo ex marito e del suo futuro fidanzato. Parlò brevemente del suo trasferimento lontano dalla città e della recente crisi con Rose, sia dopo l’incontro al suo appartamento che quando si erano viste sulla tomba di Jack.

La dottoressa Higdon cominciò subito a farle domande, avendo preso appunti per tutto il tempo in cui Avery aveva parlato. “Il trasferimento alla cabina vicino a Walden Pond… che cosa l’ha spinta a farlo?”

“Non volevo stare vicino alla gente. È più isolata. Molto tranquilla.”

“Sente di poter guarire meglio sia emotivamente che fisicamente se sta da sola?” chiese la Higdon.

“Non lo so. È solo che… non volevo vivere dove tutti potessero passare a controllare come stavo centinaia di volte al giorno.”

“Ha sempre avuto difficoltà con le persone preoccupate per la sua salute?”

Avery scrollò le spalle. “Non proprio. È una questione di vulnerabilità, immagino. Nel mio lavoro, la vulnerabilità porta alla debolezza.”

“Dubito che sia vero. In termini di percezione, forse, ma non nella realtà dei fatti.” Si fermò per un momento e poi si sporse in avanti sulla sedia. “Non cercherò di prendere le cose alla lontana e di portarla con delicatezza ai problemi chiave,” disse. “Sono certa che capirebbe che cosa sto cercando di fare. Oltretutto il fatto che sa ammettere la paura di essere vulnerabile mi dice molto. Quindi credo che possiamo andare subito al punto.”

“Preferirei anche io così,” replicò Avery.

“Il tempo che ha passato da sola nella sua cabina… crede che abbia aiutato o ostacolato la sua guarigione?”

“Credo che dire che mi ha aiutato sarebbe esagerato, ma l’ha resa più semplice. Sapevo che non avrei dovuto avere a che fare con amici e parenti preoccupati per me.”

“Ha provato a mettersi in contatto con qualcuno durante questo periodo?”

“Solo con mia figlia,” rispose Avery.

“Ma lei ha rifiutato ogni suo tentativo di riavvicinamento?”

“Esatto. Sono abbastanza certa che incolpi me per la morte di suo padre.”

“Se vogliamo essere sincere, probabilmente ha ragione,” disse la Higdon. “E arriverà alla verità con i suoi tempi. Le persone hanno modi diversi di affrontare il lutto. Invece di fuggire in una cabina in mezzo ai boschi, sua figlia ha scelto di dare la colpa a un obiettivo facile. Ora lasci che le chieda una cosa… perché si è licenziata dal suo lavoro?”

“Perché mi sono sentita come se avessi perso tutto,” rispose Avery. Non dovette nemmeno pensarci. “Mi sono sentita come se avessi perso tutto e se avessi fallito nel mio lavoro. Non potevo rimanere perché mi avrebbe continuamente ricordato che non ero stata abbastanza brava.”

“Sente ancora di non essere abbastanza brava?”

“Beh… no. A rischio di sembrare presuntuosa, so fare molto bene il mio lavoro.”

“E le è mancato durante questi ultimi tre mesi, giusto?”

“Sì,” confessò Avery.

“Crede che il suo desiderio di tornare sia solo per riprendere la sua vita come l’aveva lasciata o pensa che la potrebbe aiutare a fare progressi?”

“È questo il problema. Non lo so. Ma sono arrivata a credere di doverlo scoprire. Penso di dover tornare indietro.”

La dottoressa Higdon annuì e scribacchiò qualcosa. “Crede che sua figlia reagirebbe negativamente se tornasse al suo lavoro?”

“Senza dubbio.”

“Okay, allora fingiamo che lei non abbia alcun potere su questa decisione, diciamo che a Rose non importi nulla se torna a lavoro o meno. Avrebbe qualche esitazione?”

La realizzazione la colpì come un pugno. “Probabilmente no.”

“Immagino che abbia la sua risposta, allora,” disse la Higdon. “Penso che a questo punto della sua elaborazione del lutto, lei e sua figlia non possiate lasciare che l’altra detti legge sul modo in cui affrontate il dolore. Rose ha bisogno di dare la colpa a qualcuno in questo momento. È così che sta affrontando la situazione…. E le difficoltà nel vostro rapporto glielo rendono più facile. Per quanto la riguarda… mi viene da dire che ritornare a lavoro potrebbe essere esattamente quello che le serve per andare avanti.”

“Le viene da dire?” ripeté Avery, confusa.

“Sì, credo che abbia senso, dato il suo passato e le sue esperienze. Tuttavia, durante il tempo che ha passato da sola, isolata da tutti, ha mai avuto pensieri suicidi?”

“No,” mentì lei. Lo fece facilmente e senza particolare pensiero. “Sono stata depressa, certo. Ma mai così tanto depressa.”

Sì, aveva omesso di parlare del suo quasi-suicidio. Non aveva nemmeno parlato del pacco di Howard Randall nel suo riassunto degli ultimi mesi. Non sapeva il perché. Per il momento le sembrava solo troppo privato.

“Essendo questo il caso,” disse la Higdon, “non vedo perché non dovrebbe tornare a lavoro. Ma penso che dovrebbe avere un partner. E so che è una faccenda delicata visto chi era il suo ultimo compagno. Tuttavia, non può mettersi in situazioni altamente stressanti da sola così presto. Le raccomanderei persino di non iniziare occupandosi di casi troppo impegnativi. Persino di fare lavoro d’ufficio.”

“Sarò sincera… questo non succederà.”

La Higdon fece un sorriso tirato. “Quindi pensa che farà così? Vedrà se tornare a lavoro la aiuterà a superare i suoi dubbi e il senso di colpa?”

“Presto,” rispose Avery, ripensando alla chiamata di Connelly di due giorni prima. “Sì, credo che potrei fare così.”

“Beh, le auguro ogni fortuna,” disse la Higdon, tendendosi a stringerle la mano. “Nel frattempo, si senta libera di chiamarmi se avesse bisogno di qualsiasi cosa.”

Avery strinse la mano della dottoressa e lasciò il suo ufficio. Odiava ammetterlo, ma si sentiva meglio di quanto non le succedesse da settimane, sin da quando aveva trovato la sua routine di esercizi fisici e mentali. Era certa di riuscire a pensare più chiaramente e non perché la Higdon le avesse svelato qualche verità nascosta. Aveva avuto solo bisogno che qualcuno le facesse notare che nonostante Rose fosse l’unica persona al di fuori del lavoro che le era rimasta nella vita, non significava che il modo in cui lei la vedeva e la paura del suo giudizio dovessero dettare legge su cosa avrebbe fatto con il resto della sua esistenza.

Guidò fino all’uscita più vicina per tornare alla cabina. Sulla sua sinistra svettavano gli edifici più alti di Boston. Il distretto era a soli venti minuti di distanza. Avrebbe potuto dirigersi da quella parte, fare visita a tutti e ricevere un caldo benvenuto. Avrebbe potuto strappare il cerotto e farlo.

Ma un caldo benvenuto non era quello che si meritava. In effetti, non era certa di che cosa meritasse.

E forse era da lì che derivava l’ultima briciola di esitazione.

***

L’incubo di quella notte non le era nuovo, ma era una variante del solito.

Nel sogno, era seduta nella sala visite del carcere. Non era quella in cui le era capitato a volte di visitare Howard Randall, ma uno spazio più ampio e dall’aria quasi antica. Rose e Jack erano seduti attorno al tavolo, con una scacchiera tra di loro. Tutti i pezzi erano sulla tavola, solo i re erano stati catturati.

“Lui non è qui,” disse Rose, con la voce che riecheggiava nella stanza cavernosa. “La tua piccola arma segreta non è qui.”

 

“Meglio così,” continuò Jack. “Era ora che imparassi a risolvere i casi più difficili da sola.”

Poi il suo ex marito si passò una mano sulla faccia e in un batter d’occhio, apparve con l’aspetto che aveva avuto la notte che lei aveva scoperto il suo corpo. Il lato destro del volto era coperto di sangue e tutta la carne sembrava incavata verso l’interno e pendente. Quando aprì la bocca, non c’era più la lingua. C’era solo oscurità tra i suoi denti, un abisso da cui uscivano le sue parole e, Avery sospettava, dove desiderava che lei finisse.

“Non sei riuscita a salvarmi,” disse l’uomo. “Non sei riuscita a salvarmi e ora devo fidarmi di lasciarti mia figlia.”

In quel momento Rose si alzò e iniziò ad allontanarsi dal tavolo. Avery si alzò insieme a lei, certa che sarebbe successo qualcosa di molto brutto se l’avesse persa di vista. Fece per seguirla ma non riuscì a muoversi. Abbassò lo sguardo e vide che entrambi i suoi piedi erano stati inchiodati a terra con delle enormi traversine. Erano distrutti, niente più di sangue, ossia e brandelli di carne.

“Rose!”

Ma sua figlia si limitò a girarsi per guardarla, sorridere e farle un cenno di saluto. E man mano che si allontanava, la stanza sembrava diventare più grande. Ombre emersero da ogni direzione, calando sulla ragazza.

“Rose!”

“Va tutto bene,” disse una voce alle sue spalle. “La terrò d’occhio io.”

Si voltò e vide Ramirez, la mano sulla pistola e intento a scrutare tra le ombre. E quando cominciò ad avanzare eroicamente per salvare Rose, le ombre iniziarono a discendere anche su di lui.

“No! Rimani qui!”

Tirò contro i chiodi conficcati nei piedi ma inutilmente. Poté solo guardare mentre le due persone che aveva amato di più al mondo venivano inghiottite dell’oscurità.

E in quel momento iniziarono le grida, in mezzo alle ombre, mentre Rose e Ramirez riempivano la stanza con le loro urla agonizzanti.

Ancora al tavolo, Jack la supplicò: “Per l’amore del cielo, fai qualcosa!”

Fu allora che Avery scattò a sedere sul letto, con un grido tra le labbra. Accese la lampada sul comodino con mano tremante. Per un istante ancora, vide l’enorme stanza tutta intorno a sé, che lentamente svanì, cacciata dalla luce e dalla veglia. Fissò la camera da letto ancora nuova della sua cabina e per la prima volta si chiese se lì si sarebbe mai sentita a casa.

Si ritrovò a pensare alla chiamata di Connelly. E poi al pacco di Howard Randall.

La sua vecchia vita la perseguitava nei sogni, certo, ma stava anche invadendo quella nuova esistenza isolata che aveva cercato di costruire per se stessa.

Sembrava che non avesse via di scampo.

Ma forse, solo forse, era il momento di smetterla di fuggire.

CAPITOLO CINQUE

Non appena aveva smesso di bere nei momenti più miserabili del suo periodo di lutto, aveva lentamente sostituito il consumo d’alcool con quello di caffeina. Mentre leggeva beveva solitamente due tazze di caffè intervallate da una Diet Coke. Per quel motivo, dopo qualche settimana, aveva cominciare a soffrire di mal di testa se passava più di un giorno senza caffeina. Non era il modo più sano di vivere ma era certo meglio che affogare la disperazione nell’alcol.

Era per quello che il giorno seguente, dopo pranzo, si ritrovò in un bar. Era uscita principalmente per fare la spesa, avendo finito il caffè alla cabina, e avendone bevuta solo una tazza di prima mattina, le serviva una rapida dose prima di tornare a casa a concludere la giornata. Aveva un libro che voleva finir di leggere e stava anche pensando di tornare nei boschi per provare di nuovo a dare la caccia ai cervi.

Il bar era uno dei posti più alla moda della zona, e c’erano quattro persone curve dietro i loro Macbook nel locale. La fila alla cassa era lunga, persino per quell’ora del pomeriggio. In tutto il posto riecheggiava il brusio di conversazioni, il ronzio delle macchine dietro al bancone del ber e la televisione tenuta a basso volume in un angolo del locale.

Avery arrivò alla cassa, ordinò il suo chai con doppia dose di espresso e si accomodò nell’area d’attesa. Passò il tempo guardando la lavagnetta di sughero piena di volantini di eventi locali: concerti, rappresentazioni teatrali, raccolte di denaro…

E poi notò la conversazione alle sue spalle. Fece del suo meglio per non far capire che stava origliando, tenendo gli occhi fissi sulla lavagnetta degli eventi.

C’erano due donne alle sue spalle. Una era sulla ventina, e portava stretta al petto una fascia per neonati. Il bambino dormiva in silenzio appoggiato a lei. L’altra aveva qualche anno di più, un drink in mano e non sembrava pronta a uscire dal locale.

Entrambe erano concentrate sulla televisione dietro il bancone. Conversavano a bassa voce, ma lei le sentiva ugualmente con facilità.

“Mio Dio… hai sentito questa storia?” stava dicendo la madre.

“Sì,” rispose la seconda donna. “È come se la gente stesse inventando modi sempre nuovi per farsi del male. Che razza di cervello devi avere per inventarti una cosa del genere?”

“Sembra che non abbiano ancora trovato quel maniaco,” disse la madre.

“E probabilmente non lo faranno,” rincarò l’altra. “Se potessero catturare questo tizio, ormai avrebbero già fatto qualcosa. Accidenti… Riesci a immaginare la famiglia della vittima, quando ha scoperto che fine ha fatto al telegiornale?”

Il barista chiamò il suo nome e le tese la bevanda da dietro il bancone, ed Avery distolse subito l’attenzione da loro. Accettò il bicchiere, e voltata verso la televisione, si permise di guardare il telegiornale per la prima volta dopo quasi tre mesi.

Circa una settimana prima era morto un uomo alla periferia della città, in un appartamento di una palazzina diroccata. Non una semplice morte, era piuttosto chiaro che si trattasse di un omicidio. La vittima era stata ritrovata nel suo armadio, coperta di ragni di varie specie. La polizia stava lavorando sull’ipotesi che si trattasse di un omicidio premeditato, dato che la metà dei ragni non era originaria della regione. Nonostante l’abbondanza degli animali, sul corpo erano stati trovati solo due morsi e nessuno era di un ragno velenoso. Secondo il notiziario, fino a quel momento la polizia ipotizzava che fosse morto per strangolamento oppure per un attacco cardiaco.

Sono due cause di morte piuttosto diverse, pensò Avery tra sé e sé, mentre si voltava lentamente.

Non poté evitare di chiedersi se fosse quello il caso per cui Connelly l’aveva chiamata tre giorni prima. Un caso molto particolare e, fino a quel momento, senza alcuna risposta certa. Già… probabilmente è questo, rifletté.

Con il suo drink in mano, Avery uscì dal locale. Aveva tutto il pomeriggio davanti a sé, ma anche un’idea piuttosto chiara su come l’avrebbe passato. Che le piacesse o meno, avrebbe studiato i ragni.

***

Avery passò il resto del pomeriggio a familiarizzare con il caso. La storia stessa era così macabra che non ebbe problemi a trovare molte fonti diverse. Alla fine dei conti, aveva almeno undici diverse fonti affidabili che raccontavano cosa era successo all’uomo di nome Alfred Lawnbrook.

Il padrone di casa di Lawnbrook era entrato nel suo appartamento dopo che per l’ennesima volta l’affitto era stato in ritardo e subito aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Leggendo, Avery si ritrovò a fare un parallelo con la sua recente esperienza con Rose e l’affittuario, e quel pensiero la inquietò. Alfred Lawnbrook era stato infilato nel ripostiglio della sua camera da letto. Era stato ricoperto dalle ragnatele di almeno tre diversi ragni, e morso due volte. I morsi, come aveva detto anche il notiziario al bar, non erano stati particolarmente letali.

Anche se non era stato possibile un conteggio accurato, una stima plausibile di quanti ragni ci fossero stati sulla scena del delitto si aggirava intorno ai cinque o seicento. Alcuni di essi erano esotici e non avrebbero dovuto trovarsi in un appartamento a Boston. Un aracnologo era stato chiamato per aiutare con il caso e aveva sottolineato che almeno tre specie non erano nemmeno originarie dell’America, men che meno del Massachusetts.

Quindi è stato intenzionale, pensò Avery. E anche molto ben pianificato. Tutta questa pianificazione indica che con ogni probabilità il colpevole lo farà di nuovo. E se lo farà di nuovo e nella stessa maniera, potrebbe essere possibile rintracciarlo e catturarlo.

Il rapporto del coroner diceva che Lawnbrook era morto per un attacco di cuore, probabilmente per la paura della situazione. Ovviamente, dato che nessuno era stato presente durante l’omicidio, in realtà poteva essere successo di tutto. Nessuno sapeva niente di certo.

In effetti era un caso interessante… anche se un po’ macabro. Avery non aveva molte fobie, ma i grossi ragni erano in cima alla sua lista di Cose Di Cui Poteva Fare A Meno. E anche se non erano state rilasciate al pubblico immagini della scena (per fortuna), poteva solo immaginare come doveva essere stata.

Una volta che si fu aggiornata, Avery rimase a fissare fuori dalla sua finestra sul retro per un po’. Poi andò in cucina muovendosi in silenzio, come se avesse paura di essere scoperta. Tirò fuori la bottiglia di bourbon per la prima volta dopo mesi e si versò un bicchierino. Lo prese in fretta e afferrò il telefono. Andò sul numero di Connelly e premette CHIAMATA.

L’uomo rispose al secondo squillo, decisamente più fretta del suo solito. Avery immaginò che fosse significativo, considerata la situazione.

“Black,” disse. “Non mi aspettavo di ricevere una tua telefonata.”

Avery ignorò le formalità ed esordì: “Dunque, il caso per cui mi hai chiamata. È quello di Lawnbrook e i ragni?”

“Lo è,” confermò l’uomo. “La scena è stata passata ripetutamente al setaccio, il corpo è stato messo sotto il microscopio, e non abbiamo niente.”

“Vengo a darvi una mano,” disse lei. “Ma solo per questo caso. E voglio farlo alle mie condizioni. Niente supervisione particolare perché ho passato un brutto periodo. Puoi occupartene tu?”

“Farò del mio meglio.”

Avery sospirò, rassegnata a quanto fosse piacevole sentirsi utile e sapere che presto la sua vita le sarebbe di nuovo sembrata normale.

“Okay allora,” disse. “Ci vediamo domani mattina all’A1.”

CAPITOLO SEI

Avery non era certa di che cosa aspettarsi, quando rientrò nel distretto per la prima volta dopo tre mesi. Forse una stretta allo stomaco, o un’ondata di nostalgia. Magari persino una sensazione di sicurezza che l’avrebbe spinta a domandarsi perché avesse mai pensato che smettere potesse essere una buona idea.

Quello che non si era aspettata era di non provare nulla. E tuttavia fu proprio così che si sentì. Quando entrò nell’A1 il mattino seguente, non provò niente di particolare. Fu quasi come se non avesse perso neanche un giorno e quella fosse una mattina come le altre, come se niente fosse mai cambiato.

Apparentemente però era l’unica nell’edificio a sentirsi in quella maniera. Mentre attraversava il palazzo per arrivare al suo vecchio ufficio, notò che il brusio concitato della mattina sembrava acquietarsi al suo passaggio. Era quasi come se fosse seguita da un’ondata di silenzio. La receptionist al telefono si ammutolì, il mormorio delle conversazioni vicino alla macchinetta del caffè svanì. A giudicare dall’espressione dei suoi colleghi, era come se una celebrità fosse entrata nell’edificio; avevano gli occhi spalancati per la meraviglia e le bocche aperte. Avery si chiese per un momento se Connelly si fosse preso la briga di dire a qualcuno che sarebbe tornata.

Dopo aver attraversato la zona centrale del palazzo ed essere arrivata nel retro dove si trovavano gli uffici e le sale conferenze, le cose si fecero più normali. Miller, uno dell’ufficio addetto alla conservazione delle prove, le fece un cenno di saluto con la mano. Denson, un’agente anziana a cui forse mancavano due anni alla pensione, le rivolse un sorriso, un saluto e un genuino: “Bello riaverti tra noi!”

Avery ricambiò il sorriso della donna, pensando: Non sono tornata.

Ma subito dopo fu colta da un altro pensiero: Credici. Raccontati pure tutte le bugie che vuoi. Ma vedi quanto ti sembra naturale. Quanto ti sembra giusto.

Trovò Connelly mentre usciva dal suo ufficio alla fine del corridoio. Quell’uomo era stato la causa di notevoli mal di testa nel corso degli anni, ma era davvero felice di rivederlo. Il sorriso sul suo volto le fece capire che il sentimento era reciproco. Le andò incontro nel corridoio e lei si accorse che il supervisore dell’A1, che di solito era un uomo severo e poco incline alle smancerie, si stava trattenendo dall’abbracciarla.

 

“Come è stato il ritorno?” le chiese.

“Strano,“ rispose lei. “Mi hanno guardata tutti come se fossi una specie di celebrità. Non sono riuscita a capire se volevano distogliere lo sguardo o farmi un applauso.”

“A dire la verità, temevo che ti avrebbero fatto una standing ovation al tuo arrivo. Ci sei mancata da queste parti, Black. Tu… beh, sia tu che Ramirez.”

“Lo apprezzo, signore.”

“Bene. Perché sto per mostrarti qualcosa che ti potrebbe fare incazzare. Vedi… nel profondo, ho sempre nutrito la speranza che un giorno o l’altro saresti tornata. Ma non potevo mettere in pausa tutta l’A1 fino a quel momento. Quindi non hai più un ufficio vero e proprio.” Le spiegò mentre la guidava lungo il corridoio, nella direzione del suo vecchio ufficio.

“Non è affatto un problema,” replicò Avery. “E comunque chi si è preso quel buco?”

Connelly non rispose. Invece fece gli ultimi passi fino alla stanza in questione e le fece cenno di andare. Avery si avvicinò alla porta e diede un’occhiata all’interno. Le si scaldò il cuore davanti a ciò che vi trovò.

Finley era seduto alla sua scrivania, bevendo caffè da una tazza e leggendo qualcosa su un portatile. Quando la vide, il suo volto attraversò tutta una gamma di emozioni: shock, felicità, e poi si fermò sull’imbarazzo.

Non dimostrò nemmeno lo stesso autocontrollo di Connelly. Si alzò all’istante dalla sedia e la incontrò sulla porta con un abbraccio. Avery aveva sottovalutato quanto le fosse mancato. Anche se non avevano mai lavorato insieme per davvero, aveva apprezzato vedere Finley salire tra i ranghi. Era divertente, leale e genuinamente gentile. Lo aveva sempre visto come una specie di fratello sul posto di lavoro.

“È bello riaverti qui,” disse Finley. “Ci sei mancata al distretto.”

“Gliel’ho già detto anche io,” intervenne Connelly. “Non montiamole la testa il primo giorno di ritorno al lavoro.”

Maledizione, non sono tornata, pensò lei. Ma le sembrò persino più improbabile che cinque minuti prima.

“Vuoi che la porti sulla scena?” chiese Finley.

“Sì, e presto. O’Malley vorrà parlare con lei più tardi e vorrei che per il suo arrivo Black sia stata già stata aggiornata su tutto. Portala là fuori e dille quello che sappiamo. Cercate di partire nei prossimi dieci minuti, se potete.”

Finley annuì, visibilmente contento di aver ricevuto un incarico. Mentre tornava di corsa al computer, Connelly fece cenno ad Avery di seguirlo in corridoio. “Vieni con me,” disse.

Lei lo seguì fuori, fino alla grande sala all’estremità del corridoio. L’ufficio di Connelly non era minimamente cambiato da quando se ne era andata. Era sempre ingombro ma con un certo criterio. C’erano tre tazze da caffè sulla scrivania e lei suppose che almeno due fossero state bevute quella mattina.

“Ancora un’altra cosa,” disse Connelly, sistemandosi dietro alla scrivania. Aprì il cassetto in cima e ne estrasse due oggetti che erano mancati ad Avery più della maggior parte delle persone dentro quell’edificio.

La sua pistola e il suo distintivo. Sorrise mentre li prendeva.

“Ho già sbrigato tutta la burocrazia al posto tuo,” spiegò l’uomo. “Questi sono tuoi. Mi sto occupando anche delle carte per la tua paga e la durata dell’incarico.”

A lei non importava davvero dei soldi o di quanto si aspettassero che rimanesse al distretto per quel caso. Non appena ebbe tra le dita il distintivo e sollevò la Glock, fu come se fosse tornata tutta intera.

Per quanto fosse triste, il distintivo e la pistola le erano estremamente familiari.

Erano casa.

***

La scena del crimine ormai era vecchia di sei giorni e quindi era vuota quando lei e Finley vi arrivarono. Passarono sotto il nastro giallo e Avery guardò Finley che apriva l’appartamento di Alfred Lawnbrook con una chiave presa da una bustina infilata nel taschino della sua camicia.

“Hai paura dei ragni?” chiese Finley mentre entravano.

“Un po’,” ammise lei. “Ma questa cosa la sappiamo solo io e te, va bene?”

Finley annuì con un sorriso teso. “Te lo chiedo solo perché sono venuti esperti di ragni e degli sterminatori ad occuparsene, ma ne è rimasto in giro qualcuno. Solo quelli più comuni, comunque. Niente di esotico.”

La guidò in giro per l’appartamento. Era molto semplice: l’arredamento e il mobilio le dissero che Lawnbrook doveva essere divorziato o single. “Ma ce n’erano davvero alcuni che non erano della zona, vero?”

“Assolutamente,” rispose Finley. “Almeno tre specie. Una credo fosse originaria dell’India. Ho degli appunti dettagliati salvati sul cellulare, se li vuoi. L’esperto di ragni che è venuto e ha dato un’occhiata al posto ha detto che sulla scena ce n’erano almeno due specie che dovevano essere state ordinate da un fornitore. E che comunque sarebbero state difficili da ottenere.”

“Che tu sappia ce n’erano di grossi?” chiese Avery.

“Mi pare di aver sentito che i più grandi erano delle dimensioni di una pallina da golf. E se lo chiedi a me erano giganteschi.”

Entrarono in camera da letto e Avery fece del suo meglio per evitare di cercare ragni sul pavimento e le pareti. A una rapida occhiata la stanza sembrava pulita con accuratezza. La porta del ripostiglio era aperta, così che Finley potesse infilarsi dentro per accendere le luci. Lo fece in fretta e ne uscì rapidamente.

“Lawnbrook era accasciato nell’angolo in fondo a sinistra,” le spiegò. “Abbiamo delle foto all’A1 e sono certo che O’Malley sarebbe felice di studiarle insieme a te. Quel maledetto è affascinato da questo caso.”

Avery si avvicinò all’ingresso del ripostiglio. A parte qualche filo di ragnatela nell’angolo, non c’era niente da vedere.

Poi uscì dalla camera da letto e iniziò a controllare se ci fossero segni di scasso. Finley la seguiva, mantenendo le distanze e lasciandola lavorare. Avery cercò qualsiasi cosa che fosse fuori posto, persino piccola come una delle foto appese in soggiorno, ma non trovò nulla. Lesse i titoli dei libri nel piccolo scaffale accanto al mobile della televisione per vedere se ci fosse qualcosa che collegasse Lawnbrook ai ragni, ma non c’era niente.

“C’è qualche collegamento tra Lawnbrook e un interesse per i ragni?” chiese.

“No. Nulla.”

“Qualcuno ha parlato con la sua famiglia?”

“Sì. E credo che O’Malley abbia le copie dei rapporti. Da quello che ho capito, hanno descritto Lawnbrook come un uomo molto nervoso. Odiava le giostre, i film horror, cose così. Quindi non sembra molto probabile che gli piacessero i ragni.”

Quindi se i ragni non erano qui per via di Lawnbrook, perché li hanno portati in questo appartamento? si domandò Avery. E che razza di persona lo farebbe? E perché?

Tutte le giornate passate a tenere la mente sveglia con il Sudoku e le parole crociate erano state utili. Non appena le domande iniziarono a prendere forma nel suo cervello, non ci fu più modo di fermarle. Ed era piacevole.

“Sai se Lawnbrook è ancora dal coroner?” chiese.

“Sì, è ancora lì. Lo stanno studiando gli esperti di ragni. Durante l’autopsia gli hanno trovato delle uova nel naso e nel basso intestino.”

Avery non riuscì a trattenere un brivido a quella rivelazione. “Hai voglia di andare là?”

“Ti porterò ovunque tu voglia, purché mi allontani da questo posto. Lo so che non ce ne sono più, ma…”

“Ma ti sembra che ti stiano camminando addosso,” concluse lei con un pallido sorriso. “Lo so. Andiamocene.”

***

Persino i ritmi frenetici degli spostamenti da un luogo all’altro per trovare le risposte le sembravano incredibili. Non era solo lei a muoversi, era la sua stessa vita. Percepiva fisicamente e mentalmente i cambiamenti in atto, mentre superava persone e luoghi nel viaggio verso l’ufficio del coroner.

Bepul matn qismi tugadi. Ko'proq o'qishini xohlaysizmi?