Kitobni o'qish: «L'undecimo comandamento: Romanzo»
I
Leviamoci il cappello, signori lettori, perchè siamo in casa del sottoprefetto di Castelnuovo.
I Castelnuovi sono molti, sulla faccia della terra, e voi forse aspetterete che io vi dica in quale dei tanti vi abbia condotti. Ma io, con vostra licenza, non lo farò, per ragioni di alta convenienza ed anche di sicurezza personale. Il sottoprefetto del mio Castelnuovo sarebbe capace di aversela a male e di farmi arrestare come ozioso e vagabondo, la prima volta che mi saltasse il ticchio di visitare il suo circondario. Ora, siccome io ci ho proprio un gran desiderio di tornare laggiù e di non esser molestato nelle mie corse sconclusionate, voi consentirete, spero, che in questo particolare io mi tenga prudentemente a mezz'aria.
Per le necessità della storia, vi basti di sapere che si dice Castelnuovo in opposizione di Castelvecchio. Castelvecchio, ancora due anni fa, quando io ci sono stato, era una rovina sulla vetta del monte Acuto; il qual monte è uno dei soliti contrafforti dell'Appennino, che ricorrono così spesso nella orografia dei romanzieri. Castelnuovo è una cittadina fabbricata più in basso, tra il poggio dei Gemmi e la riva destra del Bedonia, un torrente in cui gli eruditi hanno trovato due radici celtiche, e le lavandaie di Castelnuovo cercano ancora due once d'acqua per otto mesi dell'anno.
Castelnuovo, come vi dice il nome, doveva averci il suo castello anche lui. Ma il forte arnese era sparito sotto un intonaco più moderno; le feritoie erano diventate finestre, e la gran mole bucherellata, imbiancata, rimessa a nuovo, accoglieva nel suo grembo quasi tutti gli uffici e le rispettive abitazioni dei rappresentanti del governo. C'era, ad esempio, la sottoprefettura, c'era la pretura, il ricevitore del registro, il conservatore delle ipoteche, e non ci mancavano i reali carabinieri, comandati dalla perla dei marescialli. Il verificatore dei pesi e misure abitava più lungi, e così pure il ricevitore delle dogane, con altri ufficiali, i cui nomi non vogliono venirmi alla penna. Lo spazio tiranno vietava l'accentramento della gran famiglia governativa di Castelnuovo. Si diceva anzi che ben presto dovesse andar fuori del palazzo demaniale il ricevitore del registro; un po' perchè ci stava a disagio lui, che aveva mezza dozzina di marmocchi, debitamente registrati, un po' perchè teneva a disagio il sottoprefetto, quantunque la famiglia di quest'ultimo constasse di due sole persone; marito e moglie, sottoprefetto e sottoprefettessa.
Si spiccica male, quel "sottoprefettessa", non è vero? Ma in fede mia, non si può fare altrimenti. E buon per noi che non abbiamo da masticar altro che il nome! La signora sottoprefettessa era asciutta e dura come uno stoccafisso, con una pelle risecchita, che pareva di cartapecora. Ottima signora, per altro, ed anche piacevole in conversazione, purchè non entrasse a parlare dei torti fatti a suo marito. Disgraziatamente, ciò le accadeva dieci volte al giorno. Ma, d'altra parte, siamo giusti, la signora sottoprefettessa aveva ragioni da vendere. Quei benedetti ministeri che passavano promettendo, e se n'andavano senza aver mantenuto, avrebbero fatta perdere la pazienza ad una santa, nonchè alla sottoprefettessa di Castelnuovo, che era a mala pena uno stinco. Otto o nove promozioni erano già venute, dacchè suo marito aveva diritto all'avanzamento. E quei bravi signori del ministero glielo avevano sempre saltato. Già, non amavano suo marito, perchè era un uomo d'ingegno e perchè il suo circondario era il meglio amministrato d'Italia. Per far carriera, con quei signori, bisognava essere asini calzati e vestiti, e lasciare che tutto andasse a rifascio, nella amministrazione del regno.
Il sottoprefetto ascoltava e sorrideva. Il filosofo sorride sempre. Il mare, più è profondo, più apparisce tranquillo a fior d'acqua. Queste olimpiche calme sono i conforti superbi del mare, dei filosofi e dei sottoprefetti saltati. Dopo tutto, il cavaliere Tiraquelli vedeva approssimarsi il giorno della giustizia. Sentiva egli altamente di sè? O serbava egli in corpo un segreto, uno di quei segreti che non si rifischiano ad anima viva, neanche alla moglie, nelle ore confidenti in cui l'uomo pubblico si leva dal capo l'aureola del potere e assume il berretto di cotone dell'uomo privato?
Lo vedremo tra breve, poichè siamo entrati in casa, anzi a dirittura nella sala di ricevimento. Il cavalier Tiraquelli riceve tutti i mercoledì. Novità inaudita negli annali della sottoprefettura di Castelnuovo! E riceve già da due mesi, con gran giubilo delle primarie famiglie del paese. I mercoledì della sottoprefettessa forniscono l'argomento delle chiacchiere cittadine, per tutti gli altri sei giorni della settimana. Voi, frattanto, lettori discreti, già avete capito esser questa la ragione che fa parere ristretto il suo quartierino al cavalier Tiraquelli, e che farà sgomberare il ricevitore del registro dal suo. Il ministro dell'interno, che non ha ancora pensato a mettere il cavaliere nell'elenco delle promozioni, il ministro dell'interno, dico, ha promesso di fargli dare tutto il secondo piano del palazzo demaniale, a patto che tiri avanti i suoi famosi mercoledì. Gatta ci cova; non pare anche a voi?
Infatti, vediamo. Ecco un sottoprefetto a quattromila lire, che non ha nulla di suo, nè rincalzi alla paga per ispese di rappresentanza, e che tuttavia si fa lecito di avere dei mercoledì! Capisco che non ci si mangia, alle sue veglie, e ci si beve al più al più, qualche bicchier d'acqua inzuccherata; ma infine, i lumi ci vogliono, e il pianoforte richiede ogni settimana l'accordatore. Notate anche la cortesia del ministro, che ascolta le lagnanze del sottoprefetto intorno alla ristrettezza del quartierino e si dispone a concedergli l'uso di tutto il secondo piano, relegando gli uffici della sottoprefettura al primo, donde il ricevitore del registro dovrà sgomberare alla svelta. Un segreto c'è sotto, lo vedete anche voi, e certamente vorrete saperlo. Ma, vi prego, non istate a beccarvi il cervello; io stesso ve lo dirò a suo tempo, e mettete pure che ciò avverrà quanto prima.
Tutti i rami della amministrazione erano rappresentati nella loro doppia essenza, mascolina e femminile, ai mercoledì del sottoprefetto di Castelnuovo. Quanto ai naturali del paese, sulle prime si erano tenuti un pochino in disparte. Le signore, in ispecie, non avvezze alle conversazioni e alle feste da ballo, temevano forse di sfigurare al paragone delle dame governative, che avevano viaggiato e conoscevano gli usi del mondo elegante. Ma a poco a poco la vergogna era sparita, e tutte quelle brave signore andavano alla sottoprefettura, maritate, zitelle e zitellone, che era un piacere a vederle. Si facevano quattro salti, mentre gli uomini sodi chiacchieravano di politica, di finanza e di amministrazione. Il maestro della banda cittadina, giovinotto di buona volontà e di alte speranze, suonava passabilmente il cembalo, dedicava polke e mazurke di sua composizione alle signorine di Castelnuovo, e qualche volta gli riusciva di farle stampare a Torino, o a Milano. Tutto ciò metteva un pizzico di sale nella vita, per il passato così insipida, di Castelnuovo Bedonia; gli conferiva un'aria di capitale, e sarei per dire di piccola Parigi.
C'era un guaio, nei mercoledì della sottoprefettura. Tanto è vero che non c'è niente di perfetto in questo basso mondo. I giovanotti non abbondavano a Castelnuovo Bedonia. Ma per compenso ballavano gli ufficiali del governo, che avevano quasi tutti la leggerezza voluta da questo nobile esercizio ginnastico. Di tanto in tanto capitava qualche ospite nuovo; ora un ispettore, mandato dal governo per rivedere le bucce ad un comune; ora un ufficiale dei carabinieri, che veniva a dare un'occhiatina alla caserma di Castelnuovo; ora uno studente in vacanze; ora un curioso giramondo, che amava le vie meno frequentate. La specie di questi fannulloni emeriti non si è ancora perduta; anzi pare che tenda ad accrescersi, dopo l'invenzione dell'alpinismo. E a proposito di alpinisti, ne erano capitati dodici in una volta, dal capoluogo della provincia, per far l'ascensione del monte Acuto, i cui mille centotrentadue metri sul livello del mare non meritavano forse che si scomodassero per lui tante brave persone.
Piuttosto, era da desiderare che andassero a visitarlo i geologi e gli studiosi di archeologia preistorica; gli uni per le belle concrezioni calcaree, pei quarzi e per le tracce di minerali che presentava la roccia; gli altri per le caverne ossifere che si aprivano nel fianco della montagna. Di questi ultimi, voglio dire degli archeologi, uno solo era capitato a Castelnuovo, e fortunatamente non mostrava desiderio di andarsene. Non era uno scienziato di professione, ma un semplice dilettante, e per giunta non aveva ancora stampato nessuna memoria sull'Homo diluvii testis. Ma, non dubitate, se ancora non l'aveva stampata, nè scritta, minacciava di voler fare una cosa e l'altra al più presto. L'epoca neolitica e l'archeolitica erano il fatto suo, e le caverne di monte Acuto gliene davano saggi stupendi, in cuspidi di frecce, asce e raschiatoi di selce, amuleti di serpentina e di giadeite, cocci, depositi di ceneri e di ossa carbonizzate, ornamenti di conchiglie, grumi di terra d'ocra e via discorrendo. Gli avanzi dei banchetti attiravano particolarmente la sua attenzione. Studiava la forma delle ossa, delle mascelle, dei denti e delle corna, per accertare quali specie di cervi, di cani, e d'altri animali più prossimi alla domesticità, vivessero dieci e quindicimil'anni fa in compagnia dell'uomo, su per le forre di monte Acuto. Con l'ardimento della fantasia, andava anche più oltre. Non contento di aver trovato l'ursus spelaeus, che accennava già ad una bella antichità, sperava di trovare anche l'elephas primigenius, che è come a dire il babbo degli elefanti. Notate, che si sarebbe fatto onore, con la scoperta di un elefante, e in una parte d'Italia da cui non era passato il re Pirro, l'unico che avrebbe potuto lasciarcene qualcheduno, per trarre in inganno gli scienziati futuri.
Così sapiente come lo vedete, non era punto noioso. Il duca di Francavilla era prima di tutto un bel giovinotto, simpatico, spiritoso, elegante, alla mano, un principe democratico, un felicissimo impasto di gran signore e di buon figliuolo. Ballava, inoltre, come… In verità, non saprei dirvi come ballasse. Le signore di Castelnuovo affermavano che ballava come un angelo; ma è poi vero che gli angeli ballino? Comunque, ballava bene, dettava quadriglie stupende, architettava sciarrade in azione. I suoi talenti di società non si contavano sulle dita. Infine, sappiate questa: fu lui che introdusse lo skating ring nelle usanze di Castelnuovo. Per un dilettante d'archeologia preistorica, non c'era male; che ne dite?
Immaginate dunque come fossero allegri, dopo l'arrivo del duca di Francavilla, i mercoledì della sottoprefettura di Castelnuovo Bedonia. Si ballava, si faceva musica, si giuocava di galanteria, ci si divertiva a quel dio. La sottoprefettessa si faceva un onore immortale; il sottoprefetto gongolava dal canto suo e prevedeva non lontano il gran giorno in cui tutto il circondario di Castelnuovo si mostrasse ligio alla politica del governo, o meglio, del partito che siedeva al governo.
Perchè a questo egli lavorava, con altezza di concetto non intieramente richiesta dalla sua condizione secondaria. Volete sentirlo? coglierlo sul fatto, mentre egli sfodera tutti i più sottili accorgimenti della sua politica e tutti i più riposti artifizi della sua eloquenza?
Il cavalier Tiraquelli aveva condotto fuor della sala uno de' suoi convitati, col pretesto abbastanza ragionevole di fumare un sigaro. Passeggiavano ambedue sotto un loggiato che guardava nel cortile, collegando il quartierino del sottoprefetto con gli uffizi della sottoprefettura.
– Glielo assicuro io, – andava dicendo il rappresentante dell'autorità al suo interlocutore, uomo sulla sessantina, piccolo di statura, e cuor contento per dieci, come dimostravano le sue guance paffute, – glielo assicuro io, signor Prospero, Ella sarà cavaliere. Ma che dico, cavaliere? commendatore di schianto. Se la cosa si fa, come il ministro desidera, Lei non può dubitarne un minuto; abbia il collare per giunto a destinazione. Gliene impegno la parola mia, che è quella del governo; – aggiunse il sottoprefetto, con accento e gesto ugualmente solenni.
– Per me, – rispose quell'altro, stringendosi nelle spalle, – vorrei che fosse già combinata ogni cosa. Ma Ella capirà, signor cavaliere…
– Che cosa? che difficoltà può incontrare il signor Prospero in una faccenda di questo genere, e con l'autorità domestica di cui è, la Dio grazia, investito?
– Eh, più che Ella non pensi; – ripigliò il signor Prospero. – Se quella birichina si mettesse in testa di non volerlo, che ci potrei far io?
– Niente le dice che ci sia questo pericolo; – osservò gravemente il cavalier Tiraquelli. – Perchè la signorina rifiutasse, bisognerebbe che ci fosse un altro alle viste. Mi spiego? Ora, quest'altro non c'è; almeno, a noi non consta. Lei da una parte, come zio e tutore, io dall'altra come pubblico ufficiale che ha l'obbligo di sapere ogni cosa, non abbiamo notizie, nè indizii, che ci conducano a sospettare nulla di simile.
– È vero signor cavaliere, è vero. Ma, se debbo parlare alla libera, non è il cuore della mia nepote che mi dà pensiero, è la testa. Non ama nessuno, un po' perchè non ha ancora trovato quel tale che dovrebbe andarle a genio, ma molto perchè vuole la sua libertà, per fare a modo suo, contentare i suoi capriccetti…
– Tutta roba che passerà.
– Speriamolo; – disse il signor Prospero, accompagnando la frase con un sospiro tanto fatto; – ma l'avverto che è molto bizzarra. Si figuri che uscita appena di collegio, voleva andare al polo!
– Al polo artico?
– Artico, od antartico, non so; ma il fatto sta che m'è scappata fuori con questa idea, pescata non so dove.
– Forse in un trattato di geografia; – notò giudiziosamente il sottoprefetto.
– Può darsi. Ma che diamine gli salta in testa alle maestre, d'insegnare la geografia alle ragazze? A che cosa può servire la geografia? —
Il sottoprefetto lo fermò con un gesto.
– Signor Prospero, – gli disse, – la geografia è un ornamento necessario per l'uomo civile. Ella forse ignora che presso la sede del governo fiorisce una società geografica, posta sotto il patrocinio del re e sussidiata particolarmente dal ministero.
– Quand'è così, non dico più altro; – rispose il signor Prospero, inchinandosi. – La geografia sarà un ornamento necessario per gli uomini; ma per le donne… poi…
– Qui Ella potrebbe aver ragione; – interruppe il sottoprefetto con aria di benevola condiscendenza. – E m'immagino che avrà detto alla signorina che le donne non debbono andare ai poli.
– Se gliel ho detto! Ma vuol sapere che cosa mi ha risposto, quella testa bizzarra? Bene, andrò dunque all'equatore; c'è due terzi d'Africa da esplorare; gli influenti del Nilo da riconoscere… Ha detto influenti o affluenti? Non so.
– Affluenti ed influenti, è tutt'uno; – osservò il sottoprefetto; – credo, per altro, che sia più proprio il dire affluenti. Dobbiamo badare anche al patrimonio della lingua, signor Prospero; dobbiamo badarci sopra tutto noi, che siamo i depositarii del potere. Ma anche sulla faccenda dell'equatore, io spero che Ella avrà fatto valere la sua autorità tutoria.
– Autorità, veramente, ne ho poca; – confessò il signor Prospero. – Mi sono contentato di dirle che ci fa troppo caldo in Africa, come fa troppo freddo ai poli, che non avrei potuto risolvermi lì su due piedi ad accompagnarla; che, infine, ci avevo i conti della tutela da aggiustare, e che questa fatica, necessaria per lo meno quanto l'ornamento della geografia, mi avrebbe preso un anno di tempo.
– È un anno di guadagnato; – disse il sottoprefetto; – e in un anno la testa di una ragazza può far variazioni di molte. La signorina Adele è romantica, e, in fondo in fondo, questo non mi dispiace. Il nostro giovinotto calcherà su questo tasto. E non gli sarà difficile, perchè, a dirla in confidenza, è innamorato cotto, e gl'innamorati vedono sempre con gli occhi della persona amata. Signor Prospero mio, ne faremo una duchessa, della sua bella nepote. Dica sinceramente, non le va?
– Che! ci avrei un gusto matto. Quei Gamberini, così superbi della loro contea, che guardano il paese con tanto disprezzo, dall'alto di una bicocca piena zeppa d'ipoteche…
– Parli piano, per carità!..
– Ha ragione, ha ragione. Ma il maestro è al cembalo e non si sentirebbe neanche una cannonata, là dentro. Quei Gamberini, dico, s'avrebbero a far gialli dalla rabbia. E la povera contessina!.. Come la vedo brutta, quando saprà che il signor duca di Francavilla, venuto tra noi per studiare antropofagia…
– Antropologia, signor Prospero!
– Vada per antropologia. Tanto, non conosco nè l'una nè l'altra, di queste riverite signore. M'andrebbe in tanto sangue, la rabbia dei Gamberini! E se Adele si risolverà, non sarò io che ci avrò nulla a ridire. Ma bisognerà andar cauti, signor cavaliere, trattar la cosa coi guanti…
– È la massima dell'uomo politico; – notò opportunamente il sottoprefetto. – Solo la mano ha da esser di ferro; chi è guidato da essa non deve sentirla.
– Ed Ella mi dice, – ripigliò il signor Prospero, – che Sua Eccellenza il ministro… —
Il sottoprefetto non lo lasciò finire.
– In confidenza, – diss'egli, mettendo familiarmente il suo braccio sotto quello del suo interlocutore, – in confidenza, commendatore mio… (lasci che io la chiami fin d'ora così)… se rimango a Castelnuovo Bedonia, gli è solamente per questo. Abbiamo qui una parte, e non l'ultima, di un vasto disegno politico. —
II
A quella confidenza inattesa, ed anche oscura parecchio, del sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia, il signor Prospero spalancò gli occhi e la bocca ad un tempo.
– Come! – diss'egli, dopo esser rimasto un istante in quell'atteggiamento di stupore. – Tutto questo, nel matrimonio della mia nepote?
– Ma sicuro! E non può vederlo anche Lei, solo che ci pensi un pochino? Signor Prospero mio, le faccio un ragionamento. Mi segua attentamente. Che cos'è, prima di tutto, la ricchezza d'un paese? La proprietà territoriale, mi risponderà Lei, la proprietà territoriale che dà i frutti e guarentisce le rendite, rappresentate nei loro termini visibili e trasmissibili, dell'oro, dell'argento e della carta. È un cànone di economia che la carta non possa superare una certa quantità, oltre la quale il suo valore si scema, crescendone di tanto il valore delle cose cercate. Cionondimeno, è desiderabile che la carta, termine transitorio di scambio, come l'oro è un termine fisso, dia nell'abbondanza piuttosto che nel difetto, ottenendosi con ciò una mobilità maggiore del capitale e una tendenza a spendere, di cui tutte le industrie e tutte le arti si vantaggiano, e per conseguenza tutte le classi di cittadini. Ella mi segue, signor Prospero?
– La seguo, ma veramente… non vedo ancora…
– Vedrà poi. I ricchi, signor Prospero, i proprietarii della terra, sono i distributori della vita in un popolo. Ma non sono ancora tutto, come non è tutto ancora, nel corpo umano, quel congegnato sistema di arterie e di vene che spinge il sangue dal cuore a tutte le estremità, e dalle estremità lo riconduce al cuore. Non sono ancora tutto, ripeto. Accanto alla ricchezza, alla forza dell'oggi, c'è la tradizione, la ricchezza dell'ieri, che può esser forza o ricchezza del domani. Per uscir di metafora, ci sono i nobili, le grandi famiglie storiche, a cui principi e stati son debitori di tanta gloria e di tanta fortuna. Un paese ha mestieri di gloria come di pane. Anche la gloria è un elemento di prosperità. Un paese che non abbia tradizioni è come una casa a cui manchino i quadri. Ci avete il letto, la tavola, i cassettoni, le sedie, ma quella parete nuda vi dà la sensazione del vuoto. Ella m'intende, signor Prospero?
– Faccia conto; – rispose quell'altro, che incominciava a confondersi.
– Or dunque, – ripigliò con aria di trionfo il sottoprefetto, – che cosa dobbiamo far noi, per ornamento della gran casa che si chiama paese? Dobbiamo, o ch'io m'inganno, mantenere gelosamente le sue tradizioni. Il tentativo di cancellare ogni cosa non è savio; aggiungo volentieri che è vano, come si è dimostrato in Inghilterra sotto il Cromwell, e peggio in Francia, sotto il Robespierre. La reazione succede fatalmente all'azione. È una legge storica, com'è una legge meccanica. Uno stato prudente e previdente deve trasformare quello che non può mutare, tener conto di tutte le forze e moltiplicarle, associandole. Non le pare?
– Sono intieramente della sua opinione; – rispose il signor Prospero che non capiva più nulla.
– Ah, meglio così! – ripigliò l'oratore. – Ella dunque ammette con noi la necessità di queste alleanze tra famiglie e famiglie, tra i grandi nomi e le grandi ricchezze. Ma non basta.
– Come? Non basta ancora? – si provò a dire il signor Prospero.
– No, certamente, e la ragione non isfuggirà alla sua perspicacia. L'opera di un savio governo non finisce qui; deve andar oltre, promuovere queste alleanze tra provincia e provincia, perchè tutte le parti del gran corpo sociale ne risentano i benefici effetti e il corpo medesimo si rassodi nell'intreccio di tutte le parti che lo compongono. Ora, che cosa siamo noi, prefetti (e dico prefetti, perchè la promozione non può star molto a venire), che cosa siamo noi, se non gli strumenti di questa indagine, di questa cura diligente, di questa… —
Il cavalier Tiraquelli cercava il sostantivo, e il signor Prospero glielo suggerì.
– Impresa matrimoniale; – diss'egli.
– Signor Prospero! – esclamò il sottoprefetto, rizzando la testa, come per dare tutta la misura della sua dignità offesa.
Ma tosto si avvide, all'aria modesta del signor Prospero, che il suo interlocutore non aveva voluto dir niente di malizioso, e ripigliò, sorridendo:
– Diciamo anche impresa matrimoniale, quando i matrimonii non escano da quest'ordine elevato d'idee. Noi, inoltre, abbiamo l'ufficio, ugualmente nobile, di cercare il merito, dovunque si trovi, di farlo risaltare e di premiarlo, ad esempio ed incitamento per tutti. Ella, signor Prospero, ne ha la sua parte, e il governo aveva già pensato a mandarle la croce.
– A me?
– Sicuramente. Il nostro signor Prospero non era forse capitano della guardia nazionale?
– Che non si è mai radunata.
– Non è colpa sua, signor Prospero, ma dei passati ministeri, che non hanno pensato mai a rialzare il prestigio di questa istituzione in Castelnuovo Bedonia. Per me, ufficiale del governo, Ella è stato capitano per oltre dieci anni; ha dunque diritto alla croce di cavaliere. E non basta.
– Non basta? – disse il signor Prospero, con accento perplesso, tra il dubbio e la speranza.
– Non basta, – ribattè il sottoprefetto, – Ella ha parlato nel comizio agrario di Collemezzo.
– Dio buono – esclamò con aria modesta il signor Prospero. – Per dire che avrei piantato grano, scambio di sorgo, e patate, scambio di barbabietole.
– Egregiamente! Con ciò Ella ha dimostrata la sodezza del suo raziocinio. Non tutto è da cangiare nel mondo; – si degnò di riconoscere il sottoprefetto; – e ci sono delle vecchie usanze a cui bisogna attenersi, perchè esse hanno con sè il rincalzo dell'esperienza. Se i nostri padri, da tempo immemorabile, hanno creduto di mantenersi fedeli alla coltivazione della patata… Cioè, no da tempo immemorabile, perchè la patata è relativamente moderna… Ma insomma, signor Prospero, l'esperienza insegna, e Lei rappresenta l'esperienza, che bisogna star fermi nella conservazione dei vecchi sistemi. Un partito conservatore, saviamente conservatore, è anche necessario come forza d'equilibrio, in uno stato bene congegnato. Tutto è equilibrio, in politica come in meccanica. Ed io non tralascerò di dirlo in Senato.
– Come? – gridò il signor Prospero. – In Senato? E quando?
– Quando ci andrò; – rispose il sottoprefetto, abbassando le ali della sua ambizione. – Ma torniamo a noi. Ella è un agronomo, signor Prospero. L'Italia ha bisogno di agronomi. Non lo ha letto, Virgilio? Salve magna parens frugum Saturnia tellus. Eccole un bel verso, da mettere per epigrafe sopra un opuscolo, che io le consiglio di scrivere. —
L'idea dell'opuscolo agrario, ad onta dell'epigrafe, nuova di zecca, che gli suggeriva il sottoprefetto, sorrise mediocremente al signor Prospero degnissimo.
– In fede mia, – diss'egli, – non saprei da che parte rifarmi.
– Buona volontà, amico mio, e il resto viene da sè. Leggete qualche libro d'agronomia; servirà per risvegliarvi le idee. Io ho avuto molto profitto dai Segreti di Don Rebo, dell'Ottavi; un libro aureo, che m'ha aiutato ad improvvisare quattro discorsi. Capirà, signor Prospero, che il mio campo non è l'agronomia. Io sono anzi tutto un uomo politico. Legga l'Ottavi, è una miniera; metta insieme quattro principii di scienza, per far da preambolo ai consigli della sua pratica, e vedrà. Come capitano della guardia nazionale aveva diritto alla croce di cavaliere; come agronomo l'avrà a quella d'ufficiale.
– Il commendatore è ancora lontano; – osservò il signor Prospero, ridendo.
– Tutt'altro; facciamo questo matrimonio, che tanto premerebbe al ministro per le ragioni che ho avuto l'onore di esporle, e avrà subito il collare.
– Capisco, capisco, sarebbe un premio per un fortunato incrociamento di razze.
– Ella ha molto spirito, commendatore; le faccio i miei complimenti.
– Oh, con Lei, signor prefetto, chi non ne avrebbe?
– Dunque, da bravo, abbia anche un poco della mia premura, e mi conduca questa faccenda a buon porto.
– Farò quel che potrò, ne stia certo. Se l'Italia ha da avere un benefizio da questo matrimonio, non sarò io che darò indietro. Ma badi, signor prefetto, io non sono che un tutore e uno zio. Posso consigliare, aiutare, spalleggiare; ma bisogna che il giovinotto, dal canto suo…
– Farà il suo dovere, non dubiti. Lo faremo tutti, il nostro dovere, perchè sia contento il ministro e incarnato il suo profondo disegno. Lo metteremo in evidenza, il duca di Francavilla, lo faremo brillare. E frattanto, incominciamo dal ritornare nella sala. Il sigaro è finito e non si deve sospettare che abbiamo a ragionare di troppe cose fra noi.
– Dice bene; andiamo. —
E il signor Prospero Gentili, zio materno e tutore della signorina Adele Ruzzani, fanciulla romantica come vi ho detto, e milionaria, come avrete capito, gittò il suo mozzicone dal loggiato nel sottoposto cortile; indi seguì il cavaliere Tiraquelli, sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia, nella sala di ricevimento.
I soliti quattro salti non erano ancora incominciati, sebbene il maestro di musica avesse già tentate le dame e i cavalieri con gli accordi d'un valzer, e i ballerini più feroci della sottoprefettura fossero tutti presenti. Ma prima di dirvi il perchè di quell'indugio coreografico, credo necessario di darvi un'idea della sala. Non sarà un quadro, ma un semplice abbozzo.
Accanto alla sottoprefettessa, sul canapè di damasco rosso, che era la cattedra pontificale, il sancta sanctorum, e tutto quel che vorrete di più solenne là dentro, sedeva la contessa Gamberini, signora bofficiona e rosea, come contrapposto e compenso all'altra risecchita e giallognola. Tre quattro dame, delle più venerabili di Castelnuovo, sedevano nelle poltrone, vicino al canapè, facendo circolo alle due maggiori divinità. Altrettanti medaglioni mascolini si accompagnavano ai femminili. Erano i notabili di Castelnuovo, il sindaco, l'assessore anziano, il notaio, un magistrato a riposo, e via discorrendo. Pareva di vedere un lettisternio di Numi, sul fare di quelli che gli antichi romani collocavano in un luogo rilevato del triclinio, per avere gli Dei testimoni ed auspici ai loro banchetti. Se l'immagine pagana non vi garba, mettete che il canapè fosse un altare cristiano. Il signor sottoprefetto ne era il sacerdote; ed ora appoggiato ad un bracciuolo, in cornu epistolae, dov'era sua moglie, ora all'altro, in cornu evangelii, dov'era la contessa Gamberini, celebrava i divini uffizi, ministrava il verbo governativo ai fedeli.
Più in là, accanto ad una mensola enorme, su cui torreggiava uno specchio antico, dalla cornice intagliata e dorata, si raccoglieva un crocchio più allegro, sebbene le teste grigie vi abbondassero. Il ricevitore del registro, ottima persona, amante della burletta, intratteneva i suoi colleghi delle ipoteche, delle dogane e dei pesi e misure, con qualche storiella di gioventù e con qualche accenno discreto alla divina bottiglia. Quelli erano gli uomini che attendevano tutto il santo giorno al loro ministero, ma non amavano portarne il ricordo con sè, dopo la chiusura dell'uffizio.
Vicino al pianoforte, dall'altra parte della sala, era un altro crocchio, più numeroso, quello dei giovani. Lo dominava con tutta la sua autorità quadragenaria la signora Morselli, donna stimabilissima, che aveva un solo difetto, quello di credersi un soprano sfogato. Lo temperava, per altro, non cantando mai se non pregata e ripregata. E la pregavano, e la ripregavano sempre, non foss'altro, per sentimento di gratitudine; poichè la sua presenza dava a tutti i giovani dei due sessi un ottimo pretesto per rimanere lontani dal gruppo delle persone gravi, che pontificavano intorno al canapè di damasco rosso. In quel crocchio di giovani, amanti della musica, si degnava di stare più a lungo che altrove la contessina Berta Gamberini. Laggiù si vedevano i pochi zerbinotti di Castelnuovo; farfallini più o meno eleganti, che aliavano dal pianoforte ad una tavola rotonda, su cui, intorno ad una lampada Carcel, piantata in un vaso che voleva parere della Cina, erano disposti gli albi, le strenne, i giornali, ed altre curiosità, che ottenevano di tanto in tanto uno sguardo della signorina Adele Ruzzani.
Berta Gamberini e Adele Ruzzani erano i due poli di quel piccolo mondo.
I due poli magnetici, intendiamoci, e non i geografici, che non mi servirebbero di paragone, così freddi come sono, e circondati di ghiacci millenarii, mentre qui s'ha a descrivere la gioventù che piace e la bellezza che rimescola il sangue.