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Kitobni o'qish: «Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II», sahifa 14

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CAPITOLO XXIX

Ultimi giorni e morte del generale Garibaldi

Della morte di Vittorio Emanuele Garibaldi fu inconsolabile.

Esso da tempo viveva a Caprera intento a trarre qualche partito dalla parte dell'isola suscettibile ad essere coltivata.

Nel 1875 apriva la campagna per la sistemazione del Tevere.

Nell'inviare al tenente colonnello Domenico Cariolato l'appello agli Italiani per la sottoscrizione ai grandi lavori del Tevere, così gli scriveva:

"Mio caro Cariolato,

"Vi accludo l'appello che io faccio agli Italiani per la sottoscrizione a favore dei lavori del Tevere. Sarebbe utile che la prima firma fosse quella del Re, ma temo che anche in quest'opera umanitaria vorranno ficcarvi la politica. Minghetti mi si è dimostrato favorevole, ma temo che altri metteranno i bastoni fra le ruote, e si farà in modo che il Re non firmi.

"Parlatene a Dezza e venite presto a Villa Casalini. Sempre vostro

G. Garibaldi"

Roma, 10 gennaio 1876.

Era intento a questo nobile scopo ed a quello non meno nobile e grande della bonifica dell'Agro Romano, quando avvenne il triste fatto del trattato del Bardo. Garibaldi ne fu colpito più di ogni altro patriota perché lui non si aspettava dalla Francia quest'atto che umiliava l'Italia.

Palermo si preparava in quei giorni a festeggiare la data della ricorrenza dei Vespri Siciliani, e, invitato a recarsi nell'Isola da lui tanto amata, acconsentiva a fare il faticoso viaggio sebbene sofferente di salute e sebbene sconsigliato dai figli e dagli amici.

Lasciata Caprera, sbarcava il 21 di gennaio a Napoli ricevuto con delirio da quella popolazione che non l'aveva più riveduto dopo il 1860. Sente il bisogno di un po' di riposo e va a passare giorni tranquilli per circa due mesi nella villa del sig. Maclean a Posillipo.

Da Napoli si dirige in Calabria; riposa una notte a Catanzaro, segue poi il viaggio, parte in vettura, parte in ferrovia; pellegrinaggio per lui micidiale, accolto dovunque passa con vera frenesia; arrivato allo stretto, ricevuto a Reggio da quel popolo delirante, passa alla sua Messina che s'accalca per salutarlo, per toccarlo, per baciarlo come se fosse cosa santa, e il 28 marzo entra a Palermo. Non è possibile dire delle deliranti accoglienze di quella popolazione, essendo più facile immaginarle, che descriverle.

A quel popolo, che freneticamente lo acclamava e voleva sentire la sua parola, diceva:

"Ricordati, o popolo valoroso, che dal Vaticano si mandavano benedizioni agli sgherri, che nel 1282 cacciasti con tanto eroismo.

"Forma quindi nel tuo seno, dove palpitano tanti cuori generosi, un'associazione Emancipatrice dell'intelligenza umana, la cui missione sia quella di combattere l'ignoranza e svegliare il libero pensiero".

Il 31 marzo, anniversario del terribile eccidio, il Generale per le tristi condizioni di salute non potè assistere alla grande cerimonia: e l'indomani suo figlio Menotti alla folla radunata sotto le sue finestre, leggeva un'addio affettuoso del padre, nel quale si protestava figlio di Palermo, e il 17 aprile sul Cristoforo Colombo ripartiva per Caprera.

Tra l'aprile e il maggio lo stato di salute del Generale erasi fatto più grave, e la notte del 1o giugno i telegrammi si correvano l'uno dietro l'altro. Garibaldi è aggravato, Garibaldi è moribondo!

Nelle prime ore del mattino del 2 giugno lo stato del Generale appariva disperato, il respiro diveniva sempre più lento ed affannoso, e si vedeva che il terribile momento della sua scomparsa dal mondo era pur troppo vicino. Da Menotti furono mandati avvisi telegrafici a Canzio ed a Ricciotti. Fu pure telegrafato al dottore Albanese; ma ormai non poteva più giungere a tempo.

L'abbandono delle forze faceva a tutti comprendere che la catastrofe era imminente. Egli si spegneva tranquillo; solo si vedeva che avrebbe desiderato la consolante notizia dell'arrivo del dottore Albanese, di Ricciotti, di Canzio e Teresita.

Nel meriggio – due capinere vennero a posarsi sul balcone aperto della camera del Generale, cinguettando – La moglie signora Francesca, temendo disturbassero l'ammalato fece un gesto per allontanarle; ma il Generale con un fil di voce soave, sussurrò: "lasciatele stare, sono forse le anime delle mie due bambine che mi portano l'ultimo saluto. Quando non sarò più mi raccomando di non abbandonarle" e non disse più altro. Solo più tardi chiese del suo piccolo Manlio. Volle vedere il suo cielo, il suo mare, e placidamente fra le braccia della dolce famiglia presente, alle 6 e 22 pomeridiane esalava la sua anima grande!

Alla notizia – Garibaldi è morto – l'Italia sussultò – e si sentì sbigottita dall'immensità della perdita. La Nazione si mise in lutto come nel funebre giorno della morte di Vittorio Emanuele.

Il Re Umberto scrisse di proprio pugno a Menotti, figlio del Generale, così:

"Mio padre m'insegnò nella prima gioventù ad onorare nel generale Garibaldi le virtù del cittadino e del soldato.

"Testimone delle gloriose sue gesta, ebbi per lui l'affetto più profondo, la più grande riconoscenza e ammirazione.

"Mi associo quindi al supremo cordoglio del popolo italiano, e prego d'essere interprete delle mie condoglianze, condividendole coll'intera nazione.

Umberto"

Sentimenti veramente patriottici e gentili, degni del figlio del Gran Re, padre della patria.

La morte del generale veniva constatata dal certificato seguente:

Caprera, 3 giugno 1882.

Signor Sindaco

Maddalena

"Ieri (2) alle ore 6 pomeridiane è morto in Caprera, al suo domicilio, il generale Giuseppe Garibaldi in seguito a paralisi faringea. Dichiariamo che la tumulazione del cadavere può farsi dopo 24 ore della morte.

"In fede ci sottoscriviamo

Prof. Albanese
Dott. Cappelletti".

Due uomini nel secolo nostro lasciarono questa terra accompagnati da universale consenso di laudi e di dolore: Vittorio Emanuele e Garibaldi; perchè essi soli incarnarono due dei più straordinari avvenimenti della storia: un Re fedele alla libertà, che oblia la tradizione della sua stirpe, e mette in pericolo il retaggio dei suoi figli per la redenzione di un popolo; un popolano che si eleva, per virtù propria fino alla potenza di Re, ma per ritornare al suo modesto focolare scevro di qualsiasi ambizione, sagrificando gli ideali della sua anima alla suprema felicità della patria! Inchiniamoci alla memoria di questi Grandi!

Composta la salma del Generale il dottore Albanese inviava questo telegramma perchè fossero note le supreme disposizioni del Generale:

"Garibaldi spirò ieri sera; lasciò un'autografa disposizione in data 17 settembre 1881, così concepita: – "Avendo per testamento determinato la cremazione del mio cadavere, incarico mia moglie dell'eseguimento di tale volontà, prima di dare avviso a chicchessia della mia morte. Ove ella morisse prima di me io farò lo stesso per essa. Verrà costruita una piccola urna in granito che racchiuderà le ceneri sue e mie. L'urna sarà collocata nel muro, dietro il sarcofago delle mie bambine e sotto l'acacia che lo domina".

Ecco poi testualmente la lettera del generale al dottore Prandina:

Caprera, 27 settembre 1877

Mio carissimo Prandina,

"Voi gentilmente vi incaricate della cremazione del mio cadavere e ve ne sono grato.

"Sulla strada che da questa casa conduce verso tramontana alla marina, alla distanza di trecento passi a sinistra, vi è una depressione di terreno limitata da un muro.

"In quel canto si formerà una catasta di legno d'acacia, lentisco, mirto ed altre legne aromatiche. Sulla catasta si poserà un lettino di ferro e su questo la bara scoperta, con dentro gli avanzi miei, adorni della camicia rossa.

"Un pugno di cenere sarà conservato in un'urna di granito, e questa dovrà essere posta nel sepolcreto che conserva le ceneri delle mie bambine Rosa e Anita.

Vostro sempre
G. Garibaldi"

Ed a queste sue istruzioni scritte ne aggiungeva altre verbali: al Prandina diceva. —

"Voglio essere bruciato: bruciato, non cremato, capite bene. In quei forni che si chiamano Crematori non ci voglio andare: voglio ripeto essere bruciato all'aria aperta… e voi Fazzari sarete il mio liberto.

"Farete una catasta di legna, dell'acacia di questa isola, stenderete il mio corpo vestito della camicia rossa sopra un lettino di ferro; mi deporrete nella catasta con la faccia rivolta al sole e mi brucerete; le ceneri le deporrete dietro la tomba di Anita – Così voglio finire – "

E non fu bruciato! – Le sue osse sono sepolte nella sua granitica Caprera – isola sacra alla patria. – Ma il suo spirito aleggia in ogni angolo d'Italia che tanto amò e per la quale tanto fece perchè fosse libera e grande! Tale l'ideale di tutta la sua vita gloriosa! E che così fu, lo prova questa sua dichiarazione.

"Io non ebbi mai altro che uno scopo – quello dell'unità italiana – quindi il mio programma del Ticino fu lo stesso a Marsala, ad Aspromonte ed a Mentana".

CAPITOLO XXX

Sbarco a Massaua – Guerra abissina

Ricercare ora quali furono i moventi che ci spinsero all'occupazione di Massaua, sarebbe opera vana!

L'Italia, divenuta nazione, credette che il suo prestigio sarebbe aumentato, se al pari delle altre potenze si fosse lanciata in qualche impresa coloniale e il governo italiano vi si decise incoraggiato all'occupazione, dall'Inghilterra che temeva di vedere altra nazione inalberare a Massaua, da un momento all'altro, la propria bandiera.

Del resto l'idea di aprire nuovi sbocchi al nostro commercio sorrideva, e l'opinione pubblica si mostrò favorevole all'iniziativa, sopratutto in Lombardia ove fiorivano a questo scopo delle Società, e si pubblicava un giornale caldo fautore dell'espansione coloniale, e s'incoraggiavano e si organizzavano spedizioni africane.

E difatti quando al principio del 1885 un giornale officioso ne dava il primo annunzio l'opinione pubblica, lo accolse con segni di compiacimento, e salutava pochi mesi dopo con entusiasmo, la partenza dei nostri bersaglieri per Massaua.

Disgraziatamente allo slancio con cui l'Italia aveva iniziato la conquista di colonie africane, non corrispose la preparazione necessaria.

Due erano le politiche da seguirsi dopo l'occupazione avvenuta il 4 febbraio 1885.

Una, quella di limitarsi a tenere Massaua come porto di sbocco alle regioni interne, attendendo dal tempo l'occasione di assoggettarle moralmente, l'altra, di fare addirittura una guerra a fondo, impossessarsi dell'Abissinia, assoggettarla per poi irradiare la nostra influenza nelle ricche regioni del Sud, assicurandoci le vie commerciali.

Invece, dei due sistemi, non ne abbiamo seguito decisamente nessuno. – Siamo andati al caso – per una via di mezzo che ci portò a continui successivi conflitti, ed infine al disastro.

Rimanendo a Massaua col porto naturale dell'Abissinia del Nord in nostre mani, potevamo chiedere ed ottenere compensi commerciali in cambio dei favori che si sarebbero potuti rendere al Negus, agevolando il commercio del suo paese; ma dal momento che ci inoltravamo nell'interno, bisognava farlo con ogni precauzione e con tutta la preparazione perfetta tanto da poter avere la sicurezza di non temere sconfitte.

Venne pur troppo, per nostra eccessiva fiducia la catastrofe di Dogali e la strage dei nostri soldati e del colonnello De Cristofaris che li comandava; fatto che, non ostante l'esito sfortunato, contribuì più di una vittoria e far rispettare nel Tigrè e farne ammirare l'eroismo dell'esercito italiano.

E, sotto la dolorosa impressione di quest'eccidio l'opinione pubblica fu concorde nello spronare il governo alla guerra o nell'approvarlo quando decise la spedizione di S. Marzano. Ma il triste fatto non valse ad aprire gli occhi al governo il quale, invece di lasciare mano libera ai comandanti le forze che si mandavano laggiù, volle esso stesso fissare i limiti dell'azione; ostacolandone tutte le iniziative e mal provvedendo alle loro richieste, sempre esitando dinanzi alla idea di assumere la responsabilità di una politica e di un'azione decisiva. E così siamo andati avanti a forza di piccole iniziative, le quali hanno dato sterili risultati, e finirono coll'obbligarci a dei sacrifici che necessariamente dovevano diventare non solo necessari ma urgenti, e quel che è più doloroso, non dovevano essere più sufficienti per salvarci da immane catastrofe.

Quanti disinganni! quante amarezze, questo procedere ha costato ai nostri bravi ufficiali, a incominciare dal Saletta al Gene al Di San Marzano, al Lanza al Cagni per finire al Balbissera; i quali animati dal desiderio di portare di fronte al nemico la balda nostra gioventù con la speranza di ricondurre le nostre truppe vittoriose in Italia, per gli ordini che si mandavano da Roma si trovarono delusi, obbligati a mordere il freno, perchè con essi veniva loro impedito lo sviluppo alle operazioni militari, nei momenti più indicati dalle circostanze.

Il generale di San Marzano, più degli altri impaziente d'impegnare l'azione, quando nel 1888 l'esercito del Re Johannes era in isfacelo così da dovere levare il campo ed iniziare la ritirata in condizioni disastrose, dovette provare il dolore più grande della sua vita – egli – valoroso militare di tutte le campagne dell'indipendenza – compresa pur quella di Crimea – allorchè ricevette i telegrammi da Roma che paralizzavano ogni sua iniziativa.

E non abbiamo neppur saputo cogliere nè avvalerci della bella opportunità che il caso ci offriva.

L'improvvisa morte del Negus Giovanni poteva metterci in condizioni tali da essere noi gli arbitri degli eventi. Invece aperta la successione al trono, abbiamo commesso il più grande, il più fatale degli errori. Quello cioè di spendere tutta la nostra influenza per aiutare l'assunzione al trono imperiale del Re dello Scioa, inimicandoci a morte i nostri vicini del Tigrè che dovevamo tenerci amici e strettamente a noi vincolati, col favorirli in tutti i modi, aiutando con tutte le nostre forze l'elezione del Mangascià, il più legittimo pretendente alla successione del Negus, e di questo servirci, e servirci delle popolazioni, ostili per tradizione agli scioani, per garantire la frontiera della nostra colonia e tenere a rispettosa distanza il Re dello Scioa.

Richiamato in Italia il corpo di spedizione comandato dal generale conte Asinari di San Marzano, venne lasciato come comandante a Massaua il generale Baldissera, il quale diede all'opera sua una spiccata impronta personale. Egli ebbe un esatto concetto della situazione e previde le gravi difficoltà che sarebbero sorte per il fatto dell'abbandonata politica Tigrina per quella Scioana. Fu lui che iniziò l'organizzazione delle truppe indigene che fecero tanta buona prova sotto gli ordini di Arimondi ad Agordat ed a Coatit. E fu sotto Baldissera che la colonia da Massaua a Saati e Ua-à si estese senza difficoltà e senza spese sull'altipiano.

Affabile con tutti, sopratutto coi suoi ufficiali, non transigeva mai quando si trattava di un dovere da compiere. In servizio, quando aveva dato un ordine, un comando, voleva essere rapidamente obbedito.

Il giorno della occupazione di Saati il comando superiore aspettava di essere assalito dagli Abissini. Furono dati gli ordini per l'attacco. Il generale Baldissera, fedele agli ordini del comando, fece occupare le posizioni più avanzate; diede tutte le disposizioni per una energica azione. Ad un maggiore dei Bersaglieri destinato ad occupare una posizione importante disse colla sua voce sempre calma – soltanto queste parole: "Se fosse attaccato… Lei maggiore muore qua… Ha capito? siamo intesi! O la croce di legno… o la croce di Savoia…" e via di galoppo.

Baldissera – fiero soldato, intelligentissimo ufficiale – fu lui che fece sventolare la bandiera italiana all'Asmara e a Cheren, e fu peccato che egli pure fosse sacrificato alla politica Scioana e per questo fosse obbligato a chiedere il rimpatrio.

Il generale Baldissera veniva rimpiazzato dal generale Orero. – Al nome di questo generale, valoroso ufficiale – è legato il ricordo della marcia su Adua, fatta con tale ordine e rapidità da destare l'ammirazione generale – l'accoglienza ad Adua fatta alle nostre truppe fu entusiastica.

Ma per non offendere le suscettibilità Scioane si dovette abbandonare Adua e ripassare il Mareb!

Invano i capi Tigrini, il clero, il popolo esortavano gl'italiani a rimanere. "Noi saremo con voi" dicevano: invano ci si raccomandavano dal momento che noi non volevamo essere i loro governanti, di riconoscere per loro Re Mangascià sottraendoli alla minaccia di essere governati dallo Scioa – l'ordine era di ritirarsi e di restare per Menelik e il generale Orero e le truppe da lui comandate ubbidirono, e il generale, disgustato esso pure – domandò di ritornare in Italia.

All'Orero successe il generale Gandolfi, un altro dei nostri migliori generali. Giunse a Massaua nel giugno del 1890 quando la politica Scioana era all'apogeo.

Contando su di una pace durevole dopo il trattato d'Ucciali, il Crispi capo del governo, volle dare all'Eritrea un ordinamento civile, formato, oltre che dal governatore, da altri tre funzionari con incarichi speciali ai quali diede il nome di Commissari Coloniali; ma tale organizzazione non fece buona prova, perchè la colonia non era ancora a quel punto nel quale all'ordinamento militare si poteva, come avvenne dippoi, sostituire un'organizzazione civile.

Fu sotto il generale Gandolfi che ebbe luogo la famosa intervista sul Mareb con Mangascià e cogli altri capi tigrini, nella quale furono solennemente giurati i patti che dovevano assicurare la quiete e la tranquillità della colonia, e fu in conseguenza di questi patti che vennero dati gli ordini da Roma per la ritirata delle nostre truppe, dalle migliori provincie Eritree del Seraè e dell'Oculè Cusai.

A rimpiazzare il generale Gandolfi fu destinato il generale Barattieri, che all'età di 17 anni aveva fatto parte della gloriosa schiera dei Mille, uno dei più caldi fautori della politica di espansione coloniale. – Amicissimo di Zanardelli e di Cairoli, sotto l'aureola simpatica di essere trentino fu eletto deputato di Breno, collegio, che gli rimase sempre fedele.

Durante i primi anni del suo governo, passati in un periodo ininterrotto di pace e di tranquillità, diede opera all'ordinamento civile della colonia.

Verso la fine del 1893 ritenendo che la pace sarebbe perdurata, venne in licenza in Italia lasciando il comando delle truppe e le funzioni di governatore nelle mani del colonnello Arimondi, – un valoroso. Questi il 22 dicembre 1893 con un suo telegramma al Ministro della guerra annunciava la vittoria d'Agordat combattuta contro i Dervisci. Trofeo della vittoria, 72 bandiere lasciate in mano dei nostri, una mitragliera e circa 800 fucili. I dervisci lasciarono sul terreno più di mille morti, mentre le nostre perdite furono di tre ufficiali ed un sottufficiale morti, di un ufficiale ed un sottufficiale ferito, e di circa 225 indigeni fra morti e feriti.

Il Re mandava il giorno stesso al colonnello Arimondi il seguente telegramma:

Colonnello Arimondi,

Agordat.

Mando a lei e alle truppe d'Africa le più vive felicitazioni per la vittoria d'Agordat. L'Italia che si associa al mio plauso, rende con me un sacro tributo ai valorosi che morirono per la gloria della nostra bandiera.

Umberto.

A questo telegramma il colonnello Arimondi rispondeva così:

"Ministro Guerra,

Roma.

"Il plauso del Re fu per tutti il premio più ambito".

Il colonnello Arimondi fu promosso al grado di maggior generale per merito di guerra.

Il generale Barattieri ritornato a Massaua, preoccupato dall'eventualità di qualche non gradita sorpresa da parte dell'Abissinia, fece noto al governo il vantaggio che si sarebbe ritratto dalla occupazione di Cassala, non soltanto al nord ma anche al sud della colonia, sia per il maggior prestigio che questo colpo di mano ben riuscito avrebbe dato alle nostre forze di fronte agli abissini, sia perchè togliendo ai dervisci quell'importante punto di concentramento, si allontanava il pericolo di dover fronteggiare contemporaneamente due nemici posti agli estremi limiti della colonia.

In data 12 giugno il ministro degl'esteri barone Blanc telegrafava al Barattieri.

"Il Governo del Re lascia lei giudice di prendere quelle disposizioni che crede più opportune per agire su Cassala".

E il Barattieri prendeva le sue disposizioni per l'attacco.

Il 16 di giugno di sera, dà l'ordine di marcia che, trattandosi di sorpresa, deve essere fatta nel silenzio il più assoluto, con raccomandazione agli ufficiali di tenere sempre in mano le truppe – e la marcia fu eseguita in ordine perfetto, e secondo le disposizioni date. – Sul fare del giorno le nostre truppe erano in vista del campo di Cassala.

Alle ore 7 l'avanguardia apriva il fuoco contro la cavalleria nemica, la quale si gettava contro il nostro fianco sinistro, ma è costretta a ripiegare; l'avanguardia seguita dal grosso continuò ad avanzare, finchè giunta a 400 metri dai dervisci schierati, apriva il fuoco a salve, sia contro essi, sia contro la cavalleria; i nemici rispondevano con fuoco ben nutrito, ma infine, vedendo che non vi erano apprensioni sui fianchi e per le spalle, il generale Barattieri diede l'ordine di un colpo simultaneo di tutte le forze, che mise in sfacelo il nemico, obbligato a lasciare il campo ed a ritirarsi a corsa sfrenata.

Fin dal luglio il generale Barattieri informava il governo che egli temeva prossima – e cioè nel dicembre del 1894 o nel gennaio 1895 – una levata di scudi di tutta l'Etiopia contro di noi.

Difatti il primo sintomo che al generale diede modo di giudicare giusto, fu la ribellione di Batha-Agos, la rottura dei fili e quindi l'interruzione del servizio telegrafico, e l'arresto a tradimento del tenente Sanguinetti, nostro residente a Saganeiti.

Il maggiore Toselli informato del tradimento, con marcia rapidissima la mattina del 16 arrivava con tre compagnie a Mahraba, poco distante da Saganeiti, e subito apriva trattative con Batha-Agos per la restituzione del tenente Sanguinetti; intanto ristabiliva la linea telegrafica. Disponeva in complesso di circa 1500 uomini e di una batteria da montagna, ed aveva stabilito di dare l'attacco a Saganeiti, forte posizione, la mattina del 18 settembre, quando si accorse che i ribelli l'avevano sgombrata. Deciso ad inseguire i ribelli, il maggiore Toselli senza por tempo in mezzo, occupa Saganeiti e continua senza riposo la marcia nella speranza di disperderli e di arrivare in tempo a salvare la compagnia di Halai isolata e che correva il più grave pericolo.

Ad Halai frattanto la compagnia sotto gli ordini del capitano Castellazzo, con grande valore sosteneva da ore un ineguale combattimento contro le orde di Batha-Agos forti di 1600 uomini; mentre i ribelli avvolgevano da tutte le parti il piccolo forte presidiato da circa 200 uomini, una viva fucilata rovesciava il fronte del combattimento. Era l'avanguardia della colonna Toselli che entrava in azione colle compagnie dei capitani Folchi, Olivari e Gentili e dava tempo alla compagnia Galli di guadagnare il ciglio con una sezione d'artiglieria.

I nostri rianimati pel soccorso aumentarono il fuoco al grido di Savoia! e poco appresso il maggiore Toselli con tutte le forze si slanciava all'attacco. Alle 18 era già notte e il nemico, sfuggiva dietro le rupi e giù per le chine precipitando. Le perdite dei nostri, 11 ascari morti e 22 feriti; le perdite del nemico furono notevoli assai.

Fra i morti Degiac Batha-Agos ed il suo parente bascià Musgnen.

Il tenente Sanguinetti poté sottrarsi alla triste fine che i seguaci di Batha-Agos gli minacciavano, per l'assistenza del suo interprete Gare-Sghaer, bravo giovane indigeno che gli si mostrò fido fino alla morte.

Dopo la ribellione di Batha-Agos non era più possibile dubitare sulle intenzioni ostili di ras Mangascià. Il generale Barattieri non perdè tempo; concentrò un corpo di operazione ad Adi Ugri, e chiamò sotto le armi la milizia mobile che diede ottimi risultati; fatto ciò, al generale sembrò il miglior consiglio quello di marciare su Adua. La colonna rifece la strada percorsa dal generale Orero, e anche questa volta come allora, le popolazioni accorsero sul passaggio delle nostre truppe festeggiandole ed insistendo che vi rimanessero a proteggerle.

Le nostre truppe nell'imminenza d'un attacco che pareva certo, presero posizione sull'altura di Fremona; ma nè ras Mangascià, nè ras Agos osarono cimentarsi; e si ritirarono avviandosi, apertamente ostili, per altra direzione.

Il Barattieri che aveva ottenuto l'effetto morale voluto, abbandonò Adua e ritornò ad Adi-Ugri.

Verso l'8 ras Mangascià concentrò tutta la sua gente al di là dei nostri confini. Il giorno 12 decise di passare la frontiera per entrare sul'Oculè-Cusai, dove ogni villaggio è una fortezza naturale e da dove chi vi si annida può sfidare impunemente qualunque nemico.

Barattieri decise di prevenire il nemico nella posizione di Coatit mentre questo stava per addentrarsi nei monti. Ed a Coatit avvenne la battaglia che ha dato nuova gloria ai nostri ufficiali, che ha provato una volta ancora la saldezza delle nostre truppe e dei loro ordinamenti. Alla sera dell'11 il Generale ordinò di passare l'indomani mattina il Mareba, dirigendosi sopra Adis-Adi. Quivi la colonna che doveva marciare su Coatit fu formata così:

Avanguardia: Toselli con sei compagnie e le bande dell'Oculè-Cusai; Grosso: la compagnia del battaglione Galliano, una batteria su 4 pezzi, quattro compagnie dello stesso battaglione, il battaglione Hidalgo di cinque compagnie; Salmeria, e le bande del Seraè in retroguardia.

Da Adis-Adi le truppe si mossero alle 9; il Toselli aveva ordine di occupare Coatit, e possibilmente prima di notte prendere contatto col nemico. Difficile, faticosa fu la marcia. La colonna giunse a Coatit che fu trovato sgombro, senza che il nemico avesse avuto sentore dell'ardita marcia.

La notte passò senza novità, senza nessun allarme. Alle 3 del 13 il generale ordina al maggiore Galliano di muovere, per schierarsi a sinistra del maggiore Toselli; al maggiore Hidalgo ordina di seguire in riserva.

Tutti sono al loro posto e il movimento offensivo si inizia allo spuntare dell'alba, ore 6, coll'avanzare di tutti convergendo a destra, perno l'artiglieria; successivamente i battaglioni Toselli Galliano e le bande Sanguinetti e Mulazzani; nel centro, a rincalzo, in posizione coperta il battaglione Hidalgo con quattro compagnie, avendo dovuto lasciare la quinta nella posizione e con l'incarico sopra indicato; direzione di marcia, un poggio conico sulla cui sommità sorge un Tecul. Tutto procede con ordine. Poco dopo le sei i due battaglioni di prima linea hanno le compagnie parte schierate, parte coperte in buona posizione e allo spuntare del sole la batteria Ciccodicola da un altura maestrevolmente scelta, lancia il suo primo Shrapnel contro il campo nemico; mentre il quartier generale, con bandiera spiegata va a fissarsi sul poggio conico sovraindicato.

È evidente una grande agitazione nel campo nemico. Malgrado la sorpresa, con molta prontezza e slancio, a gruppi sempre più fitti vengono innanzi, superando con destrezza ammirabile buroncelli ed impedimenti, mascherando il numero, offrendo pochi bersagli, affittendosi sempre più dietro i ripari.

Il fuoco di fucileria si apre su tutta la linea colle avanschiere del 3o e del 4o battaglione, le quali, malgrado l'impeto che le spinge all'attacco, si mantengono in pugno agli ufficiali come ne sono prova i frequenti fuochi a salva. Le compagnie manovrano con calma serena, facendo moderatamente uso del tiro e schermendosi convenientemente. Lo slancio non scema la disciplina che manifesta la sua superiorità.

Mentre l'azione si accende sempre più viva si scorge da parte dei tigrini un movimento girante alla larga, ciò che gli è permesso dal gran numero di forze, superiori assai alle nostre, dalla perfetta conoscenza dei luoghi e dalla maestria abissina nei movimenti avviluppanti. Dal comando furono mandati ordini urgenti alle bande di volgersi a sinistra in direzione del poggio di Adi Auei, ed alle compagnie non impegnate del 3o battaglione, di muovere verso le alture per interrompere l'aggiramento che andava sempre più accentrandosi stringendosi.

Fu dato ordine ai maggiori Toselli e Hidalgo di arrestare l'avanzata verso il campo del Ras delle compagnie impegnate; ripiegare dalla destra verso sinistra le compagnie non impegnate volgendo il fronte a Nord Est e Nord donde veniva l'accerchiamento; concentrarsi infine sopra la posizione di Coatit. I cannoni furono pure avviati verso Coatit per sostenere il cambiamento di fronte a sinistra; e il comando stesso mosse dal poggio verso Coatit, esposto nel percorso al bersaglio di una forte colonna nemica, la quale fu bravamente respinta dagli ascari; caddero vicini al generale Barattieri, il tenente Sanguinetti colpito tre volte di palle, il tenente Castellani, il sergente Bertoja, il porta bandiera e molti ascari. Ma verso le undici dal ciglio che limita al Nord lo spianato di Coatit, il generale poteva ordinatamente disporre le truppe per un efficace difesa della località e l'accogliere le forze per un contrattacco, coadiuvato potentemente dal generale Arimondi.

Tutto il corpo d'operazione era sottomano unito e pronto a qualsivoglia azione, con un morale altissimo.

Il nemico dalle alture che aveva occupato continuava un vivo schioppettìo a grandi distanze senza recare ai nostri, gravi danni.

La notte del 13 al 14 passò tranquilla; il nemico salutò l'alba del 14 con intensa fucilata che pareva volesse preludiare ad un attacco generale. Nel meriggio si videro nuvoli di tiratori coronare l'altura e scendere giù nel burrone, scagliando una punta a sinistra cioè all'angolo Nord-Ovest della posizione di Coatit; la batteria lanciò qualche colpo contro i nuclei nemici che volsero in fuga ed incendiò l'erba secca per una notevole estensione.

Distribuiti viveri e munizioni, raccolti indizi di depressione da parte del nemico il generale risolse per l'alba dell'indomani (15) di dare l'attacco contro l'altura a Nord di Coatit. All'uopo l'artiglieria prima dell'alba doveva essere pronta a battere la cresta dell'altura della quale aveva misurato la distanza. Il 4o battaglione con manovra libera e tattica abissina, doveva scendere stormeggiando nel vallone e risalire l'altura avviluppandola sotto la protezione del fuoco d'artiglieria; le bande nel fianco destro aggirando, dovevano puntare sopra Adi-Auei per minacciare e colpire fianco e tergo dei tigrini. Il 2o e 3o battaglione dovevano aspettare ordini per appoggiare l'attacco.

Yosh cheklamasi:
12+
Litresda chiqarilgan sana:
31 iyul 2017
Hajm:
322 Sahifa 4 illyustratsiayalar
Mualliflik huquqi egasi:
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