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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II

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Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II
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CAPITOLO XIX

1860 – Spedizione dei mille – Marsala – Salemi Calatafimi – Palermo – Milazzo – Reggio Calabria – Napoli – Volturno
Liberazione dell'Italia Meridionale consegnata a Vittorio Emanuele

Era il mese di aprile, e notizia giungeva che in Sicilia si combatteva per scuotere il giogo borbonico e per la libertà. Già Francesco Crispi, anima della parte più avanzata degli esuli siciliani, presi accordi con Mazzini e col dittatore Farini, che pure era sempre inclinato a tutti gli ardimenti per l'unificazione della patria, si era arrischiato a recarsi nascostamente in Sicilia per dare anima e forza all'insurrezione; i patrioti s'intesero e la sollevazione dell'isola, che le brutalità del governo borbonico avevano resa fremente di libertà, fu deliberata. – Si decise di fare del Convento della Gancia la base di operazione della rivoluzione; e così fu. All'alba del 4 aprile, il suono delle campane a stormo chiamava all'armi la città di Palermo. Alla testa degli animosi, che dovevano cominciare il fuoco, era il popolano Francesco Riso, anima di patriota e di eroe.

Fatalmente, come avviene sempre nelle cospirazioni, vi fu il delatore, che informò il Maniscalco, il quale nella notte fatti occupare tutti gli sbocchi che portavano al Convento, si tenne preparato per soffocare nel sangue la sommossa popolare.

Al suono delle campane fu pronto il Riso ad uscire dal Convento, e furono pronte altre squadre per sostenerlo. Ma sopraffatti dalle soldatesche borboniche che sbucavano da ogni parte, furono ben presto accerchiati e risospinti nel Convento, ove i prodi difensori venderono cara la loro vita; assieme coi trucidati caddero da eroi il Riso ed il Padre Angelo di Monte Maggiore.

Anche le bande armate, che secondo gli accordi da ogni parte si erano accostate ai sobborghi ed alle porte della città, dovettero ritirarsi ai monti non essendo più sostenute dalla insurrezione interna; ma la rivolta non era vinta perchè le squadre non si sgomentarono e non si sciolsero, ma si mantennero nelle alture resistendo agli attacchi.

Al generale Garibaldi furono resi noti questi fatti; ma in seguito le notizie giungevano troppo incerte: quali dicevano che anche gli insorti delle campagne erano stati domati; quali invece affermavano che essi mantenevano coraggiosamente vivo il fuoco dell'insurrezione, dando filo da torcere alle truppe borboniche.

Bisognava accertarsi del vero stato delle cose dell'Isola, e Rosolino Pilo e Corrao, cari patrioti siciliani, si presero l'impegno di sfidare il pericolo di recarsi in Sicilia per abboccarsi cogli insorti, infondere in essi nuova lena per la resistenza e mandare informazioni. A tale uopo Garibaldi consegnava loro una lettera con caldo appello ai patrioti siciliani.

Intanto anche Nicola Fabrizi, grande patriota, mandava da Malta a Crispi non liete novelle sull'insurrezione siciliana. Ma Crispi che voleva far decidere risolutamente Garibaldi alla spedizione, faceva sapere a modo suo che le notizie erano buone.

I più decisi erano Crispi, Bertani, Bixio; Stefano Türr dichiarava che avrebbe seguito Garibaldi in qualsiasi spedizione. Sirtori faceva la stessa dichiarazione; Medici decideva di rimanere per seguire il generale con altre spedizioni.

Le insistenze di Crispi, di Bertani, di Bixio, la vinsero. Il 1o di maggio dalla bocca di Garibaldi usciva la fatidica parola "Partiremo!" Elia, che si teneva sempre presso al generale e che ebbe l'incarico di preparare gli equipaggi, avrebbe voluto chiamare i marinari che aveva avuto sotto i suoi ordini nei legni armati a Rimini, ma Garibaldi non credette di accordargli tale consenso, perchè non voleva si propagasse troppo la notizia della spedizione. A Genova vi erano buoni marinari, fra i quali i nostromi Lorenzo Carbonari, Demetrio Conti e Fabi Eugenio; li arruolò e mandò il Capitano della Marina Mercantile Carlo Burattini, per arruolarne altri a Livorno. Bixio ebbe l'incarico di provvedere al resto, e fu aiutato dal patriota garibaldino Francesco Carbone. Occorrevano vapori e fissò col Rubattino la presa di possesso, a momento opportuno, dei due vapori "Piemonte" e "Lombardo". Tutto fu in breve pronto. Nella notte del 4 al 5 maggio chiamato in casa sua Andrea Rossi (uno dei comandanti dei legni armati a Rimini) ed Elia, Bixio dispose che Rossi prendesse possesso senza rumore del "Piemonte" con metà dell'equipaggio e con Schiaffino ed Elia, con l'altra metà dell'equipaggio e con Menotti Garibaldi, s'impossessasse del "Lombardo".

La presa di possesso dei vapori fu eseguita col massimo ordine e silenzio. Quando Bixio arrivò col rimorchiatore, gli ormeggi erano già stati abbandonati, e tutto era pronto. Accodato al rimorchiatore il "Piemonte", e dietro al "Piemonte" il "Lombardo", alle 5 del mattino del 5 maggio i vapori erano già fuori di Quarto, per ricevere a bordo il generale Garibaldi ed i mille suoi seguaci.

Prima d'imbarcarsi il generale Garibaldi aveva raccomandato al suo grande amico Medici di preparare altre legioni che, da lui comandate, lo avessero raggiunto in Sicilia se la sorte gli fosse stata propizia – e il Medici, ossequiente ai desideri di Garibaldi, scriveva al Panizzi a Londra così:

Genova, 6 maggio 1860.

Caro Panizzi,

"Garibaldi con 1000 uomini corre il mare in due battelli a vapore da ieri mattina alla volta della Sicilia. L'impresa è generosa; Dio la proteggerà, e proteggerà la fortuna dell'eroico condottiero.

"Io sono rimasto per appoggiare l'ardita iniziativa con una seconda spedizione, o meglio con una potente diversione altrove; ma i mezzi ci mancano. Bertani ha fatto miracoli di attività che molto hanno prodotto, ma che la prima spedizione ha completamente esauriti.

Caro Panizzi, non lasciarci soli, non lasciamo solo il nostro Garibaldi e i suoi generosi compagni".

Tuo affmo
Medici

Effettuatosi l'imbarco nel più breve tempo possibile, si fece rotta per la riviera di Levante a piccola velocità attenti tutti se si vedevano le barche che ci dovevano portare a bordo le carabine inglesi, i revolvers e le munizioni.

Appena montato sul ponte di comando del "Piemonte" Garibaldi aveva domandato al Castiglia ed al Rossi se si erano imbarcate queste armi. Avuta risposta negativa, sorse nella sua mente un terribile dubbio: egli fece tosto segnalare al "Lombardo" di accostarsi e arrivato a portata, con voce tonante, gridò:

– Bixio, quanti fucili e munizioni avete caricati?

– Mille fucili – rispose Bixio.

– E i revolvers, le carabine e le cartucce? ribatté Garibaldi.

– Null'altro, replicò Bixio.

Fu un brutto colpo – e si pensò ad un basso tradimento – Anche da Livorno ci dovevano venire armi e munizioni, ma anche quelle mancarono.

Il "Piemonte", comandato da Garibaldi in persona, procedeva avanti. Aveva per ufficiali, sotto gli ordini suoi, Castiglia comandante in seconda, Rossi, Schiaffino e Gastaldi; con Garibaldi erano Crispi, Türr, Sirtori, Missori, e Nuvolari.

Seguiva il "Lombardo" comandante Bixio, secondo comandante Elia, ufficiali Dezza, Menotti Garibaldi, e Carlo Burattini, capo macchinista Orlando Giuseppe.

Per quanto costeggiando, si cercassero per ogni dove, le barche con le armi e munizioni non si presentavano in vista; e perduta ormai la speranza, il generale ordinò rotta a tutta forza pel canale di Piombino.

Il "Piemonte" ed il "Lombardo" portavano sul loro bordo l'Italia e la sua fortuna; se la spedizione riusciva, l'unità della patria era assicurata; se falliva, i Mille sarebbero sempre rimasti immortali!

La spedizione del resto non si nascondeva al nemico: la pubblicità data alla lettera lasciata da Garibaldi a Bertani prima della partenza, la rendeva nota al mondo. Eccola:

Genova, 5 maggio 1860

Mio caro Bertani,

"Spinto nuovamente sulla scena degli avvenimenti patrii, io lascio a voi il seguente incarico.

"Raccogliere quanti mezzi sono possibili per coadiuvarci nella nostra impresa.

"Procurare di far capire agli Italiani, che se saremo aiutati devotamente, sarà fatta l'Italia in poco tempo e con poca spesa; ma che non avranno fatto il dovere, quando si limiteranno a qualche sterile sottoscrizione.

"Che l'Italia libera, d'oggi in luogo di 20,000 soldati deve armarne 500,000, numero non certamente sproporzionato alla popolazione, poichè tale proporzione di soldati l'hanno gli Stati vicini, che non hanno indipendenza da conquistare.

"Con tale esercito l'Italia non avrà più bisogno di padroni stranieri, che se la mangiano a poco a poco col pretesto di liberarla.

"Che ovunque sono italiani che combattono oppressori, fa bisogno spingere gli animosi e provvederli del necessario per il viaggio.

"Che l'insurrezione siciliana non solo in Sicilia bisogna aiutare, ma dovunque sono nemici da combattere.

"Io non consigliai il moto della Sicilia, ma venuti alle mani quei fratelli nostri, io ho creduto obbligo di aiutarli.

"Il nostro grido di guerra sarà Italia e Vittorio Emanuele e spero, che anche questa volta, la bandiera italiana non riceverà sfregio.

Vostro con affetto
G. Garibaldi"

Altra lettera aveva già diretta il giorno innanzi al Re Vittorio Emanuele:

Genova, 4 maggio 1860

Sire,

 

"Il grido d'affanno, che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie ha commosso il mio cuore e quello di alcune centinaia dei miei vecchi compagni d'armi. Io non ho consigliato il movimento insurrezionale dei miei fratelli di Sicilia, ma dal momento che essi si sono sollevati a nome dell'unità italiana, di cui Vostra Maestà è la personificazione, contro la più infame tirannia dell'epoca nostra, non ho esitato di mettermi alla testa della spedizione. So bene, che m'imbarco per un'impresa pericolosa, ma pongo confidenza in Dio, nel coraggio e nella devozione dei miei compagni.

"Il nostro grido di guerra sarà sempre "Viva l'Unità Italiana!" "Viva Vittorio Emanuele, suo primo e più bravo soldato!"

"Se noi falliremo, spero che l'Italia e l'Europa liberale, non dimenticheranno che questa impresa è stata decisa per motivi, puri affatto da egoismo, ed interamente patriottici.

"Se riusciremo, sarò superbo di ornare la Corona di Vostra Maestà di questo nuovo e brillantissimo gioiello, a condizione tuttavia, che Vostra Maestà si opponga a ciò che i di Lei consiglieri cedano questa Provincia allo straniero, come hanno fatto della mia terra natale.

"Io non ho partecipato il mio progetto a Vostra Maestà; temevo infatti, che per la reverenza che Le professo, Vostra Maestà non riuscisse a persuadermi d'abbandonarla.

"Di V. Maestà, Sire, il più devoto suddito

G. Garibaldi"

Ed all'esercito scriveva così:

Soldati Italiani,

"Per alcuni secoli la discordia e l'indisciplina furono sorgenti di grande sciagure pel nostro paese. Oggi è mirabile la concordia che anima le popolazioni tutte dalla Sicilia alle Alpi. Però di disciplina difetta ancora, e su di voi, che sì mirabile esempio ne deste e di valore, essa conta per riordinarsi e compatta presentarsi al cospetto di chi vuole manometterla. Non vi sbandate dunque, o giovani, resto delle patrie battaglie; sovvenitevi che anche nel settentrione abbiamo nemici e fratelli schiavi – e che le popolazioni del mezzogiorno, sbarazzate dai mercenari del Papa e del Borbone, abbisogneranno dell'ordinato vostro marziale insegnamento, per presentarsi a maggiori conflitti. —

"Io raccomando dunque, in nome della patria rinascente, alla gioventù che fregia le file del prode esercito di non abbandonarle, ma di stringersi vieppiù ai loro valorosi ufficiali ed a Vittorio Emanuele, la di cui bravura può essere rallentata un momento dai pusillanimi consiglieri, ma che non tarderà molto a condurci tutti a definitiva vittoria.

G. Garibaldi"

La mattina del 7 maggio i due piroscafi andarono ad ancorare a Talamone, a breve tratto dal porto S. Stefano e della fortezza di Orbetello. Garibaldi, sceso a terra, vestito da generale del 1859, ottenne dal comandante del luogo tutto quello che gli occorreva, limitatamente alla possibilità sua; così si ebbe un piccolo numero di fucili arrugginiti ed una vecchia colubrina. Saputo dal comandante di Talamone, che nel forte di Orbetello sì trovava altro armamento, il generale vi spediva il colonnello Türr con una sua lettera chiedente al colonnello Giorgini, comandante del forte, armi e munizioni. Verso sera giungeva col Türr, lo stesso comandante di Orbetello, il quale fatto persuaso dal Türr che la spedizione di Garibaldi era fatta sotto gli auspici del Re, aveva messo a disposizione del generale tutto quello che di armamento si trovava nel forte, e cioè quattro cannoni da sei con 1200 cariche, alcuni fucili, cartucce ecc. Dei quattro cannoni due erano col fusto, due senza.

Una parte dello scopo era raggiunto, ma il generale approdando a Talamone aveva in animo un disegno molto più alto. Il pensiero, vagheggiato nel 1859 di una invasione nello Stato Pontificio per la Cattolica non era mai stato da lui dimenticato. Egli sperava che, data la spinta, sapendosi la Sicilia sollevata, una vasta sommossa avrebbe messo in fiamme la Penisola tutta; per cui, fatto chiamare a se il colonnello Zambianchi, gli affidava l'incarico d'invadere lo Stato Pontificio dalla parte di Orvieto, per promuovervi la rivoluzione. A tal uopo staccò dagli imbarcati una schiera di 60 prodi armati e consegnato al Zambianchi un manifesto pei Romani ed un foglio d'istruzioni, gli ordinò dì prepararsi alla partenza. Fra i tanti bravi che ebbero ordine di accompagnare il Zambianchi eranvi pure i cari compagni Guerzoni, Pittaluga e Galliano.

Il manifesto diceva così:

Romani,

"Domani voi udirete dai preti di Lamoricière, che alcuni mussulmani hanno invaso il vostro terreno. Ebbene questi mussulmani sono gli stessi che si batterono per l'Italia a Montevideo, a Roma, in Lombardia! Quelli stessi che voi ricorderete ai vostri figli con orgoglio, quando giunga il giorno che la doppia tirannia dello straniero e del prete vi lasci la libertà del ricordo! Quelli stessi che piegarono per un momento davanti ai soldati agguerriti e numerosi di Bonaparte, ma piegarono colla fronte rivolta al nemico, ma col giuramento di tornare alla pugna, e con quello di non lasciare ai loro figli altro legato, altra eredità, che quella dell'odio all'oppressore ed ai vili!

"Sì, questi miei compagni combatterono fuori delle vostre mura accanto a Manara, Melara, Masina, Daverio, Peralta, Panizzi, Ramorino, Mameli, Montaldi, e tanti vostri prodi che dormono presso alle vostre catacombe, ed ai quali voi stessi deste sepoltura perchè feriti per davanti.

"I vostri nemici sono astuti e potenti, ma noi marciamo sulla terra degli Scevola, degli Orazi e dei Ferrucci; la nostra causa è la causa di tutti gli Italiani: il nostro grido di guerra è lo stesso che risuonò a Varese ed a Como "Italia e Vittorio Emanuele" e voi sapete che con noi, caduti o viventi, sarà illeso l'onore italiano.

G. Garibaldi
generale Romano, nominato da un governo
eletto dal suffragio universale".

Prima di partire da Talamone scriveva a Bertani così:

Caro Bertani,

"Nella notte della nostra partenza si smarrirono due barche che portavano le munizioni, i capellozzi, tutte le carabine e revolvers, 230 fucili ecc. Nel giorno seguente cercammo indarno tali barche per molte ore, e poi proseguimmo.

"Qui abbiamo rimediato alle principali urgenze, grazie alla buona volontà delle autorità di Orbetello e di queste.

"Fra poco avrete altre notizie di noi.

"Frattanto fate ritirare tutti gli oggetti suddetti.

"Con affetto.

"Talamone, 8 maggio

Vostro: G. Garibaldi

Poi perchè nessuno dovesse aver danno in causa della presa di possesso dei due vapori "Piemonte" e "Lombardo" mandava a Genova la seguente lettera:

Ai Signori Direttori dei Vapori Nazionali

Signori,

"Dovendo imprendere un'operazione in favore d'italiani militanti per la causa della patria, di cui il governo non può occuparsi per diplomatiche considerazioni, ho dovuto impadronirmi di due vapori dell'amministrazione dalle LL. SS. diretta e farlo all'insaputa del governo stesso e di tutti.

"Io attuai un atto di violenza: ma comunque vadano le cose io spero che il mio procedimento sarà giustificato dalla santa causa da noi servita e che il paese intero vorrà riconoscere come debito suo da soddisfare, i danni da me recati all'amministrazione.

"Quandochè non si verificassero le mie previsioni sull'interessamento della Nazione per indennizzarli, io impegno tutto quanto esiste in denaro e materiale, appartenente alla sottoscrizione pel milione di fucili, acciocchè con questo si paghi qualunque danno, avaria, o perdita a LL. SS. cagionata. Con tutta considerazione

G. Garibaldi

Genova, 5 maggio 1860.

Alla mattina dell'8 maggio, salpati da Talamone, ancorarono nel porto vicino di S. Stefano per prendervi il resto delle provvigioni, ed alla sera si misero in rotta per ponente libeccio colla prua verso l'Africa. Fra le istruzioni date dal generale Garibaldi a Bixio, principali erano le seguenti: Seguire il "Piemonte", e se si fosse incontrata qualche nave da guerra nemica, correre addosso all'arrembaggio.

Prima di lasciare Talamone venne affisso sull'albero di maestro dei due vapori il seguente

ORDINE DEL GIORNO:
Maggio 7, di bordo del Piemonte.

"Cacciatori delle Alpi!

"La missione di questo Corpo è basata sull'abnegazione la più completa davanti alla rigenerazione della patria. I prodi cacciatori servirono e serviranno il loro paese colla devozione e disciplina dei migliori corpi militari, senz'altra speranza che quella della loro incontaminata coscienza. Non gradi, non onori, non ricompense allettarono questi bravi.

"Essi si rannicchiarono nella modestia della loro vita privata allorchè scomparve il pericolo; ma, suonando di nuovo l'ora della pugna, l'Italia li rivede ancora in prima fila, volenterosi e pronti a versare il loro sangue per essa.

"Il grido di guerra dei Cacciatori delle Alpi è lo stesso che rimbombò sulle sponde del Ticino, or son dodici mesi: "Italia e Vittorio Emanuele" e questo grido, pronunciato da eroi, susciterà spavento ai nemici d'Italia. —

G. Garibaldi"

L'organizzazione del corpo era la seguente:

Stato Maggiore

Sirtori Giuseppe, capo di stato maggiore. Türr, primo aiutante del generale Garibaldi. Crispi, segretario di stato. Manin, Salvino, Maiocchi, Grazziotti, Borchetta, Bruzzesi, Cenni, Montanari, Bandi, Stagnetti, ufficiali d'ordinanza.

Basso Giovanni, segretario generale.

Comandanti delle Compagnie

Intendenza

Acerbi, Bovi, Maestro, Rodi

Corpo Medico

Ripari, Giulini, Boldrini


Un ordine di Garibaldi diceva:

"L'organizzazione è la stessa dell'Esercito italiano a cui apparteniamo, ed i gradi, più che al privilegio, al merito, sono gli stessi già coperti su altri campi di battaglia.

G. Garibaldi"

Prima di lasciare S. Stefano Garibaldi fece formare un'ottava compagnia, comandante Bassini; della 2a fu dato il comando a Dezza e l'Orsini ebbe il comando dell'artiglieria.

In due giorni di viaggio nulla di notevole accadde.

La sera del 10 all'11 maggio il "Piemonte" fatto forza di macchina, cominciò a lasciarsi indietro il "Lombardo" che camminava due nodi all'ora di meno, fino a scomparire totalmente dalla vista dei comandanti, per quanto si fosse fatto attivare maggior combustibile per mantenersi vicini.

Era certo intenzione del generale Garibaldi di spingersi quanto più avanti poteva, per scoprire il Marittimo, prima del cadere della notte: però, se per il "Piemonte", che portava con sè il comandante della spedizione tutto andava bene, non era così del "Lombardo" che, perduto di vista il "Piemonte", aveva perduta la sua guida, e non sapeva quale direzione tenere. Intanto la notte era scesa oscura, e Bixio sul ponte di guardia, con l'ansietà di chi sente una gravissima responsabilità pesare sopra di sè, stava assieme con Elia, spiando se da prua si scoprisse una traccia del "Piemonte". Si era giunti in vista del Marittimo ed il "Piemonte" non si vedeva. Ad un tratto dal timoniere si dà l'avviso, che un vapore era in vista dalla parte di poppa; ed infatti dal lato opposto a quello ove il "Piemonte" era scomparso se ne scopriva uno, che si avanzava su noi guadagnando rapidamente sul nostro cammino. Esso aveva, i fanali spenti; questa precauzione (che se era necessaria per noi, che volevamo passare inosservati, non poteva esserlo per un pacchetto postale od altro ordinario vapore) fece credere a Bixio che avessimo a che fare con un naviglio borbonico in crociera; ordinò quindi che si desse la maggiore velocità alla macchina e che tutto si approntasse per un arrembaggio, se non fosse stato possibile evitare il combattimento.

La nave che si supponeva nemica intanto si avanzava sempre più, il che rendeva impossibile ogni sforzo per non essere raggiunti. Bixio, raccomandando il silenzio, tutto dispose per l'arrembaggio e per una pronta ed energica azione pregando Elia di prendere egli stesso il timone per meglio dirigere l'abbordaggio. Era il vapore giunto a breve distanza, quando il suono della campana colla quale il generale Garibaldi era uso comandare le manovre del naviglio, ed al quale Elia si era abituato nei passati giorni di continua sorveglianza, venne a colpire le sue orecchie. Lasciò Elia subito il timone ad un marinaio corse sul ponte di guardia per avvisare Bixio che il vapore che faceva forza di macchina per raggiungere il "Lombardo" era il "Piemonte", e tale fu la convinzione che Elia mise in questa asserzione, e tanta era la fiducia che Bixio aveva nel suo secondo, che ordinò alla macchina di fermare per attendere l'arrivo del generale; e difatti poco appresso la voce di Garibaldi si faceva sentire nelle tenebre, ordinando di dirigere su Marsala!

 

Verso le nove del mattino il "Piemonte" ed il "Lombardo" erano in prossimità di Marsala, quando dalla punta di Mazzara si scoprirono tre legni da guerra borbonici, che si avanzavano rapidamente per tagliare il cammino alla spedizione ed impedirle l'arrivo in quel porto. A costo di far saltare le caldaie bisognava fare sforzi di macchina supremi, per arrivare primi; ed a ciò si riuscì. Il "Piemonte" arrivato avanti il "Lombardo" sia perchè pescava meno, sia perchè potè rasentare più il molo, passò liberamente e si accostò al molo stesso, al riparo dell'antimurale del porto.

Il "Lombardo" invece per il suo maggiore pescaggio rimase in secco a pochi passi dalla bocca del porto. Messe a mare le imbarcazioni, Bixio scese tosto a terra per raggiungere il generale, lasciando ad Elia gli ordini per lo sbarco dei volontari, delle armi e munizioni.

Elia ordinò tosto a Burattini di requisire quante imbarcazioni si trovavano nel porto, e giunte queste in numero sufficiente, si effettuò lo sbarco con ordine e prontezza ammirabile. Presa terra la parte dei Mille che erano sul "Lombardo", scaricate le munizioni e le armi, il generale Garibaldi mandò ordine ad Elia di uscire dal porto, e procurare di raggiungere Genova per mettersi a disposizione del Comitato presieduto da Bertani. Dovevasi ubbidire! ma mentre Elia provava di trarre dal secco il vapore, obbedendo con dolore agli ordini del generale, i legni borbonici presero a lanciare delle bordate: sicchè poco appresso, vedendo che i legni napolitani avevano messe a mare le imbarcazioni armate e s'avanzavano per impossessarsi dei nostri vapori, ordinò ai marinari di entrare nelle imbarcazioni, e fatte aprire le valvole della macchina, perchè penetrasse l'acqua nella stiva, e si impedisse che il "Lombardo" cadesse preda del nemico, come avvenne poi del "Piemonte", scesero tutti a terra.

È bello, è doveroso il dire che fu ammirevole l'accoglienza fatta agli sbarcati dalla patriottica cittadinanza marsalese. Essa accolse i Mille con esultanza. Vecchi e giovani, uomini e donne – persone civili e popolani fecero a gara per usare loro ogni sorta di gentilezze – facendo echeggiare grida di "evviva Garibaldi".

Il generale dispose che Missori occupasse con forza la porta Trapani.

Bruzzesi, vestito da ufficiale dei bersaglieri, con una pattuglia di camicie rosse, ebbe ordine di occupare l'ufficio postale e telegrafico.

Mosto, coi bravi carabinieri genovesi, fu appiattato nella scogliera che forma il porto per respingere le imbarcazioni armate distaccate dalle navi da guerra borboniche e difatti pochi tiri delle brave carabine bastarono a metterle in ritirata. Le truppe rimasero scaglionate durante la notte, a destra e a sinistra della città.

Ecco il proclama che il generale Garibaldi indirizzava al popolo Siciliano appena sbarcato a Marsala:

Siciliani,

"Io vi ho guidato una schiera di prodi, accorsi all'eroico grido della Sicilia. Resto delle battaglie lombarde, noi siamo con voi e non chiediamo altro che la liberazione della vostra terra. Tutti uniti, l'opera sarà facile e breve. All'armi dunque; chi non impugna un'arma è un codardo o un traditore della patria. Non vale il pretesto della mancanza delle armi. Noi avremo fucili, ma per ora un'arma qualunque ci basta, impugnata dalla destra di un valoroso.

"I Municipi provvederanno ai bimbi, alle donne ed ai vecchi derelitti. All'armi tutti! La Sicilia insegnerà ancora una volta, come si liberi un paese dagli oppressori, colla potente volontà di un popolo unito.

G. Garibaldi"

Occorreva però non perdere tempo, e marciare avanti al più presto. Garibaldi comandò quindi che all'alba dell'indomani tutta la colonna fosse pronta alla partenza, ed infatti la mattina si metteva per la via di Salemi. A Rampagallo, feudo del Barone Mistretta, fu ordinato il grand'alto per pernottarvi. Fu in questa prima tappa, che si ebbero i primi segni dell'insurrezione siciliana, perchè vedemmo con gioia arrivare le bande comandate dai Baroni di S. Anna, e quelle del Barone Mocarta. Saranno stati un'ottantina, armati di schioppetti.

Intanto fu riordinata la Legione, già ripartita in otto compagnie; si formarono con esse due battaglioni ai comandi di Bixio e Carini, e si organizzò coi marinai del "Piemonte" e del "Lombardo" una compagnia di cannonieri.

Alla mattina seguente la colonna si rimetteva in via per Salemi, dove, dopo una marcia alquanto faticosa, arrivava accolta da grande festa di popolo, e al suono delle campane e di musica. Un vero delirio! A Salemi, il generale pubblicò il Decreto col quale per volontà dei liberi comuni di Sicilia, ed in nome di Vittorio Emanuele, Re d'Italia, assumeva la Dittatura.

Italia e Vittorio Emanuele.

"Giuseppe Garibaldi, comandante in capo l'armata nazionale in Sicilia, invitato dai principali cittadini e sulla deliberazione dei Comuni liberi dell'Isola, considerando che in tempo di guerra è necessario che i poteri civili e militari sieno concentrati nelle medesime mani, decreta di prendere la dittatura di Sicilia in nome di Vittorio Emanuele.

Salemi, 14 maggio.

G. Garibaldi

Altre bande intanto arrivavano, comandate da Giuseppe Coppola e dal frate Pantaleo, che davano notizia che Rosolino Pilo e Corrao tenevano sempre la campagna e con una mano di prodi erano nelle alture di S. Martino, dominanti Monreale; si sapeva pure che verso Missilmeri mantenevansi, asserragliati sulla montagna, il La Porta, il Firmatari, il Piediscalzi, il Paternostro, e, cosa significantissima e per noi sorprendente, il clero faceva parte della rivoluzione e ne era il principale istigatore.

Ma il Borbone non stava inoperoso. Ordini erano stati dati al comando delle truppe di Sicilia, per arrestare la marcia dei garibaldini e distruggerli.

Infatti nella notte del 14 al 15 maggio Garibaldi aveva notizia che il generale Landi con un corpo di 3000 uomini ed artiglieria marciava su Calatafimi, e che a quella volta si era pure avviato il presidio di Trapani.

Le bande dei Picciotti non erano ancora giunte nel numero che il generale avrebbe desiderato. Era dunque da pensare bene se con lo scarso numero di volontari male armati, fosse prudente attaccare posizioni fortissime, coperte ai fianchi ed alle spalle e difese da truppe regolari armate da buone carabine e da artiglieria.

Non sarebbe forse stato più prudente consiglio trincerarsi in Salemi, occupare coi Picciotti le alture circostanti ed attendervi l'attacco?

Sì sarebbe potuto ricevere il nemico con una energica controffensiva e costringerlo alla ritirata; le bande avrebbero avuto tempo di formarsi numerose ed accorrere in aiuto, attaccando il nemico alle spalle.

Ma Garibaldi era impaziente di misurarsi col nemico; sentiva nell'animo che una vittoria gli era necessaria; senza di che tutto sarebbe stato compromesso e, forse, tutto perduto.

Non era dunque il caso di attendere il nemico a Salemi; bisognava andargli incontro audacemente, romperlo e sloggiarlo ad ogni costo da Calatafimi.

E così fu deciso.

La posizione nella quale eransi accampati i napolitani, chiamata fin dall'epoca romana "il Monte del Pianto" era forte per se stessa, perchè mentre impediva un rapido attacco, offriva validissimo riparo alla difesa.

Da Vita, villaggio che si erge su di un poggio a cinque chilometri circa da Salemi, Garibaldi dispose che le bande Siciliane che sopraggiungevano e si andavano raccogliendo, si distendessero il più diffusamente possibile sul dorso delle colline a destra e a sinistra della strada, mostrandosi sempre pronte alla pugna. Dopo questo spiegamento Garibaldi ordinava la marcia in avanti della colonna, con la sinistra in testa.

Precedeva Carini con l'ottava compagnia cui tenevano dietro la settima, la sesta e la quinta; al centro marciava l'artiglieria i cui avantreni consistevano in carri comuni a due ruote; poi alcuni volontari del genio, e i marinari del Piemonte e del Lombardo. Seguiva il battaglione Bixio con le altre quattro compagnie.

Durante la marcia Garibaldi si spingeva in avanti con alcune sue guide, avendo al fianco il capitano Menotti suo figlio, il capitano Schiaffino ed il maggiore Elia, i quali non avendo voluto accettare comandi, formavano la guardia del corpo del generale. Osservata la posizione del nemico, che, colla sua linea di cacciatori coronava l'altura del "Pianto", senza indugio inviava ai suoi l'ordine di schierarsi sulle pendici di Monte Pietralunga e sulla strada.

Egli aveva appena le forza di un battaglione sul piede di guerra, e dovette disporlo secondo esigeva il terreno, lo scarso numero dei suoi e la posizione formidabile del nemico.

Stabilì quindi un ordinamento profondo e rado in linee successive; i Carabinieri Genovesi in prima linea dietro ripari naturali; poi stese l'ottava e la settima compagnia in cacciatori colle squadriglie a brevi intervalli sul versante dell'avvallamento che separava la sua posizione da quella nemica e le teneva nascoste nel grano già alto; in seconda linea stavano le altre due compagnie 6a e 5a, pure in ordine rado, quasi sul ciglio; ed a rovescio del ciglio aspettava il battaglione di Bixio in riserva.