Kitobni o'qish: «La notte del Commendatore»
CAPITOLO I
Nel quale si vede che il diavolo non è brutto quanto si dipinge.
–Signora Zita!
–Signor padrone, comandi.
–Il mio tè.
–La servo subito.—
Questo era il breve dialogo che ricorreva ogni sera, intorno alle dieci, e da anni parecchi, tra il signor Commendatore e la sua governante; quegli dalla sua camera da letto, dove stava terminando di leggere i giornali, questa da una saletta vicina, dove stava aspettando i cenni del padrone.
Per solito, quando scoccavano le dieci al pendolo dell'anticamera, il signor Commendatore avea finito, o stava per finire, il suo pasto intellettuale; e in questo caso, studiava il passo, si fermava un po' meno in Russia, o in Baviera, o in Costantinopoli, o al Cairo, e volgeva a grandi giornate verso le beate regioni dove fiorisce spontanea la carota recentissima e dove s'adagia la firma del gerente all'ombra d'un telegramma apocrifo. Intanto, dimandava il suo tè, altro sonnifero schietto. La signora Zita si alzava allora dal suo seggiolone, su cui stava biascicando una terza parte di rosario, tanto per mettersi un po' di bene alla cassa di risparmio de' cieli; andava pel bricco dell'acqua calda in cucina; la versava nel vaso d'argento, su d'un pugnello di foglie della preziosa pianta cinese, e, portato il vassoio con tutti gli annessi e connessi, lo deponeva sul tavolino, mentre il padrone aveva già avuto il tempo di dare un'occhiata, ai miracoli della tintura americana, ed anche alla notizia del capitano Franklin, morto di fame coi suoi vent'otto compagni, vicino a molti sacchi di cioccolatta, certo per mancanza di frullo.
E lì, cascava un altro dialoghetto di questa conformità:
–Signor padrone, ecco il tè.
–Grazie; è fatto?
–Sì, se non lo vuol troppo carico. Sa che il medico ha detto…
–Sta bene, lo prendo subito.
–Comanda altro?
–No, grazie.
–Felice notte, signor padrone.
–Notte felice, signora Zita.—
Come vede il lettore, questi dialoghi non si distinguevano per troppa varietà. E da parecchi anni, l'ho detto, erano sempre gli stessi ogni sera, salvo quando il signor Commendatore era guasto e mandava pel medico. I suoi acciacchi li aveva e i suoi cinquantacinque non li aspettava già più.
Egli versava adunque il suo tè nella chicchera; vi faceva struggere per entro due pezzettini di zucchero; centellava la sua bevanda con religiosa cura; indi, tra sospirando e ansimando, si toglieva dal suo cantuccio presso il sofà, e andava a dar fondo in una poltrona ai piedi del letto, per ispogliarsi con suo comodo.
Il letto era a sopraccielo, colle cortine di un bel colore d'amaranto a fiorami, come i riquadri delle pareti e le coperte dei mobili, fatti all'antica, nella foggia del Cinquecento, ma imbottiti, se Dio vuole, alla moderna. Era un uomo di buon gusto, il signor Commendatore; in altri tempi quel suo nido aveva meritato invidiabili elogi. Ora, a dir vero, non era più del tutto quello di prima. Certi canapè colle spalliere imbottite e foderate di raso, certe scranne maritate a forma di èsse, ed altri elegantissimi nonnulla, su cui s'erano esercitati tanti aghi pazienti, avevano preso la loro giubilazione in un salotto deserto, insieme coi pastelli, le miniature, le mani, ritratte in marmo, e simili reliquie, già così care al padrone sotto i cessati governi. Perfino la vecchia poltrona, ai piedi del letto, si era vedovata di un leggiadro cuscino di seta ricamata in oro, per coronarsi di una prosaica ciambella enfiata, che all'ingrato gentiluomo doveva parere più soffice. E là si adagiava, lentamente spogliandosi, come un uomo che ha tempo e sa di non aver a trovar altro nelle molli piume, fuorchè due ore d'insonnia e quattro di dormiveglia.
Adesso che lo conosciamo quanto bisogna, pigliamolo caldo. La signora Zita aveva posato sul tavolino il vassoio del tè ed augurato una felicissima notte al padrone. Ma quella sera il signor Commendatore non sapeva spicciarsi dal suo giornale e il tè fumava indarno nel vaso. A giudicare dall'apparenza, il signor Commendatore doveva star bene, rincantucciato nel suo sofà. L'inverno regnava di fuori, e un vento implacabile faceva stridere ad ogni tratto le banderuole rugginose sui comignoli dei tetti. Ma nella camera si godeva un buon caldo; le finestre e gli usci erano chiusi; gli arazzi, i tappeti, tutto aiutava a mantenere quella tiepida temperatura, che veniva dagli spirali dei caloriferi, aperti lunghesso lo zoccolo delle pareti.
Le dieci erano battute e ribattute da un pezzo a tutti gli orologi della città, e il signor Commendatore leggeva ancora. Il giornale era quel dì più sugoso del solito, e il nostro gentiluomo, volendo smaltire dapprima tutta la parte politica, s'avea lasciato ultimo, come per rifarsi la bocca, il racconto di una festa da ballo, data due sere addietro dalla principessa di Trestelle, che ecclissava (la festa, s'intende; ma, se volete, anche la principessa) quanto di bello s'era veduto ancora in quella stagione. Il cronista, che per quella occasione era proprio quel delle feste, avea sfoderato tutto il meglio dell'arte sua, e le grazie dello stile e la vivezza delle immagini, per essere al paro di quelle magnificenze. In verità, io vi dico, non si era fatto tanto sfoggio, nell'anno primo della creazione, per alloggiar degnamente la bella genitrice degli uomini, quanto ne faceva il cronista, e di cristalli e di iridi, e di latanie e di muse paradisiache, e di colori e di fragranze, e di ori e di gemme, di trine e di merletti, di blonde e di velluti, di gelsomini e di pesche, di sostantivi e di epiteti, di luci e di ombre, d'iperboli e di reticenze, per mettere in mostra la bellezza diafana della marchesa di Cardona, e quella più salda della duchessa di Sant'Angelo; o le grazie ingenue della Borghini, vera Sacontala dagli occhi d'indaco; o i biondi capegli delle sorelle Woodville, due gigli su d'un cespo: o finalmente le storiche perle della contessa Morelli, che riuscivano a parere di piombo fuso (nientemeno!) intorno al suo collo di latte. E il furbo cronista, passati in rassegna almeno una cinquantina di bei nomi, bellamente portati, conchiudeva come un uomo che avrebbe ancor molto da dire, ripetendo il «j'en passe et des meilleurs» di Ruy Gomez de Silva, davanti ai ritratti degli avi.
Di quelle dame il signor Commendatore ne conosceva parecchie, incominciando dalla principessa di Trestelle, bellezza matura, od acerba, secondo il modo di vedere degli uni e degli altri, ma splendida agli occhi di tutti. E poichè il cuore, come dicono, è sempre giovine, anche il cuore del nostro gentiluomo grillettava allegramente a quel fuoco. Gli occhi della mente seguivano il cronista, e vedevano tutte quelle stupende creature sfilare in bell'ordine, man mano che ne era fatta menzione. Ed egli ammirava con memore sguardo le conosciute, o, da quei fuggevoli tocchi di penna, si raffigurava le ignote, e si sentiva in pelle in pelle quel tremito soave che fanno correre in noi tutte le cose leggiadre, non dissimilmente dall'acquolina che fanno correre alla bocca tutte le cose buone. Non dirò quale effetto facciano tutte le cose vere, perchè il vero si può sentirlo in due modi; uno dei quali non è punto piacevole.
Verbigrazia, al signor Commendatore non gli avrebbe fatto piacere di sentirsi a dire: «sei vecchio», quantunque non ci fosse cosa più vera di questa. Ma questa pur troppo, gliela veniva bisbigliando la coscienza, una nemica domestica che non può lasciare in pace nessuno.
Il giornale, a breve andare, gli era caduto di mano; ed egli, colle braccia prosciolte sulle ginocchia, e il capo appoggiato contro la spalliera del sofà, andava almanaccando dietro a quel filo che gli avea pôrto il cronista.
«Dio di misericordia! Quante belle cose ci sono ancora sulla buccia terrestre! Noi s'invecchia, non c'è che dire; ma il mondo, eterno adolescente, si rinnova di fronde e fiori ogni giorno. Fiori di prato, o di stufa, ogni stagione ci ha i suoi. La primavera, tornata fin qui tanti milioni di volte, ritornerà, Dio sa quanti milioni di volte ancora, sulla faccia della terra. E noi, quel po' di vita che ci è stato dato per la parte nostra, come agl'insetti effimeri, ce lo viviamo davvero? No, in fede mia; noi si passa sulla scena del mondo senza capire l'arcano. E quando finalmente lo si è trapelato, ci si trova al lumicino, e non c'è più caso di mettere un tallo sul vecchio.
«Pèntiti, Don Giovanni! Ma sì, come dargliela ad intendere, quando c'era la gioventù a frastonarlo? Se aspettavano a dirglielo intorno ai sessanta, manco male! È vero (e qui il signor Commendatore sorrise malinconicamente) che sui sessanta non ci sarebbe più stato bisogno di dirglielo. Insomma, così è; giovani, non intendiamo; vecchi, non siamo più in tempo a mutarci.
«E guardate un po' che disdetta! Mai dai miei giorni non ho veduto bello il mondo come ora, ora che la esperienza m'aiuta e m'insegnerebbe anco ad assaporare lentamente tutte le gioie della vita.
«Bei ritrovi, accortamente sfiorati, fino a tanto non ci si rinvenga ciò che il cuore desidera, o che la mente ha sognato! Liete corse all'aperto, dove i polmoni e lo spirito si pigliano la parte loro Mondo ampio da veder tutto, prima di morire, come si vede tutta una casa, prima di andarsene! Imperocchè, l'uomo non è mica fatto per vivere come la quercia o come l'ontàno, abbarbicato su di una balza, donde invano il desiderio cerchi di trascinarlo per la curva del muto orizzonte, o radicato in una forra, donde non veda e non isperi più nulla. Vivere bisogna, ed ogni creatura ha da vivere secondo l'indole sua. L'uomo è nato viatore, curioso, insaziabile; egli ha da muoversi, da respirare liberamente, da rinnovare ogni tanto la sua porzione d'aria, di felicità, di luce, di scienza e d'amore.
«Muoversi, sentire in noi vivi e gagliardi gli affetti, questi benefici flagelli del sangue, desiderare, sperare, anelare, raggiungere, ottenere: è questo il vivere; tutto il resto è apparenza di vita, sogno stracco, lenta agonia. E sono vecchio, ecco qua, confinato in questa camera da un malanno che sordamente mi rode. Perchè, non c'è mica da illudersi. La palla che deve uccidermi è fusa; io so di che male andrò al peggio».—
Il signor Commendatore, da quell'uomo savio che egli era, non ingannava il suo spirito colle lusinghe dei medici pietosi. Ci aveva poi una certa propensione alla malinconia, effetto del male e cagione a sua volta di abbattimento, che faceva il restante.
Amici, ne aveva sempre avuti pochi. Giovane, era venuto su con istinti da vecchio, e tra per la naturale ritrosia e per la diffidenza che ognuno impara a sue spese e in poche lezioni, non si era buttato a troppi. Dopo tutto, ama poco una metà del genere umano chi ama molto l'altra metà, e non accade dir altro. Per contro, i pochi amici che aveva avuti, li aveva anche molto amati. Ma pur troppo, i men buoni si erano col tempo allontanati da lui; i migliori, come al solito, ad un per uno se li aveva pigliati la morte. E il signor Commendatore non aveva pensato a rinnovar le provviste.
Un giorno, era stato parecchi anni addietro, anche una certa marchesa era morta. E il signor Commendatore non aveva più saputo dove e come passar la sera. Va detto anche ad onor suo che il rammarico era stato profondo, e lungo eziandio quel lutto che un uomo può fare dicevolmente ad una persona cara, ma non istretta a lui da vincoli di parentela. Avrebbe voluto viaggiare, correre il mondo per sollievo dello spirito; ma quello non poteva più essere per lui uno svago. Così rimase e si crogiolò nella sua noia ineffabile.
Aveva provato a cercar distrazioni nella musica, e preso a bella posta uno scanno a teatro; ma in quelle radunate di gente allegra, che va allo spettacolo per vedere e per essere veduta, ci si trovava come straniero. Da tanti anni aveva perso il filo di quella vita chiassosa, che ormai non ci si raccapezzava più. Tutti lo rispettavano, ma nessuno più si curava di lui. Almeno ci avesse avuto ancora il baco della politica! Ma le ambizioni lo avevano abbandonato e madonna politica non era più il suo debole. Già, a questa imperiosa signora o darglisi intieri, o nulla. E a darglisi intieri, che sugo?
Era stato bensì eletto deputato al Parlamento per tre legislature e avrebbe avuto qualche diritto ad uno stallo in Senato. Ma egli era altresì un galantuomo, e siccome la sua coscienza gli diceva d'aver fatto troppo spesso il deputato a ore rubate, che è quanto dire poco e male, ebbe vergogna e non accettò la profferta. Bene accettò un titolo vano un po' per non aver l'aria di ricusare ogni cosa, ed anche un po', come diceva qualche volta celiando, per far dispetto a qualcuno.
Da giovine, s'era addottorato in utroque ed aveva scritto la sua tragedia, come ogni buon cittadino italiano; poi aveva fatto come il ricco, che chiude il danaro nello scrigno e non lo cava più fuori, contentandosi di sapere che il gruzzolo c'è. Gran dottore, gran letterato, gran politico, tutto in erba, aveva sfiorato ogni cosa; in niente era andato al fondo, nemmeno nel piacere. A farla breve era mal vissuto, come tanti uomini gravi che conosco io.
Immaginate dunque come il signor Commendatore, con tutto quel passato sulle spalle, avesse lo spirito occupato. Gli passavano davanti agli occhi i bei giorni che aveva perduti, le belle città del mondo che non aveva visitate, e via via tutte le belle cose che non aveva possedute. Anche un po' di famiglia, che non s'era procacciato, veniva collo spettacolo delle sue gioie soavi a inacerbirgli i rimorsi; vedeva il pergolato domestico, il sorriso d'una mite compagna e i vezzi d'un angiolo ricciutello, che gli tendeva le rosse manine dalla sua picciola cuna. Qui, per altro, gli soccorrevano certi suoi vecchi dirizzoni, e, messa in disparte la poesia fugace della cuna, rammentava le noie, i grattacapi del matrimonio.
«Non ho la signora Zita per chiudermi gli occhi? È una brava donna e l'ho ricordata nel mio testamento, perchè non abbia a capitar peggio e a rompersi la testa negli ultimi giorni della sua vita. Il resto ai poveri, famiglia che, a dir la verità, non ho molto aiutata vivendo. Infatti, ho dato, quando i venti, quando i cinquanta, ma non per fare del bene al prossimo, sibbene perchè una bella signora mi pagava in amabili sorrisi il piacere che aveva di mettermi nella sua lista. Ha pagato cinquecento lire, per vanagloria, un guanto di dama, a cui non avrei fatto il sacrifizio di un'ora, per giungere alla felicità di baciarle una mano; mille lire una scatola di fiammiferi, per far dire ad una superba Giunone: peccato che il Commendatore Ariberti non sia nobile di sangue! Vanitas vanitatum et omnia vanitas! Ho fatto un monte di spese inutili, anche sapendo di farle. Al giuoco mi lasciavo guardar le carte da una sirena traditora, che profanava il pizzo di Fiandra, onore delle nostre bisavole. Nei salotti, per le vie, stringevo la mano a centinaia di sciocchi, o di tristi, e mi trattenevo su d'un angolo di strada a sentire i discorsi degli sconclusionati, per finire il giorno con loro, e come loro. Ah, il passato, il passato! Chi mi dà di cancellarlo? Chi mi dà da riviverlo altrimenti?….»
E cento svariate forme di persone e di cose gli scorrevano davanti agli occhi, luminose ad un tempo e fugaci come immagini di sogno; selve fragranti per mille aromi preziosi, città di marmo popolate da semidei, liete frescure, laghi azzurri tra i monti, nuvoli rosei, amori, glorie, olimpiche gare e corone d'alloro, tra migliaia d'uomini e di donne festanti; e così via via tutto ciò che ha fatto bello il mondo, tutto ciò che lo farà ancora alle generazioni venture, tutto ciò che era fuggito da lui senza rimedio.
Ah sì, senza rimedio, pur troppo! E il petto del povero Commendatore ansimava, gravido di sospiri. Quello scherno della fantasia era per lui la cosa più molesta del mondo. Certo, se non fosse stato un uomo per bene, sarebbe uscito in qualche grossa maledizione. Ma queste cosacce non erano il fatto suo; grazie al cielo, il signor Commendatore rispettava sè stesso, e se pure gli venne il momento che la rabbia traboccasse, il pensiero assunse tuttavia una veste conforme al decoro.
–In fede mia,—esclamò egli parlando a sè stesso, che, pur di —ricominciare la vita, farei un patto col diavolo. Sì,—soggiunse —poscia, ridendo con un tal po' d'amarezza,—se l'amico ci fosse! Ma —anche questo ci ha distrutto la scienza moderna, anche questo!
–Davvero? e chi glielo dice?—
–Queste parole, che fecero sobbalzare il signor Commendatore nella sua nicchia, gli parve che venissero a lui da un armadio di rimpetto, anzi proprio da un'ampia spera che vi stava incastrata, riflettendo la luce raccolta della sua lucerna, e, tra questa e la penombra in cui egli stava mezzo nascosto, i capricciosi giri del fumo che mandava fuori il vaso del tè. Sbarrati gli occhi, come per guardar meglio davanti a sè, vide dall'immagine riflessa di quelle mobili spire formarsi alcun che di nuovo, indi balzar fuori d'un colpo, a guisa di pantomimo da un quadro mobile, quel famoso personaggio dal viso sarcastico e dalla svelta persona, che si dipinge vestito di rosso dal capo alle piante e con una berretta sormontata da una penna di gallo; insomma «un giovine gentiluomo» come quello veduto dal dottor Fausto di Goethe, o «un bel cavaliero» come quello veduto dal suo omonimo di Gounod.
Qui sarebbe il caso di indagare, poichè siamo nel secolo della incredulità, se si trattasse pel signor Commendatore d'una visione drammatica o melodrammatica, letteraria o musicale. Ma siccome io credo al fatto che narro, non è mestieri di cedere a queste pretensioni degli uomini di poca fede. Dopo tutto, apparenza o realtà che fosse, fatto sta che parlarono a lungo. Ma, di grazia, rifacciamoci dalle mosse.
–E chi glielo dice?—gridò l'inatteso ospite del signor Commendatore, con una voce impressa di malizia e di buon umore.—Io son più vivo che mai. Sappia, signor Commendatore degnissimo, che non si uccidono così facilmente le vecchie forme del pensiero umano. La scienza ha un bel fare; ma, spinte o sponte, dovrà lasciarci la nostra parte di sole. Ella avrà scoperto il mito, non dico di no, e ci avrà tolto qualcosa; ma anche scemati un pochino del nostro avere, ricompariremo, torneremo a far casa. Non sa Lei quel che avviene delle vecchie lune? Le logorano i naviganti e gl'innamorati a guardarle, come i cani ad abbaiarvi dietro; senza contare che si logorano anche molto da sè, a vedere le debolezze degli uomini. Poi, quando son giunte all'ultimo quarto, buona notte, spariscono, vanno in zecca a farsi rifondere; e quindici giorni dopo, le ricompaiono più tonde di prima.—
A questa intemerata dello strano personaggio, il signor Commendatore non potè trattenersi dal ridere. Così il ghiaccio era rotto; e siccome il signor Commendatore era un uomo di garbo, si ricordò appunto allora che non aveva anche fatto i suoi convenevoli all'ospite.
–La prego,—diss'egli,—si accomodi e quantunque io non sappia con chi ho l'onore…. a che cosa io debba attribuire….
–O come?—interruppe l'altro ghignando.—Non mi conosce Ella? E non le pare di avermi veduto mai, neanco in qualche vignetta? Ah, vede?—soggiunse, come leggendo nell'animo del suo interlocutore.—Ella mi conosce benissimo, e non occorre che io le declini il mio riverito nome e cognome. Quanto all'attribuire, mi scusi; o non m'ha chiamato Lei? Non ha formato in cuor suo un certo desiderio?….
–E come sa?—chiese il vecchio gentiluomo, interdetto.
–So tutto; ed ella mi fa torto, signor Commendatore garbato, a dubitarne. Non debbo io sapere tutto ciò che avviene ogni giorno ed ogni ora nelle anime? È un ufficio noioso, spiacevole, e vorrei dire anche peggio, se me lo consentisse la buona creanza. Le basti di saper questo, e lo creda sull'onor mio, che spesso ci divento rosso dalla vergogna. E quando si pensa che il principale ha creato l'uomo coll'intenzione di fare una gran bella cosa, e quasi per castigare un ribelle par mio. Ma già, dice il proverbio che non tutte le ciambelle riescono col buco; e questa dell'uomo mi sembra una frittata. Dica, o non pare anche a Lei?
–Oh, non me ne parli, per carità! Se non fosse per la donna….
–Eh, eh!—soggiunse l'altro, con un suo risolino asciutto.—Non dico di no. C'è del buono. Ma bisogna distinguere… saper scegliere… Io me n'intendo un pochino.
–Sì, davvero, saper scegliere!—incalzò il signor Commendatore, che aveva inforcato il suo ippogrifo.—E quando si potesse, coll'esperienza che ci è venuta dagli anni…..
–Averci anche un miccino di gioventù; la capisco, non dubiti, la capisco. Ho inteso il suo desiderio poc'anzi. Stavo per l'appunto ascoltando le vibrazioni dei nervi del dodicesimo paio, al loro uscire dal foro condiloideo anteriore del suo cranio. Ella deve sapere che quando si pensa si formano parole, quantunque alla muta. Gli è come a dire che si lasciano dormire i nervi laringei, non mettendo in moto che gl'ipoglossi. Provi a pensare qualcosa; non ha Lei la coscienza di avere parole formate, quasi segni visibili delle idee? E senza questi segni che sarebbero le idee? Potenza amorfa; impotenza; un quissimile del nulla. Eccole una scoperta con cui potrà farsi onore, se pizzica di scienziato. Io gliela offro di buon grado.—
E il sarcastico personaggio, sporgendo il cavo della mano coll'indice e il mignolo stretto, fe' l'atto burlesco di offrirgli una presa.
–No, grazie non ne uso.
–Ah, tanto meglio! La scienza è un certo albero, che, suda suda, è un miracolo se ne cavi fuori le tavole d'una cassa da morto. Ma torniamo a noi. Vogliamo dunque levarcela, questa vecchia zimarra e questa barba di stoppa? Eh eh! Il concetto è antico, ma è bello. Il signor Volfango Goethe l'ha tirata fuori da una leggenda popolare del quattrocento; ma, di leggenda in leggenda, e d'un ringiovanito in un altro, si potrebbe risalire fino al decrepito Jolao, restituito, per le preghiere d'Ercole, alla prima giovinezza. Sarebbe un dotto lavoro; ma già, fatica erudita, fatica da cani; non mi dà l'animo di proporgliela. Finirebbe, io ne son certo, col trovare il prodigio operato già mill'anni addietro nella terra dei Vedi; e allora le toccherebbe andarsi a perdere tra gli Arii, ed altri siffatti lunarii.
–Che il… destino me ne scampi!—gridò il Commendatore, trattenendo per delicato riguardo al suo ospite, un cielo che già aveva sulla lingua.—Ma, quel che più importa, il prodigio è possibile?
–Possibilissimo; solo che Vossignoria dica appuntino quel che domanda.
–Rivivere, ricominciare, ecco tutto;—rispose il signor Commendatore, sospirando.—Ho fallito la strada; ho perso il mio tempo; ho studiato quando abbisognava amare; amato quando bisognava studiare; ceduto ai matti consigli dell'ambizione, quando si trattava, pel mio meglio, di rimanere a mezza via, all'insegna della felicità; creduto un gran bene di vincere il punto su Tizio e Caio, e rinunziato, per sciocchi trionfi di vanità, alle più care gioie della vita; fatte le volte del leone su pochi metri di terra, quando avevo davanti a me il mondo dischiuso; infine, che Le dirò? buttato via cinquant'anni, dei cinquantacinque che ho spesi. E vorrei tornare indietro, rimettermi a nuovo; sicuro, per mettere a frutto la mia esperienza, anche a patto di darle poi l'anima.
L'ospite, a quelle parole, diede una scrollatina di spalle.
–Eh via!—diss'egli,—per chi mi piglia? Il patto è largo; ma io non sono già uno strozzino. So bene che loro signori dànno l'anima al diavolo per molto meno. Anzi, a dirla schietta, l'offerta ha fatto calar la domanda. Io del resto non vo' farmi altro da quel che sono, e ammetto quel che si deve. Sì, certo, c'è delle anime che le vorrei, anche a doverle cambiare con tutte l'altre che ci ho, e farei patto di non tenermene pur una di mostra. Ah, quelle là, le so dir io che mi fanno gola; perchè quelle là consolerebbero le mie tenebre ed io potrei formare una brigata di persone a modo. Ella vede, signor Commendatore; io non sono poi brutto come mi dipingono e vado anzi girando maledettamente nel tenero. Una donna è andata lì lì che non m'indovinasse; ed è santa Teresa, la quale ha scritto di me: «un disgraziato, che non può amare». Ma già, si diventa vecchi, ed io non potrei giurarle che un giorno o l'altro non mi farò cappuccino. Via, lasciamola lì; che non vorrei sbottonarmi troppo. Queste anime che so io, vere anime pulite, dubitano spesso, perchè spesso hanno ragione di affliggersi; ma egli vien sempre un giorno che si fermano in qualche loro concetto, vi s'appigliano, come a sterpi o radici d'albero sull'orlo del precipizio, e non sono più mie, vanno lungi da me, dove vanno tutti coloro che hanno bene amato e bene creduto. A me restano gli altri, imbroglioni d'ogni risma, colpevoli d'aver fatto ritornare la maggior parte dei nati di Adamo nel limbo dei bambini. Scusi, sa; parlo per metafora; ma «se' savio e intendi me' ch'io non ragioni». Dunque, tornando al fatto nostro, non vo' contratti, io; le fo servizio e mi basta il piacere di farglielo. Quando sarà vecchio, via, mi darà un ricordo, la sua fotografia, con due righe di dedica. A questo non ci rinunzio, lo tenga a mente. Fo un albo di duecento ritratti, di persone rispettabili, da Noè fino a noi (fra ugioli e barugioli si può ancora metterle insieme) e godrò di avercela Lei, se prima di quel tempo non mi gira nel manico.
–Grazie infinite;—rispose il signor Commendatore inchinandosi; che non gli pareva di poter fare di meno, in risposta a tanta cortesia profumata.
–A noi, ora;—esclamò il gentiluomo della penna di gallo;—è in ordine?
–Sì; non ho neppur da far testamento. Da dieci anni è scritto e firmato su tutte le facce.
–Ottima precauzione! Ogn'uomo per bene dovrebbe fare il suo, appena giunto ai ventuno, anco a non averci che le sue carabattole di studente da lasciare agli amici. Così almeno s'imparerebbe ad essere uomini assegnati e si piglierebbe la consuetudine salutare di guardar bene addentro nel cuore della gente. Ogni anno, poi, se ne potrebbe fare un altro, e creda a me, si riderebbe molto a vedere le cantonate che si fossero prese l'anno addietro, nel giudicare di questo e di quello.—
Così dicendo, il sarcastico personaggio si accostò al tavolino, e, tolto dal vassoio il vaso del tè, ne versò quanto bisognava nella chicchera; indi vi dette un soffio, come per diradarne il fumo e presentò la tazza al signor Commendatore.
–Ed ora—soggiunse cantarellando,—ed or, signore, il cenno mio la invita… a libar questo nappo… ove fumando sta… non più il suo tè… la vita!—
Il signor Commendatore non potè in quel punto trattenersi dal ridere sotto i baffi, parendogli che nella cadenza il suo Mefistofele avesse una stecca falsa.
–C'è un po' di ruggine in gola; che vuole? non sto in esercizio;—ripigliò quell'altro, che notava ogni cosa.—Orsù, dunque, e beva caldo.—
Il nostro gentiluomo prese la chicchera dalle mani dell'ospite e la guardò, rimanendo un poco perplesso. Ed egli non aveva po' poi tutti i torti; che simili casi non occorrono due volte nella vita d'un uomo. Volse quindi un'occhiata in giro; vide là in fondo alla camera il suo letto a sopraccielo, che lo avrebbe aspettato invano colla rimboccatura tirata in giù sulla proda e colla camicia da notte spiegata; pensò alla signora Zita, che avrebbe fatto le meraviglie a non vederlo la mattina vegnente… Ma sì, che cosa avrebbe detto e pensato la signora Zita di lui? E come l'avrebbe rimbrodolata quell'altro? Come avrebbe combinato le cose presenti colle future, per modo…
Basta; o non era affar suo? e non doveva pensarci lui?
Così il buon Commendatore mise l'animo in pace, e alzata la chicchera, accostò l'orlo alle labbra, e bevve timidamente il primo sorso. Egli temeva diffatti che la bevanda dovesse scottare. Ma appena era tiepida; di guisa che egli in una seconda sorsata mandò giù il rimanente. Per altro, quella volta il suo tè gli seppe d'amaro. Sfido io; senza zucchero!
Fu quello, dopo tutto, un senso fugace del suo palato. Un gran mutamento si operava frattanto in tutto il suo essere. Il sangue scorreva gagliardo nelle arterie; la persona si ergeva snella sul fianco; il viso era fresco e lucente; gli occhi scintillavano; i muscoli tutti brillavano, come fossero molle di acciaio. Intanto, l'ospite suo, la camera, tutti i muti testimoni della sua triste vecchiaia, erano scomparsi. Aveva diciott'anni nè più nè meno. E, scambio della chicchera (dov'era andata la chicchera?), il signor Commendatore si trovò fra le mani un pezzo di carta, coi fregi sui margini e un bollo largo tanto, in cui si diceva che il signor Niccolò Ariberti aveva superato il giorno addietro con lode la prova d'ammissione agli studi legali nella università di Torino.
–To'!—diss'egli ammirato.—Nell'università di Torino, dove per l'appunto ho fatto i miei studi? Non mi dispiace.—
Fu questo l'ultimo anello che congiungesse il signor Commendatore alla sua morta vecchiezza. Da quel punto egli non ebbe più memoria di nulla; entrava a gonfie vele nel mare della sua gioventù. Diciott'anni! L'età dell'oro!