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Kitobni o'qish: «La vita Italiana nel Risorgimento (1846-1849), parte II»

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A SEDICI ANNI SULLE BARRICATE DI MILANO

CONFERENZA
DI
PAOLO MANTEGAZZA

Se volete darmi la mano, rimonteremo insieme la corrente del tempo, che mai non posa, e ci fermeremo là dove il calendario ci dice, che siam giunti al 18 marzo dell'anno 1848.

Giunti là avremo fatto un viaggio di 51 anni, poco pili di mezzo secolo. Pochi di voi erano vivi allora, pochissimi eran già fanciulli o giovinetti. Io sono fra quei pochissimi, e non vorrete accusarmi di vanità se ho voluto quest'oggi parlarvi di ricordi miei. Se quei ricordi son miei, appartengono però alla storia della nostra Italia e in parte ancora alla storia di tutta l'Europa.

A quel passato remoto voi non siete giunti, fortunatamente per voi, che colla guida del libro stampato o della tradizione parlata. Io invece vi giungo sulle ali della mia memoria, memoria che, ricordando, ama e sospira.

Il ricordare il passato, l'evocarlo dalle nebbie del tramonto, per farlo più vicino a noi, è uno dei più cari bisogni dell'anima umana. E se vi fu un solo Giosuè, che per assicurar la vittoria del suo esercito fermò il sole per qualche ora; noi tutti, figli di donna, cento e mille volte fermiamo il tempo, dicendogli: prima di disperderti nell'infinito dell'oblio che tutto seppellisce e consuma, fermati e lasciati guardare e amare. Lascia che i miei occhi ti contemplino, che le mie mani ti accarezzino.

Il presente è l'ombra d'un sogno e quando voglio fermarlo, è già divenuto un passato. – L'avvenire è lontano, è oscuro. O passato, che fosti veramente mio, o passato che io ho vissuto con tanti altri, oggi morti, rallenta la tua fuga all'indietro che tutto ingoia; fermati ancora, prima che anche la memoria che ti fa vivo, si sommerga con me e mi faccia raggiungere i miei morti.

Il passato è il fascino dei fascini, appunto perchè ci dà una sete, che non si appaga mai e perchè come tutte le forme dell'infinito e dell'impalpabile, non ci sazia mai, deliziandoci sempre.

Ciò che proviamo, fissando lo sguardo nel passato, non è gioia e non è dolore, ma è malinconia; è, come lo disse Victor Hugo, «un crépuscule, dans le quel le souffrance s'y fond dans une sombre joie; aggiungendo poi sublimemente: la mélancolie c'est le boneheur d'ètre triste.» E con meno parole e genio eguale cantò lo Shelley:

 
Sweet though in sadness.
 

E se voi che mi ascoltate avete ancora tutti i vostri capelli neri e non siete disposti a fare con tue un viaggio nelle nebbie della malinconia; se invece avete il pessimismo di moda del presente, vi consolerete, vedendo quanta strada si sia percorsa in questi 50 anni, che ci separano dal 18 marzo 1848.

Io non sono ancora decrepito: eppure io ho viaggiato nel primo treno di ferrovia nel 38, ho conosciuti i fiammiferi ad immersione, e ho veduto la prima lampada a gas. E questo per il progresso materiale. Quanto al politico e al civile basti una citazione sola.

S'aveva in famiglia una villetta a Cannero sul Lago Maggiore e si viveva a Milano. Or bene. Cannero era sulla costa piemontese e si doveva chiedere il passaporto al Governo austriaco, e ci volevano almeno 15 giorni e la mamma doveva presentare il consenso del marito in carta bollata!

Ma io non vi ho invitato a fare della filosofia o a cantarvi un inno alla malinconia, soggetto caro che mi occupa da un anno e che, Dio volendo, si trasformerà in un libro. Torniamo dunque sulle barricate di Milano.

* * *

Chi ha fatto le cinque giornate?

Tutti e nessuno.

Le rivoluzioni son come la febbre. Quando i primi brividi accapponano la pelle e ci fanno battere i denti, quando poco dopo il sangue si accende e il termometro ci dice inesorabilmente: tu hai la febbre; il volgo non vede che lei e crede che il male, che pure ci porterà alla tomba, è piombato su di noi, come un fulmine a ciel sereno. E invece la febbre è l'ultima scena di un dramma preparato da lungo tempo dietro le quinte. Abbiamo respirato un'aria infetta, dove si annidavano bacilli insidiosi: sono entrati in noi e hanno percorso tutte le vie dei nostri organi, circolando nel sangue. Altri bacilli li hanno combattuti, ma sono stati vinti. Gli invasori hanno trovato il terreno libero e son diventati padroni del campo. E ora stanno vivendo alle nostre spese e secernono veleni e il sangue arde e i nervi inondati da un'onda troppo calda si ribellano e sussultano. Il respiro è angoscioso; alla coscienza di una vita tranquilla e lieta tien dietro il malessere di tutti i visceri, di tutti i muscoli. Perfino il cervello, che pili d'ogni altro viscere resiste alle lotte, alle invasioni, alle insidie, perchè è responsabile di tutte quante le vite sparse nei suoi Stati; soffre, vacilla e delira.

Ecco la febbre, ed ecco la rivoluzione.

E come nella febbre due elementi contrari si combattono con incerto successo, e come essa può essere seguita dalla vittoria, cioè dalla salute; così può distruggere l'organismo o lasciarlo così debole, da farlo facile preda di altre febbri o di altri malanni.

Così nelle rivoluzioni i due avversarli che vengono in lotta si urtano, si attaccano, si mordono e si feriscono, finchè l'uno sovrasti all'altro, e lo vinca, lasciandolo morto o ferito.

Nella rivoluzione milanese, tutto era pronto e preparato da lunga mano. – La polvere era accumulata nel sottosuolo, nei sotterranei, nei pili sottili meandri della vita nazionale. Non mancava che la scintilla, e questa guizzò nell'aria di Milano il 18 di marzo.

Noi lombardi eravamo italiani come i piemontesi, come voi altri gentili toscani, e invece a vent'anni si doveva vestire l'uniforme del giallo e del nero

 
Colori esecrabili
A un italo cuore.
 

I nostri vicini avevano un re italiano: noi avevamo il nostro re a Vienna, e da Vienna, ci venivano leggi, maestri, soldati.

E prima di essere italiani eravamo uomini, e i nostri polmoni si sentivano capaci di respirare l'aria della libertà; quella che respiravano gli Inglesi, gli Americani, tanti altri popoli. Avevamo nati nelle nostre mura il Manzoni, Carlo Porta, il Parini, e nelle scuole dovevamo leggere libri tradotti dal tedesco e da chi non sapeva l'italiano. Nessun libro poteva apparire, nessun giornale si poteva leggere, senza che libro e giornale passassero prima tra i denti fitti e crudeli della censura. Da quei denti nulla usciva, che non fosse lacerato, storpiato, malmenato.

Ci sentivamo italiani e dovevamo essere nient'altro che sudditi austriaci. Ci sentivano uomini civili e degni di libertà, e non potevamo muoverci senza il permesso di poliziotti, di censori, di passaporti.

L'uomo, che cade e si trova rinchiuso in una fogna, cerca l'aria pura e unghie e muscoli punta e titanizza per cercarla. Si lacera le unghie, si spezza le membra, si lacera i polmoni colle grida; ma vuol l'aria, perchè l'aria vien prima del pane, prima dell'amore, prima della luce. O respirare o morire.

E le rivoluzioni sono gli sforzi di un popolo, che vuole quell'aria dei polmoni collettivi, che è la libertà. O morire o esser liberi.

L'uomo caduto nella fogna che lo asfissia, non misura le proprie forze, nè calcola le speranze della salvezza; ma lotta, si agita e grida. O morire o respirare.

E il popolo senza libertà non conta i nemici, non pesa le speranze, ma lotta e grida. O morire o esser libero.

Ecco la rivoluzione, or vincitrice, or soccombente; ma sempre febbre sociale, preparata da lunga mano, dal lento assorbimento dei miasmi della tirannide. Ed ecco anche la rivoluzione di Milano, che potè sembrare un miracolo, e non fu che una delle pagine di storia, che scrisse la vittoria del diritto contro il dispotismo; la vittoria di pochi che avevano ragione, contro i molti che avevano torto; ciò che non succede ogni giorno.

Ecco le cinque giornate, nelle quali una popolazione inerme, senza generali, senza cannoni, che si arma svaligiando le botteghe degli armaiuoli e le collezioni archeologiche, che si batte con un esercito di 15,000 uomini guidati dal Radetzky; ottimo generale, che ha cannoni, razzi alla Congrève, baionette a mille e mille, e mitraglia.

* * *

La sera del 17 marzo ed anche la mattina del 18, nessun milanese pensava che sarebbe scoppiata la rivoluzione. Io poi meno di tutti, che ero un giovanetto, quasi un fanciullo. Tanto ero gracile e sottile e l'onor del mento era più un desiderio che una realtà.

Erano poco più delle 10 o delle 11 del mattino, quando dopo aver studiato fisica (ero nel Liceo) col mio condiscepolo Boselli per prepararci all'esame e dopo aver fatto colazione, mi affacciai alla finestra che dava sulla piazza di San Giovanni in Conca, dove è il Liceo, e vidi la piazza e le strade prese da pànico. Erano i brividi della febbre che incominciava. Chi correva, chi fuggiva. Servi, cameriere coi bimbi che non conducevano a scuola, ma che erano andati a riprendere, e che dal passo concitato si vedeva che li riconducevano a casa. Vedo chiudere le porte di molte case e dalle finestre semiaperte e diffidenti affacciarsi gente curiosa, che guarda nelle vie e sulle piazze.

Corro nel cortile, che nelle case lombarde è come la piazza della casa, e trovo che i vicini hanno sentito lo stesso bisogno che ho sentito io; quello di rivolgersi domande e aspettar risposte; di sapere perchè si corre, si fugge.

Le domande si incrociano colle risposte, si parla in due, in tre; si interrompe chi parla e si fa parlare chi tace. Raccolgo notizie confuse, incerte, contraddittorie.

Sento dire che a Porta Renza vi sono uomini attruppati, chi dice di popolo armato, chi di austriaci pronti alla lotta. Si assicura che sono cittadini e che hanno una bandiera tricolore. – Al Broletto i cittadini fanno folla per iscriversi nei ruoli della guardia civica, che nasceva per la prima volta.

Riporto, correndo su per le scale, le notizie raccolte. La mamma manda subito la nostra balia, rimasta cameriera in casa da tanti anni, a riprendere mio fratello Emilio e riportarlo a casa.

Mi ero offerto io, ma la mamma, che era a letto malata, non volle. – La balia parte, ma non ritorna. I minuti ci sembran secoli. La mamma salta dal letto, si veste, sta alla finestra a spiare il sospirato ritorno. – Se la balia non si vede, si vestirà e colla febbre in corpo andrà essa stessa a cercar di Emilio.

Io poi avrei accompagnato la mamma: questo nessuno poteva impedirmelo, ma balia e Emilio ritornano. Vengono in furia, correndo anch'essi. Pare che in questi giorni tutti debbano correre.

Abbracciato e baciato Emilio, stiamo tutti alla finestra, divenuta il nostro osservatorio.

Passan gruppetti di uomini, di giovani, colle coccarde tricolori all'occhiello e gridano: Viva la Repubblica: Viva Pio IX. – Molti sono inermi, ma altri hanno spade, bastoni armati, poche pistole o fucili da caccia.

Dirimpetto alla nostra casa vi è una gran sostra di legna, e tre o quattro giovanotti armati di coccarde picchiano, ma invano. La porta è chiusa. Se non si apre la porta, incendieranno il magazzino delle legna. Questa minaccia si fa anche alle case vicine, e sostra e case si aprono.

E là entrano e se ne cava un gran numero di casse, di scale, di stie e si trascinano in piazza e si gettano a traverso la via. Io non sapevo che cosa fosse una barricata, e mi si dice che tutti quegli oggetti devono servire ad impedire il passaggio della cavalleria. Son quelle le barricate, fortezze del popolo delle città contro le truppe regolari.

Ma ecco che ad uno di quei rivoluzionari viene l'idea di aprire il magazzino delle carrozze vicereali, che è appunto nella vecchia e abbandonata chiesa di San Giovanni in Conca.

Qui non si può picchiare, nè suonare il campanello per farsi aprire, perchè nel magazzino non stanno di guardia che i topi. Conviene dunque buttar giù la porta, e a colpi di ascie, di martelli, di grossi pali, si sfondano le vecchie tavole e se ne cavan venti e più carrozze coperte d'oro, di festoni, di ghirigori, campate in alto su ruote colossali, ballonzolanti sulle loro quattro gambe. Si portano a braccia di popolo, fra grida, fra urli di evviva e di gioia, e si rovesciano all'entrata delle vie, che sboccano nella piazza, divenuta così una fortezza.

Mentre le carrozze vicereali divengono barricate e vanno a gambe all'aria, alcuni cittadini hanno portato una scala e l'hanno appoggiata alla porta del Liceo di Sant'Alessandro, dove campeggia l'aquila austriaca e in men che non lo dico l'hanno buttata giù a colpi di scure e di martello. E chi sta ai piedi della scala la rompe fra grida e urli e risate assordanti, e coi piedi vi saltan sopra e la calpestano e la fanno a pezzi. Io scendo precipitoso dalle scale con un coltellaccio di cucina, e voglio anch'io ferire quell'aquila grifagna, che per meglio mangiar due becchi tiene; voglio anch'io avere una reliquia di quel cadavere.

Ma ahimè, le mamme e i babbi della nostra casa hanno barricata la porta, e non s'esce. Allora da una inferriata di una camera a pian terreno chiamo uno dei fortunati demolitori dell'aquila grifagna, e che era un mio condiscepolo. Porgo il mio coltellaccio a lui che era inerme. Lo adoperi, e dia a lui e a me un osso, anche una scheggia sola di questo cadavere imperiale.

Quel giorno si passò fino a sera alla finestra, passando di angoscia in angoscia, di trepidazione in trepidazione.

Fatte le barricate, rovesciati i carrozzoni vicereali, demolito lo stemma del liceo, si sentirono da lungi, a lunghi intervalli, delle schioppettate, poi qualche campana che suonava a martello e poi e poi, con un crescendo formidabile di triste augurio, anche un colpo di cannone.

Ma dunque la battaglia si era impegnata, ma dunque la città di Milano aveva sollevato lo stendardo della rivoluzione, ma dunque si battevano. – Da una parte un esercito ben armato, con cannoni appoggiati ad un castello, dall'altra cittadini inermi o quasi, che senza misurar le proprie forze volevano la libertà.

Che la battaglia si fosse impegnata, anche senza i colpi di cannone e senza le fucilate, io avrei dovuto già saperlo, perchè fra il popolo che trascinava le carrozze e le gettava gambe all'aria, avevo veduto due cittadini vestiti colle spoglie di due soldati di fanteria, e due altri colle giacche di due ussari. Avevo visto un altro, che correva schiamazzando e gridando, ebbro di gioia e che sulla punta di una spada portava il cappello d'un soldato.

Intanto pioveva a dirotto, ma la pioggia non impediva che corressero per le vie drappelli di cittadini, e che alle 24 gridassero: Fuori i lumi! Fuori i lumi!

Fu in quell'ora che 15 o 20 croati, malgrado le barricate, passarono correndo e tirando in aria verso le finestre chiuse colpi di fucile.

* * *

Ma lasciamo il povero giovinetto, che si accontentava di prendere una scheggia della terribile aquila grifagna e vediamo che cosa volesse e facesse in quel giorno la città di Milano.

Questa pacifica città voleva assai più di quel giovanetto: voleva almeno ciò che l'Imperatore aveva dato a Vienna, che per una strana coincidenza insorse anch'essa il 18 di marzo.

Vienna è in rivoluzione e i Milanesi esclamano: Se tanto si fa dai Viennesi, come staremo noi tranquilli?

Già da molti giorni, se di fuori nessun sintomo esteriore diceva che Milano era minacciata da una gran febbre, la polizia però aveva toccato il polso alla città ed era inquieta. L'arciduca Ranieri partiva con tutta la sua famiglia per Verona il 16 marzo, accompagnato da un reggimento di granatieri italiani, che non si credeva prudente lasciare in quella città. E prima di lui era partito anche lo Spaur, governatore della Lombardia, lasciandovi il vicepresidente O'Donnell.

La mattina del 18 marzo si legge su tutti i canti delle vie un editto imperiale e reale, nel quale si diceva che Sua Maestà ha determinato di concedere ai suoi popoli istituzioni liberali, e convocherà i rappresentanti dei diversi paesi a Vienna per il 3 luglio.

Sapete tutti che quando si vuol elevare la temperatura di un forno vi si getta un po' d'acqua. Molta acqua lo spegnerebbe, ma pochina lo ravviva. L'ordinanza imperiale fece l'effetto di quella poca acqua.

Per tutte le vie si formano capannelli di persone, che anche senza conoscersi, per l'emozione comune e forte che ne fa battere il cuore, diventano amici, quasi parenti per un momento. Vi è una consanguineità più calda di quella del sangue, ed è quella del sentimento e del pensiero. In una rivoluzione tutti quelli che s'incontrano diventan più che amici, fratelli.

E in quei crocchi si sente dire:

Oggi si fa la dimostrazione al Governo. – Vanno tutti al Broletto. – Bisogna finirla. – Vienna è insorta: non è più tempo di dimostrazioni; ci vogliono dei fatti.

Quelle esclamazioni (che esclamazioni erano e non discorsi), sottolineate dall'accento poderoso e dalle voci grosse, esprimevano due opposte correnti, che in ogni moto popolare delineano i temperamenti di due diversi caratteri, il prudente ed il violento.

Dall'una parte si vuole raggiungere lo scopo per le vie legali: dall'altra si vuole la lotta, la guerra; si aspira con voluttà al sangue.

Alle 10 del mattino tutta Milano era in moto; non v'era mente che stesse ferma, non cuore che non battesse più forte.

Il carattere violento trascina il carattere prudente. La folla irrompe nella bottega del Colombi, il primo armaiuolo di Milano, e la svaligia. Ne escono con pistole, con fucili da caccia, con carabine, con sciabole; con tutto ciò che può uccidere.

Ma le armi non bastano; si dirigono tutti al Borgo Monforte, dove è il Palazzo di Governo e il Torelli si unisce alla folla. Domanda che cosa si vuole e gli rispondono: Si fa una grande dimostrazione per appoggiare la domanda di concessioni che si vogliono dal Governo e quanto prima verrà il Municipio, verrà anche il Delegato (Prefetto) in persona.

Più in là il Torelli vede un giovane, che escito dalla bottega di un tappezziere, con un grosso ferro acuto e forte, tenta di smuovere il selciato per fare una barricata.

Ma gli gridano: No, no, a che pro vuoi rovinare la strada?

Ancora e sempre violenza e prudenza, che vogliono la stessa cosa, ma per diverse vie.

Intanto la folla si urta, si addensa, corre e divien fiume, corrente, che trascina ogni cosa che incontra.

Si ode gridare: Sono qui, sono qui!

È infatti la Deputazione solenne, che si avvia a chiedere al Governo le concessioni.

Avanza lentamente, solo gli uscieri e i pompieri possono difenderla dall'onda del popolo e permetterle di andare innanzi.

Guardate quei coraggiosi. Sono il delegato provinciale Antonio Bellati, il podestà conte Gabrio Casati, e intorno ad essi assessori, cittadini notevoli per censo e per fama.

Popolo e deputazione giungono al Palazzo, l'onda del popolo ne invade cortile, scale, e su su è entrata nelle sale, negli uffici, dovunque. Si ferma forse l'acqua torbida di un fiume, quando travolge alberi e armenti e case, ed uomini e cose?

Quelli che sono rimasti fuori si sentono cader sulle spalle registri, libri e per l'aria volano fogli, lettere.

Il Torelli, rimasto addietro, penetra più tardi nel palazzo, e sotto il portico vede da un materasso gettato a terra escire due paia di piedi calzati come sono i soldati ungheresi. Quei piedi sono immobili. Sono di due cadaveri, delle due sentinelle che erano alla porta del Palazzo e che, avendo voluto opporsi all'onda del popolo, erano state uccise, l'uno con un colpo di pistola, l'altro colla stessa baionetta di cui era armato il suo fucile.

Povere ed innocenti vittime del dovere professionale! Il libro degli Edda lo ha detto da tanti secoli. Nessuno è forte contro tutti. E quei poveri soldati giacciono lì sotto quel pietoso materasso che solo li nasconde alla curiosità del popolo tumultuante, e le loro povere madri pensano forse a loro in quella stessa ora nelle lontane steppe dell'Ungheria al dì del ritorno e che non verrà mai, mai più!

Quella folla, che si è già macchiata di sangue, non ha però tempo ne voglia di occuparsi di quei poveri morti. Tumultua, grida, schiamazza, mentre la Deputazione è in conferenza coll'O'Donnell.

Era le mille voci che riempiono il cortile, le scale, la via, si ode una voce più alta, che per un momento fa tacere le altre e ad esse si sovrappone: L'Arcivescovo, l'Arcivescovo! Largo all'Arcivescovo!

Era il Romilli, che l'anno prima, l'8 di settembre, aveva fatto il suo solenne ingresso in Milano e che succeduto al Gaisruck tedesco, era divenuto subito popolare, perchè italiano e buon uomo.

Il Romilli più che camminare era portato anch'egli su per lo scalone, mal difeso da alcuni sacerdoti, che lo difendevano dal troppo caldo entusiasmo dei suoi concittadini. Salutava a destra e a sinistra, sorrideva, ma era agitatissimo. Guardava con certo terrore una coccarda tricolore, che gli avevano appiccicata sulla veste talare.

Si conferiva intanto nel gabinetto del Governatore, e la folla febbricitante di impazienza alzava sempre più le note del suo patriottico entusiasmo. Ma ecco che si apre la porta del gabinetto e ne esce il conte Carlo Taverna, che dà la notizia delle prime concessioni.

Signori, il Governo ha fatto le concessioni…

E non si ode il seguito… Concessioni, sta bene, ma di che, ma di cosa? La impazienza cresce, diventa angosciosa e le grida crescendo impediscono di udire.

Un tale grida: Scriviamo la concessione e gettiamo il foglio nel cortile. Una penna, dei calamai, dei fogli!

Si trova dopo confuse ricerche un calamaio, ma senza penne e senza carta. La carta la troverò io, grida un impiegato e porta dei bollettini di leggi e circolari, che hanno sempre un foglio in bianco.

Si strappano le pagine bianche e senza penna vi si scrive con bastoncini, con matite; perfino colle dita tuffate nel calamaio.

E i fogli volan per l'aria e scendono dalle finestre nelle vie, dal corridoio e dalla scala nel cortile.

Si legge male ciò che peggio era scritto, ma tutti possono leggere però queste parole: Il Governo ha conceduto. E allora si ode da per tutto: Evviva la concessione, evviva il Municipio!

Le concessioni strappate a forza erano: Guardia nazionale – Libertà di stampa – Garanzia personale.

Miste agli evviva si udivano però altre grida: Vogliamo armi, vogliamo armi! Ma un altro grido più forte, più angoscioso vien su dalla piazza: I Tedeschi, i Tedeschi!

Il pànico invade la folla in gran parte inerme, e fugge, mentre la Deputazione esce dal Palazzo, portando seco come ostaggio o come prigioniero il vicepresidente O'Donnell, che messo nel palazzo del conte Carlo Taverna vi rimaneva tranquillo e indisturbato per tutte le cinque giornate.

Intanto, però, in varii punti della città eran corse schioppettate fra il popolo e la truppa, e in più luoghi si erano inalzate delle barricate.

I soldati avevan saputo dell'uccisione delle due sentinelle del Palazzo di Monforte e si vendicavano, dando la caccia ai cittadini. E questi tiravano sui soldati. Non si trattava più di Milanesi oppressi e di Austriaci oppressori. Era la vampa atavica dell'uomo selvaggio, che morsicato morde, che ferito ferisce. Due giovani fra gli altri, di condizione civile, inseguiti, fuggirono in una bottega di cartoleria, che era aperta, avendo la folla strappate le porte per farne una barricata. E i soldati dietro. I fuggenti corrono su per le scale, finchè trovano il tetto, e i soldati sempre dietro. Non si seppe mai, se scivolando dal pendio del tetto cadessero nella via o prima fossero stati uccisi e poi precipitati dall'alto. Il fatto si è, che i loro cadaveri, sfigurati, rimasero dov'eran caduti per più giorni, non riconosciuti, nè raccolti dalle turbe ebbre di lotta e che avevan altro da fare che di pensare a due poveri morti. Chi conta i cadaveri nell'ora della battaglia?

E la battaglia era ormai impegnata, nè consiglio di prudenti, nè pietà di filantropi poteva ormai arrestarla.

Nè solo i combattenti cadevano, ma anche i fuggiaschi, che per caso o per necessità si trovavano nelle vie. Il bravo Torelli, che armato di una sciabola e di due grossi pistoloni andava verso il Broletto, trova sul marciapiedi presso la via della Spiga un povero vecchio ucciso da una palla nel mezzo della fronte, e la pioggia lavava quella ferita e portava lungo il leggier pendio della strada un sottile rigagnolo di sangue. Il Torelli aiutato da alcuni cittadini portò quel povero vecchio sotto l'atrio d'una casa.

* * *

Ecco il principio della rivoluzione, ecco la prima delle cinque gloriose giornate, che scrissero una pagina d'eroismo nella storia d'Italia e diedero una lezione ai despoti; nè starò a descrivervi tutte le scaramuccie, tutti i particolari della lotta, che non aveva un solo generale, nè un solo piano di tattica, ma che si combatteva in tanti centri, quanti erano rappresentati dalle caserme, dal Comando di piazza, dalla polizia e con diversa fortuna, secondo i luoghi e gli uomini che combattevano.

Non accennerò che a qualche episodio. Mettendoli l'uno accanto all'altro, avrete il quadro della sommossa.

Corre la voce, che davanti al Gran Comando Generale posto in via di Brera, i soldati fraternizzano col popolo. Si spiega la cosa, aggiungendo che quei soldati son tutti ungheresi e italiani. Se un cittadino di alta autorità e di grande energia si presentasse al Comando, potrebbe intimare la resa a quel battaglione.

Ma c'è chi soggiunge:

È vero: son tutti italiani e ungheresi, non chiederanno di meglio che di arrendersi; ma gli ufficiali son tutti tedeschi e conviene che per trattare con essi ci voglia chi sappia il tedesco.

L'uomo coraggioso si trova, anzi se ne trovano due, perchè al Torelli si aggiunse l'Anfossi, e entrambi, senza misurare il pericolo della loro impresa, si avviano al Comando.

Era tutto un quadrato di soldati, che fitti fitti e armati stavano davanti alla porta del palazzo. Il Torelli, traendo un fazzoletto bianco e sollevandolo in alto, gridò con tutto l'entusiasmo: Eljen Madjar! Risposero in molti Eljen! Eljen! e parecchi strinsero la mano al nostro Torelli.

Egli ravvisò un maggiore, che ravvolto in un gran mantello impermeabile a causa della pioggia, stava dinanzi alla porta chiusa del Comando e tentò di persuaderlo ad arrendersi. Ormai il popolo era padrone della città, era bene evitare un inutile spargimento di sangue… si arrendesse.

Il maggiore lo ascoltò con tutta la calma, senza dar segno di impazienza o di sdegno, e si accontentò di rispondere: No, non lo posso, non fate ostilità voi, e non ne faremo noi.

L'Anfossi, che non sapeva il tedesco, non poteva capire il dialogo, vedendo che i soldati li avevano circondati, disse piano al Torelli: «Caro mio, andiamocene, ci potrebbero portare in castello.»

Il Torelli ritornò all'assalto con parole più calde, ma il maggiore con più energia di prima disse di no, e i due temerarii cittadini ritornarono donde erano venuti.

Se la resa non riusciva colle buone, doveva riuscire colle brusche e a suon di fucilate.

Il 19 l'Anfossi con una schiera di valorosi compagni prendeva gli Archi di Porta Nuova, respingendo gli Austriaci e prendendo un'ottima linea di difesa.

Il giorno dopo, i Tedeschi abbandonavano la Polizia e il Duomo, che avevano occupato, come un osservatorio e come un ottimo punto di difesa, dacchè i Tirolesi, ottimi fra tutti i tiratori del mondo, di lassù uccidevano senza sbagliare un colpo. Aggiungete che accanto al Duomo sta il Palazzo Reale e si innalza il colosso dell'Arcivescovado.

Il Torelli, appena seppe che il Duomo era abbandonato, chiese ad una signora una bandiera tricolore, e con pochi compagni la portò su quel gigante di marmo, e l'innalzò tra gli applausi del popolo, che dal basso vedeva il vessillo nazionale sventolare per la prima volta sul caro, sull'adorato Dom de Milan.

Questa la poesia della rivoluzione! Accanto alla poesia, però, nello stesso tempo la prosa robusta e vigorosa dei fatti. È in quello stesso giorno che la Congregazione Municipale si trasformava in Governo provvisorio, con patriottico pudore però rinunziando alla parola audace e forse ancora troppo superba, e dicendo solo in un suo proclama «che viste le circostante assumeva in via interinale la direzione di ogni potere allo scopo della pubblica sicurezza

Ai membri ordinarii della Congregazione, oltre il conte Gabrio Casati podestà e gli assessori Antonio Beretta e conte Cesare Giulini, si aggiunsero Vitaliano Borromeo, Franco Borgia, Alessandro Porro, Teodoro Lecchi, Giuseppe Durini, Anselmo Guerrieri, Enrico Guicciardi e Gaetano Strigelli.

E il Governo provvisorio nominava un Comitato di guerra, poi uno di difesa, uno di pubblica sicurezza, uno di finanza, uno di sanità e per ultimo uno di sussistenza.

Troppo governo, direte voi: ma chi potrà accusare di troppa voluttà di comando chi ha sempre ubbidito; ubbidito a forza e a tiranni odiosi? Chi potrà accusare di intemperanza un affamato, che a un tratto siede ad una mensa lautamente imbandita? L'ebbrezza non è soltanto nel fondo delle bottiglie, ma in ogni battaglia vinta, sia poi d'amore, di gloria o di libertà. E in quei giorni noi tutti, anch'io quasi fanciullo, eravamo ebbri d'indipendenza e di lotta.

* * *

Il 20 di marzo un maggiore croato si presentava come parlamentare in casa Taverna, portando una proposta del maresciallo Radetzki, quella di sospendere per tre giorni le ostilità.

Eran presenti a riceverlo i membri del Governo provvisorio, quelli del Comitato di guerra e quelli del Comitato di difesa: in tutto 14 o 15 cittadini. La proposta fu respinta, e fucili e cannoni continuarono la loro crudele missione.

Fra le molte scaramuccie, fra i molti assalti, che avvennero in quei cinque giorni, due assunsero aspetto di veri fatti di guerra, che meritano una pagina nella storia della strategia e della tattica: voglio dire la presa del Genio e quella di Porta Tosa.

Il Genio, che era allora dove è oggi la monumentale fortezza della Cassa di Risparmio, era il cuore della difesa degli Austriaci. Dal Castello e dalle porte partivano i fulmini, ma dal Genio emanavano le correnti che li sprigionavano. Là era il cervello, là il denaro, là le carte del governo.

E da ogni finestra i migliori tiratori tirolesi facevano piovere palle di piombo sui cittadini armati, che volevano entrarvi e si andavano avvicinando di barricata in barricata, di tetto in tetto. E seminando di morti e di feriti le vie e innondando di sangue i ciottoli e i marciapiedi, si andava innanzi; la porta che resisteva, forte per natura e barricata per di dentro, fu schiantata da due cannoncini di legno cerchiati di ferro, che furono improvvisati dai Milanesi, fatti inventori di una nuovissima artiglieria. Io li ho veduti quei cannoncini, anneriti, feriti anch'essi, che parevano giocattoli da bimbi, ma che pure avevano vinto il Genio austriaco. Augusto Anfossi, l'anima e il cuore delle cinque giornate, l'eroe primo di quella battaglia tanto disuguale, lasciava la vita in quel'assalto.

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28 oktyabr 2017
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