Kitobni o'qish: «Bollettino del Club Alpino Italiano 1895-96»

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R. H. Budden

Fra le più care e tipiche figure dei pionieri dell’alpinismo italiano, che ormai col volgere degli anni, come natura vuole, vanno scomparendo, una più delle altre pareva voler sfidare impavida le bufere della vita e mantenersi vegeta sulla breccia fra l’ammirazione dei vecchi per l’ardore giovanile con cui combatteva, dei giovani per la tenacia colla quale sosteneva alti i più puri ideali di tutta la sua esistenza.

Ma ad un tratto quella maschia figura che da ben quarant’anni viveva fra noi è scomparsa; quel roseo viso, sorridente sempre, incorniciato fra due candide fedine non è più che un dolce ricordo; quello sguardo aperto, vivace e profondo, che rispecchiava tutta la bontà d’un animo elevato, d’un cuore impareggiabile si è spento; quella tempra gagliarda, infaticabile, violentemente si è infranta, lasciando inciso nei monti con indelebili caratteri il suo nome, che ogni montanaro, ogni alpinista d’Italia venerava, lasciando immenso cordoglio nell’animo d’una lunga e numerosa schiera di poverelli che aveva beneficati.

Riccardo Enrico Budden era nato il 19 maggio 1826 in Stoke Newington (Londra), ove trascorse i primi anni della sua vita, e, rimasto orfano giovanissimo ancora, veniva posto in collegio, dapprima a Bonn e più tardi a Parigi.

Compiuta ch’Egli ebbe la sua educazione, libero di sè, ricco di censo, dopo breve permanenza in Francia, cominciò i suoi viaggi attraverso l’Europa, non ritornando in patria che di tempo in tempo e per non lunghi soggiorni.

Fu a Nizza, italiana allora, che circa quarant’anni or sono si innamorò del bel cielo tirreno, s’appassionò alla patria nostra che più tardi visitava e studiava in ogni sua parte.

A Genova prima, poi a Torino pose sua dimora, quindi in Svizzera e nuovamente in Francia, di dove il ricordo delle città italiane lo richiamava fra noi. Traslocata a Firenze la capitale, Egli pure vi si recava e dalle sponde dell’Arno seguiva a Roma le sorti del nostro paese, ch’ei già allora considerava come sua seconda patria. Non rimase mai gran tempo nella medesima regione, chè la sua inesauribile attività lo spingeva or in questa or in quella, finchè, innamoratosi dell’ospitalità semplice e cordiale che sovente s’incontra in tutte le classi del vecchio Piemonte, ch’Egli chiamò «paese del franco parlare», si stabilì in Torino, ove già più volte aveva abitato.

Nei primi anni ch’Egli era fra noi, come praticavano non pochi suoi connazionali, si recò a visitare le nostre montagne e rimase profondamente colpito dalle innumerevoli bellezze della Valle di Aosta, sì che ad essa più che ad altre valli italiane rivolse tutte le sue cure, dedicò tutte le sue forze, facendosi promotore di quei miglioramenti che valessero ad aumentarne la prosperità ed a renderla più gradita agli stranieri. La percorse in ogni suo angolo e, trovatala deficente di strade e di alberghi, si fece tosto promotore d’una prima sottoscrizione onde raccogliere fondi per abbellire Courmayeur, chiamata, per la sua posizione, a rivaleggiare con altre importanti stazioni alpine d’oltr’alpe.

Fu questa nobile iniziativa che lo portò a conoscere il nostro Club. Egli si era rivolto alle Autorità della valle, offrendo un concorso di lire 500 come primo fondo della sottoscrizione che voleva iniziata a tal fine, e quelle non risposero, parendo forse a loro strana l’idea di quest’inglese entusiasta dei monti. Ma Egli non si sgomentò; insistette, ne parlò con amici e venne consigliato di rivolgersi al Club Alpino di Torino, costituitosi appunto due anni prima.

Fortuna volle s’incontrasse in G. B. Rimini ed in Bartolomeo Gastaldi, i quali, intuito l’uomo, non solo accolsero con entusiasmo la sua proposta, ma lo fecero inscrivere socio del Club.

Da quel giorno può dirsi che dedicò intiera la sua vita pel bene della nostra istituzione, e tanto fece colle opere, col consiglio, coll’esempio e con generose elargizioni, da meritarsi il titolo di Apostolo dell’Alpinismo.

Recatosi nuovamente a Courmayeur, riuscì a vincere le mille diffidenze che osteggiavano l’attuazione del suo progetto, a poco a poco convinse i più restii, mentre intanto sollecitava dagli alpinisti inglesi l’invio di somme in aiuto dell’opera sua. E nel maggio del 1868, lieto della riuscita che prometteva, in una lettera da Courmayeur annunziava a Bartolomeo Gastaldi che l’incoraggiamento del Club Alpino non era rimasto senza frutti, avendo quel Consiglio Comunale votate e fatte eseguire diverse opere, quali la strada al Pavillon di Mont-Frety, l’impianto di viali, il miglioramento di parecchie strade mulattiere, ecc., e che i paesi vicini spinti dall’esempio accennavano essi pure a mettersi sulla buona via.

Disgraziatamente, iniziate da poco le opere, il fallimento della Cassa di Risparmio d’Ivrea e sua succursale di Aosta, presso la quale i fondi erano stati depositati, ne inghiottì gran parte, rendendo impossibile l’attuazione del progetto, se Egli, per dar nuova spinta alla sottoscrizione, non avesse versate alla Sede del Club altre lire 500.

Erano allora i tempi d’oro dell’alpinismo, vasto campo di terreno vergine da esplorare, con tempre gagliarde, innamorate della natura, del bello, che s’accingevano con ardore all’impresa.

Non si conoscevano ancora tutte le comodità della vita alpina d’oggi: con un semplice bastone in mano, un sacco sulle spalle, un po’ di pane in tasca, s’avviavano al monte quei pionieri dell’alpinismo, ed Egli ricordava con piacere quando cogli amici suoi, il canonico Carrel e gli abati Gorret e Chanoux, G. B. Rimini e tanti altri iniziati al culto della natura, se ne iva peregrinando fra i monti.

Le sue gite sono innumerevoli, ma Egli non dà relazione che di quelle compiute nei primi tempi, quando era necessario spronare altri a pubblicare le loro impressioni. Nè ha la pretesa di fare scoperte, ma dice che scrive soltanto per far conoscere le nostre valli, poichè disgraziatamente la maggior parte dei viaggiatori «non lasciano volentieri la via solita per vedere nuovi paesi, studiare i costumi e le particolarità delle popolazioni e godere delle abitudini semplici, dei prezzi moderati che pratica tanta povera gente, che si trova per così dire onorata da tali visite inaspettate,» se non vi sono spinti od attratti da altri.

Nelle sue relazioni, ricche di dati interessanti sui costumi o sulle leggende delle valli visitate, dà soventi ragione dei nomi delle diverse località ed i fatti più semplici gli lasciano campo a profonde riflessioni. Al suo occhio nulla sfugge delle scene imponenti che si ammirano sulle montagne, la cui solitudine lo colpisce profondamente e fra le quali è lieto di trovarsi in mezzo a tanta brava gente non corrotta dalla civiltà moderna. Sono briosi aneddoti che infiorano tratto tratto e rendono piacevole la lettura dei suoi scritti, dai quali traspare completa un’anima d’artista innamorato delle superbe bellezze del quadro che ha dinanzi.

Non trascorreva mai una stagione intiera in questo piuttosto che in quel distretto alpino; quel medesimo sentimento che lo spingeva di città in città, quel bisogno di studiare e vedere sempre nuove cose, anche in montagna gli faceva compiere lunghe corse, visitare parecchie valli, passando sempre per nuovi valichi. Così, ad es., lo vediamo nel 1867 da Chamonix portarsi al Piccolo S. Bernardo, di dove si reca ad ammirare il gruppo del Rutor; poi discendere a Courmayeur e dopo breve permanenza, per Liverogne, Valsavaranche ed il Colle del Nivolet portarsi a Ceresole Reale, salire la Bellagarda ed altre punte, ritornarsene pel Nivolet a Valsavaranche, ove lo troviamo sulla Bioula e sul Colle del Lanzon che discende a Cogne. Da Cogne lo attrae quello splendido belvedere che è il Pousset, lo attraggono i valloni circostanti; ma anche questi solo per qualche giorno, poichè nuovamente s’avvia per la Finestra di Champorcher a Bard, a Pont St.-Martin, a Gressoney St.-Jean. Qui trova il primo châlet albergo costruito nelle valli italiane dal sig. Linty e ciò lo rallegra, ma neppure ciò ha il potere di trattenerlo a lungo; dopo pochi giorni pel Colle di Valdobbia passa a Riva, a Varallo, e sempre pei monti a Biella e di nuovo a Pont St.-Martin, ad Aosta e pel Gran S. Bernardo a Ginevra.

I disagi della vita di montagna per lui sono nulla, il suo animo buono, generoso tutto dimentica e s’entusiasma, quando ode dire da chi Egli compensa largamente per qualche servizio resogli: «Monsieur, me donne trop, cela ne vaut pas tant», e non sogna che di ritornare presto fra quella gente.

Nel 1868 lo troviamo a Courmayeur, a Varallo, ad Alagna, sempre traversando colli; poi sul Monte Generoso e di là per Verona, a Neumarkt, fra le Dolomiti, a Predazzo, a Paneveggio, sul Passo di Vallès, a Forno di Canale, ad Agordo e ritornare pel Passo di S. Pellegrino di nuovo a Neumarkt, di dove prosegue per Innsbruck, Monaco, ecc. ecc.

Ed in ogni suo viaggio nota e giudica quanto vede, ed in questo, ad esempio, loda come sono tenute le foreste e le strade nel Trentino, biasima invece il modo col quale facevano servizio le diligenze.

Volendolo seguire nelle sue escursioni avrei qui da riempire molte pagine, e ripetermi molte volte, poichè in sì lungo volgere d’anni visitò a più riprese quei siti, la cui bellezza maggiormente lo aveva colpito. Aggiungerò soltanto che intervenne a quasi tutte le numerose gite sociali della Sezione di Firenze, compiutesi durante la sua presidenza, visitò più volte le Alpi Apuane e l’Appennino Toscano e Romano, ecc., non limitandosi alle Alpi che cingono l’Italia, da lui tutte sinceramente amate e tanto, da soffrirne quando qualche regione era lasciata nell’oblio. Lo sentiamo perciò, anni addietro, lagnarsi quando le Alpi Marittime erano trascurate ed esporci in un articolo pubblicato sulla «Rivista Mensile» quali sono le opere eseguite dai francesi sul loro versante onde attirarvi i viaggiatori, insistendo perchè le Sezioni della Riviera s’assumessero l’impresa di promuovere i miglioramenti necessari alle strade, ai sentieri, agli alberghi, ecc. ecc., coadiuvando in tal modo «con tutte le forze loro quest’opera di riparazione verso tanta parte di regione montana lasciata in un abbandono poco giustificato.»

Era pur solito a seguire nei loro giri tutti i Congressi Alpini che fin dai primi tempi raccomandò con insistenza si tenessero fra i monti, poichè quello era l’unico campo sul quale, sparita ogni differenza di regione, dovevano gli alpinisti italiani conoscersi ed affratellarsi.

Quantunque non avesse salite alte vette, non fosse un «grimpeur», era però un vero alpinista, nel senso più puro ed elevato della parola. Egli non vedeva nelle alte ascensioni una stranezza, una specie di pazzia, come qualcuno anche oggi le dice; voleva anzi che la gioventù si dedicasse a queste grandi e nobili imprese, com’ei le chiamava, e più d’una volta nei suoi discorsi, ed in special modo al Congresso di Varallo, insistè sulla utilità di tali gite e sulla necessità di rinvigorire la nostra fibra, compiacendosi di portare ad esempio i suoi connazionali che nella forza del corpo trovano nuova forza della mente, convinto che lo sviluppo del Club avrebbe aiutato molto il rinnovamento fisico e morale della nostra nazione.

Ed oggi più che mai, in questi critici momenti, quella tipica figura che si mantenne giovane di corpo, di mente e di cuore sino alla morte, avrebbe resi nuovi e sempre maggiori servigi, scuotendoci dall’apatia coll’autorità sua e spronandoci sulla via del bene coll’entusiasmo sincero, inesauribile, che solo possiede chi è profondamente convinto della bontà dell’idea che sostiene.

Mente elevata ed energica, Egli nei monti non vedeva soltanto picchi da salire, ma in loro riassumeva, personificava pensieri ben più alti delle punte imbiancate dalla neve eterna, ritenendoli non fine ad uno scopo, ma mezzo per raggiungere ideali altissimi, sublimi.

Figlio d’un paese libero, legato all’Italia da vincoli d’affetto, predicava l’alpinismo come palestra nella quale ogni italiano avrebbe dovuto imparare a lottare, plasmando nei duri cimenti col monte un saldo carattere nazionale, che valesse un giorno a cancellare quelle meschine separazioni da regione a regione, frutto di lunga servitù. Era un’Italia forte e libera che egli sognava, erano Italiani intelligenti, attivi, che desiderava vedere, ma voleva fossimo Italiani solo, null’altro che Italiani.

Quindi con Felice Giordano si fece iniziatore della prima riunione annuale tenutasi nel 1868 in Aosta sotto la sua presidenza ed intervenne poi a quasi tutti i Congressi Alpini, ch’ei riteneva, come già dissi, efficacissime occasioni per viemmeglio unirci.

Per lui, quella dell’alpinista doveva essere una santa missione, ed io rammento che molte volte mi diceva di ricordarmi sempre quando fossi di passaggio per le alte Alpi, ove lungi dal mondo vive segregata tanta povera gente, di dirle una buona parola o darle un consiglio, procurando di parlare un linguaggio che potesse essere compreso, che valesse a diradare alquanto le tenebre che annebbiano quelle ruvide intelligenze.

Animo pio e generoso, innanzi agli spettacoli sublimi della natura, il suo cuore non dimenticava mai i poveri montanari; tante bellezze non soffocavano in lui il sentimento della pietà, anzi lo acuivano, ed Egli sentiva quanto enorme era il contrasto fra il grandioso spettacolo che ammirava e la miseria di tanti infelici condannati a vita sì triste. Eccolo quindi venire a loro, lentamente spiegare in linguaggio dolce e mite quanto bene potrebbero ritrarre da più razionali colture, unendosi in associazioni, procurando di migliorare questa o quella produzione, costruendo sentieri, riparando le vie di accesso ai principali centri alpini, munendo di linde camerette le luride cantine e trattando cortesemente i pochi forestieri che cominciavano a visitare le alte valli. E se le sue parole non furono dapprima comprese, non se ne sgomentò. «Quanto non si è ottenuto ora—diceva—si otterrà un altr’anno, non m’hanno ancor capito». Ed eccolo nuovamente col sorriso sulle labbra, non più straniero a quelle genti che soccorreva anche con denaro, ritornare a loro, guadagnarsene le simpatie, persuaderle.

Convinto che lo studio dei monti, promovendo frequenti gite, finirebbe col risvegliare negli alpigiani la volontà di meglio conoscerli, Egli riteneva necessario ottenere che mettessero da parte quella diffidenza innata che osteggia l’attuazione di molti progetti, facendo loro capire che esistono realmente società di uomini disinteressati e generosi, i quali con studi e ricerche tentano di far apprezzare il loro paese. Raccomandava quindi agli alpinisti di essere cortesi e gentili, di prendere la più gran cura in special modo nei paesi maggiormente abbandonati, di non urtare le suscettibilità anche dell’uomo il più povero, onde fosse più facile il compimento della nobile idea.

Il suo affetto per gli abitanti dei monti lo aveva reso entusiasta di quegli oscuri benefattori della umanità che sono i parroci di montagna, intenti a sacrificarsi pel bene di quelle popolazioni. Egli non può trattenersi, nei suoi scritti, dall’esprimere ammirazione per loro e dal deplorare che, mentre «s’innalzano ovunque monumenti a grandi ministri, a valenti generali, a celebri predicatori, lo zelante benefattore del suo villaggio è raramente ricompensato, ed alla sua morte neppure una pietra ricorda alla posterità i tentativi incessanti da lui fatti per introdurre qualche utile innovazione nel suo paesello, e qualche po’ di luce nelle menti più scure.» Quindi egli ricorda soventi i nomi di questi uomini valorosi che dedicano intiera la loro esistenza al bene delle alte valli e sono lieti di porsi a disposizione anche degli alpinisti, quando per avventura passano in quei paesi dimenticati.

E questo suo amore pei montanari lo porta ad interessarsi in modo speciale delle guide, i compagni, gli amici degli alpinisti. Egli vorrebbe vederle organizzate ed istruite, ed è perciò che nel 1870, durante una gita da lui fatta a Valtournanche coll’Abate Gorret, le raduna, cerca convincerle e se pure non può dirsi che quel giorno sia riuscito nel suo intento, riuscì certo a far comprendere quanto fossero giuste le sue parole, che in epoca non lontana portarono poi benefici frutti.

Pubblicò a tal fine un opuscolo, che fece distribuire in buon numero di copie ai valligiani di Aosta, col titolo: Observations aux guides des vallées Italiennes, pieno di buone norme, di utilissimi consigli. In modo piano e semplice, come era uso parlare, in esso spiega come devono condursi coi viaggiatori, quali sono i modi da usarsi durante le gite e nelle stazioni alpine, e fa loro comprendere quanto sia grande la responsabilità della guida, ai cui ordini devono rimanere intiere comitive, e come sia necessaria molta abnegazione, perseveranza, pazienza, sangue freddo e coraggio a tutta prova, cuore e mente capace di sostenere tanto peso. E siccome non è facile trovare tali doti tutte riunite nel medesimo individuo, Egli vorrebbe saggiamente che le guide fossero divise in due categorie, quelle di prim’ordine, per le grandi ascensioni e quelle per le passeggiate ed escursioni minori.

Per ingentilire alquanto questi uomini, vagheggiava una scuola da istituirsi nei principali centri, che valesse ad infondere loro un po’ di coltura e più di tutto quel sentimento del dovere, del sacrifizio, che dovrebbe assolutamente essere condizione «sine qua non» per ogni guida.

Rigorosamente classificate, senza riguardi o di regione o di meschine raccomandazioni, allo stesso modo che gli alpinisti si radunano a congresso, avrebbe voluto che il Club mentre non è ancora in grado di creare scuole speciali, avesse radunate le guide migliori a fraterno banchetto, almeno una volta all’anno, in questo od in quel centro alpino, onde si conoscessero, avessero modo di scambiarsi le loro idee, ed in tale occasione con un discorso od una conferenza, si fosse svolto qualche argomento di non dubbia utilità attinente al loro mestiere. Riteneva questo un modo buono e pratico per incoraggiare questi bravi uomini che tanto hanno contribuito a farci conoscere le nostre montagne, ed un’occasione, aumentandone le cognizioni, di porli in grado di rendere maggiori servizi alla causa dell’alpinismo.

E quest’iniziativa, era solito dire, dovrebbero prenderla le principali Sezioni del Club, nei cui distretti od in quelli limitrofi si trovano buone guide, poichè questa specie di premio servirebbe di esempio a tutte e sarebbe mezzo efficace per svegliare e cementare nei montanari italiani sani sentimenti di simpatia.

Fra le numerose opere ch’Egli avrebbe voluto presto attuate, teneva pure un primo posto quella del rimboschimento, perchè era convinto che le foreste sono quelle che in giorno non lontano dovrebbero aiutare la nostra rigenerazione finanziaria. Scrisse su tale argomento numerosi articoli, ma le nostre pubblicazioni non essendo a sufficienza estese, ne pubblicò gran numero anche sui periodici delle alte valli. Nel 1869 istituiva un premio di Lire 500 per quel comune che primo avesse rimboschito buon tratto di terreno ed altri ne diede privatamente ed ai Comizi agrari, destinati a premiare quei contadini che presso alle loro alpi avessero piantato, in un dato periodo d’anni, maggior numero d’alberi.

Poi, convinto che se i premi erano d’aiuto non potevano considerarsi incentivo sufficiente quando manca l’amore a sì benefica impresa, aveva ideato di fondare, come già fecero altre nazioni, una «Società degli amici degli alberi» che avesse còmpito speciale d’instillare l’amore delle piante nei fanciulli, avrebbe voluto ripetere quanto in America diede sì splendidi risultati, portando quelle popolazioni a stabilire addirittura un giorno festivo dedicato alle piante (The arbor day).

Durante le sue gite ciò che lo accorava era di vedere quelle sterili distese di terreno ove il pascolo era libero, ove ognuno estirpava le poche piante ancor esistenti, e non cessava dal dire che il Governo avrebbe dovuto intervenire con energiche disposizioni, onde impedire tanto danno e che tutto fosse distrutto mentre ancora poteva porsi riparo.

Nell’Appennino Toscano la sua propaganda ebbe felici risultati ed egli lo constatò con piacere nel suo discorso alla festa alpestre nella Garfagnana in occasione dell’inaugurazione d’un saggio di rimboschimento. Informò allora gl’intervenuti come i giornali esteri avessero lodato quanto da noi si andava facendo, ricordando specialmente un articolo del barone Von Raesfeldt, direttore forestale della Baviera, pubblicato sulle «Mittheilungen» del Club Tedesco-Austriaco (aprile 1882) nel quale, si faceva «lusinghiera menzione dei nomi di patriotti italiani che hanno eseguite piantagioni estese e non venne dimenticato il comune di Castiglione di Garfagnana per l’iniziativa presa del saggio di rimboschimento agli Spondoni (terreno comunale), esprimendo la viva speranza che altri comuni d’Italia siti in montagna, non avessero a tardare nel seguire l’ottimo esempio». Aggiungeva che coloro i quali hanno percorso le Alpi e l’Appennino sanno quanto vi è ancora da fare in materia di rimboschimento, di piscicoltura, di piccole industrie, di tutto ciò che è atto ad attirare i viaggiatori ed augurava con calorose parole che questi esempi, dati da benemeriti comuni e dalle Sezioni del C. A. I., creassero in Italia un’opinione pubblica favorevole al rimboschimento, perchè in allora invece di scritti, di conferenze e di altri mezzi di propaganda, si vedrebbero eseguire piantagioni in tutti i punti della penisola, e le nude e sterili montagne, ora soggiorno di popolazioni miserabili, diventerebbero paesi ben coltivati, prosperi, difesi dalle inondazioni e dalle frane.

A lui non isfuggivano mai le occasioni per sospingerci in quest’opera, ed allo stesso modo che le terribili inondazioni del 1868 e degli anni successivi gli diedero motivo di dimostrarci nei suoi scritti come tanta sciagura sarebbe stata risparmiata o almeno di gran lunga ridotta se folte foreste avessero coperte quelle immense distese di terreno, brulle affatto, il dono fatto alla Sezione di Torino, da un suo socio, di alcune fotografie della «Yosemite Valley», gli offrì campo per descriverci quella vasta regione, lunga 15 miglia inglesi, che nel 1864 gli Stati Uniti d’America donavano alla California perchè ne facesse un parco nazionale che oggidì è coperto da enormi alberi, ammirazione dei visitatori di quelle contrade.

E non soltanto alle piante d’alto fusto Egli rivolgeva le sue cure, ma anche alla sfavillante flora montana, agli edelweiss, a quella miriade di variopinte pianticelle che minacciano sparire dalle nostre Alpi. Anche per esse Egli prese la penna in mano e convinto che l’infondere nelle persone più rozze, che soventi si lasciano trascinare dalla brutale manìa della distruzione, un sentimento di rispetto verso le opere della natura è un mezzo indiretto d’educazione del popolo, scrisse sulla protezione delle piante. C’informò come in Inghilterra tale propaganda abbia fatta molta strada e siccome buon numero di queste fragili e graziose piante alpine sono ormai sparite da diverse località delle Alpi Italiane, lasciando nude le roccie, fece voti che molti animi bennati alzino la voce in favore dei poveri fiorellini che danno ancora un sentimento di poesia ai luoghi perduti fra il ghiaccio e la neve e che la stampa italiana appoggi con simpatia gli sforzi fatti dal C. A. I. per salvare dalla totale distruzione questo ornamento naturale delle patrie montagne.

E siccome altrove sono sorti giardini d’acclimatazione per la flora alpina, ci sospingeva ad aiutare quei volonterosi che anche da noi si sono posti per quella via e ad un pranzo che in suo onore diede la Sezione di Torino al Monte dei Cappuccini, ricordando quanto l’amico suo abate Chanoux faceva per l’impianto d’uno di questi giardini al Piccolo S. Bernardo c’invitava a concorrere coll’obolo nostro in aiuto di quell’uomo benemerito.

Dopo aver predicato il rimboschimento, si dedicò pure ai torrenti, ai fiumi, a cui Egli pensava, anche durante le brevi assenze dal nostro paese, e così nell’agosto del 1870 scriveva da Londra a Bartolomeo Gastaldi riguardo alla piscicoltura alpina, molto trascurata in quei tempi in Italia, mentre in Germania ed in Francia riusciva fonte non disprezzabile di ricchezza. Invitava quindi il Club Alpino a continuare sulle sue pubblicazioni la maggior propaganda possibile onde invogliare i privati, uniti in associazione, ed i comuni, a far qualcosa essi pure, usufruendo dei laghi alpini a proposito dei quali disse sarebbe il caso di studiare se mediante speciali sbarramenti non si potrebbero utilizzare le loro acque, formando canali economici, per l’irrigazione dei fianchi dei monti ed anche degli altipiani, rendendo fertili col tempo molte regioni, ora sterili solo per mancanza d’acqua, adottando il sistema di coltivazione a terrazze, dal quale si ottennero successi molto soddisfacenti in certe parti dell’India.

Per risvegliare nei soci del Club il desiderio di occuparsi di questa vera industria, nel 1883 pubblicò un opuscolo ove tratta di tale materia. Fatta un po’ di storia fin dagli antichi tempi, cita quanto si è già tentato da noi e quanto si è ottenuto in Svizzera, in Ungheria, in Scozia, ove si spesero somme ingentissime. Dà le norme principali per l’allevamento ed interessanti ed utili notizie sulle trote, e conchiude esprimendo la speranza che «allo stesso modo che nel C. A. I. si sono trovati valenti e coraggiosi giovani, veri campioni del rimboschimento, delle piccole industrie di montagna, del miglioramento degli alberghi e dei rifugi alpini, i quali consacrano il loro tempo ad appoggiare questi utili rami dell’alpinismo, non dubito che altri volonterosi sorgeranno e cercheranno di fondare piccoli stabilimenti di piscicoltura nelle patrie montagne. In questa lotta pacifica per vincere l’apatia e la noncuranza degli alpigiani, gli alpinisti veterani a barba grigia possono anche portare il loro contributo di lavoro e d’intelligente cooperazione e se si lagnano di non essere più in gamba per intraprendere, come le altre volte, ascensioni in montagna, si trovano almeno in istato di promuovere utili iniziative in fondo delle vallate». Perchè per «incivilire le regioni di montagna si esigono cuore, tempo, e sopratutto una perseveranza indomabile, e queste sono qualità che non dovrebbero mancare agli alpinisti italiani, e le loro conquiste in fatto di rimboschimento, d’industrie alpine, di piscicoltura in montagna, più di quelle dei picchi più ardui lascieranno certamente utili risultati per le future generazioni». Finisce dicendo che spera che il suo scritto sarà sprone ad altri a meglio popolarizzare questa industria e dare mezzo di vivere a molti onesti alpigiani che si trovano costretti ad emigrare per mancanza di mezzi d’esistenza.

È questa loro misera esistenza, che tutto lo commuove e porta a farsi paladino delle scuole di piccole industrie in montagna. Dopo averne predicata l’utilità e svolte proposte presso la Sezione di Firenze, dopo aver dati consigli e parole d’incoraggiamento alla Sezione di Vicenza, nel gennaio 1882 intervenne all’adunanza della Sezione Romana, ed ivi, parlato in favore della sua idea, disse essere opportuno d’invitare la Sede Centrale a tenere in occasione del Congresso Alpino internazionale del 1884 un’esposizione di oggetti d’industrie montanine, onde si potesse vedere quel poco che già da noi si produceva e quanto restasse ancora da fare di fronte allo sviluppo che esse hanno preso in Austria ed in Svizzera.

Lo spaventano le lunghe giornate d’ozio cui sono condannati gli abitanti delle alte valli per i mesi nei quali dura l’inverno, mentre insegnando loro un po’ di disegno, di plastica, d’intaglio in legno, si potrà facilmente procurare loro occupazione e guadagno. Scrisse quindi molto attorno a tale soggetto, ed in uno dei vari articoli faceva appello alle signore e signorine frequentatrici della montagna affinchè dedicassero qualche ora durante i mesi di permanenza negli alti villaggi ad insegnare alle ragazze più intelligenti a costrurre cornicette per fotografie, a far pizzi, ad applicare fiori disseccati su piccoli cartoncini, ed eseguire tutti quei piccoli ninnoli che a loro servono a far passare le ore di noia, onde aiutare il sorgere, anche da noi, dell’industria dei cosidetti ricordi per touriste, tanto in fiore e proficua in altre contrade alpine.

Attratta l’attenzione degli amanti della montagna in favore di quelle buone ed oneste popolazioni, data una spinta alle piccole industrie, credè opportuno parlar anche dell’apicoltura in montagna, poco costosa e rimunerativa se razionalmente coltivata e che potrebbe diventare fonte maggiore di guadagno fra gli abitatori dei monti e specialmente per quelli che dimorano vicino a foreste che consiglia di «provare a stabilire società d’apicoltura sul genere delle latterie sociali, le quali hanno avuta una così bella riuscita nelle Alpi».

Il desiderio del bene, del progresso, lo spinge sempre a nuove proposte tutte utili e fonte di benessere avvenire. Quindi non si contenta di vedere quelle brulle pendici, ora aride e bruciate dal sole, coprirsi di alberi fronzuti, solcate da freschi rivi, abitate da popolazioni industriose, agiate, ma vuol pure che su quel verde manto sorgano alberghi alpini, all’ombra di alte conifere, onde favorire da noi sempre più, quella tendenza al monte, che per lui rappresentava il mezzo più giusto e sicuro per ottenere tempre gagliarde, caratteri forti, e per attrarre d’oltr’alpe numerosi stranieri che ora cercano svago e salute in altri paesi.

Incoraggiò quindi moralmente e materialmente molti di coloro che si accinsero a tale impresa e, non contento di recarsi personalmente sul sito a dar consigli, pubblicava uno scritto (Osservazioni agli albergatori delle valli Italiane) nel quale sono riassunte molte saggie e pratiche norme che oggi ancora dovrebbero essere lette dagli albergatori alpini.

Li invitava a costrurre da principio soltanto dei piccoli châlets, chè ai grandi fabbricati avrebbero pensato poi, ma voleva camerette pulite, urbanità di modi, prezzi miti e possibilmente una tariffa unica, onde il viaggiatore sapesse sempre quanto doveva spendere e non si esponesse ad aver questioni alla partenza. «Abbiate cura—diceva Egli—dei vostri alberghi, e gli stranieri d’ogni nazione in gran numero verranno a voi, porteranno il benessere nella popolazione e se saranno ben trattati, lascieranno con rincrescimento le vostre belle montagne, colla promessa di ritornarvi l’anno dopo. Abbandonate ogni idea d’isolamento, d’egoismo, di gelosia ed anche di concorrenza; un solo pensiero vi animi, quello di ricevere e trattar bene i viaggiatori. A tale scopo dovreste radunarvi una volta all’anno, discutere insieme i vostri interessi comuni, i modi di approvvigionare i vostri alberghi, specialmente quelli che hanno comunicazioni difficili.»

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