Kitobni o'qish: «Un Compito Di Valore », sahifa 2
Anche Dross era morto, una spada dell’Impero conficcata nel cuore.
Dei tre fratelli l’unico rimasto vivo era Drake. Giaceva a terra gemente, ferito allo stomaco da un pugnale. Thor gli si avvicinò, mentre Reece, O’Connor ed Elden lo tiravano in piedi tra lamenti di dolore.
Drake fece loro una smorfia, in stato di non completa coscienza a causa del dolore lancinante.
“Avresti dovuto ucciderci dall’inizio,” disse Drake, il sangue che gli colava dalla bocca, tossendo. “Sei sempre stato troppo ingenuo. Troppo stupido.”
Thor si sentì arrossire, più furioso con se stesso che altro, sapendo che il ragazzo diceva la verità. Era in collera soprattutto perché la sua ingenuità aveva avuto come risultato la morte di Conval.
“Te lo chiederò solo una volta,” disse furente a Drake. “Rispondimi sinceramente e ti lasceremo vivere. Menti, e seguirai i tuoi fratelli. A te la scelta.”
Drake tossì diverse volte.
“Dov’è la Spada?” gli chiese. “La verità questa volta.”
Drake continuò a tossire, poi riuscì finalmente a sollevare la testa. Incontrò lo sguardo di Thor e i suoi occhi si riempirono di odio.
“Neversink,” rispose infine Drake.
Thor guardò gli altri, che ricambiarono tutti il suo sguardo, confusi.
“Neversink?” chiese.
“È un lago senza fondo,” si intromise Indra, facendo un passo avanti. “Al limitare del Grande Deserto. È un lago dall’infinita profondità.”
Thor scosse la testa.
“Perché?” chiese a Drake.
Drake tossì, sempre più debole.
“Ordini di Gareth,” rispose. “La voleva al sicuro in un posto da cui non sarebbe mai più tornata.”
“Ma per quale motivo?” insistette Thor, confuso. “Perché distruggere la Spada?”
Drake sollevò la testa e incontrò i suoi occhi.
“Se non era riuscito a sollevarla lui,” disse, “allora non poteva sollevarla nessun altro.”
Thor lo guardò a lungo e duramente, e alla fine fu soddisfatto perché stava dicendo la verità.
“Allora abbiamo poco tempo,” disse Thor, preparandosi a partire.
Drake scosse la testa.
“Non arriverete mai lì in tempo,” disse Drake. “Sono giorni avanti. La Spada è già perduta per sempre. Arrendetevi e tornate all’Anello, risparmiatevi.”
Thor scosse la testa.
“Non la pensiamo come te,” rispose. “Noi non viviamo per avere le nostre vite salve. Noi viviamo per il valore, per il nostro codice. E andremo ovunque esso ci porti.”
“Vedi bene fino a dove ti ha portato il tuo valore adesso,” disse Drake. “Anche con il tuo valore, sei uno stupido, proprio come tutti gli altri. Il valore non ha alcun senso.”
Thor fece una smorfia. Non poteva credere di essere cresciuto e aver trascorso la sua infanzia con una tale creatura.
Le nocche gli divennero bianche mentre stringeva l’elsa della spada, bramoso più che mai di ucciderlo. Gli occhi di Drake seguirono la sua mano.
“Fallo,” gli disse. “Uccidimi. Fallo una volta per tutte.”
Thor lo fissò a lungo con rabbia, desideroso di farlo sul serio. Ma gli aveva dato la sua parola che se avesse detto la verità non lo avrebbe ucciso. E Thor manteneva sempre la sua parola.
“Non lo farò,” gli disse alla fine. “Per quanto tu te lo meriti. Non morirai per mano mia, perché altrimenti dovrei abbassarmi al tuo livello.”
Quando Thor stava per voltarsi e andarsene, Conven corse verso di loro strillando:
“Per mio fratello!”
Prima che chiunque potesse reagire, Conven sollevò la sua spada e la conficcò nel cuore di Drake. Gli occhi di Conven erano infuocati di pazzia e di dolore mentre sorreggeva Drake in un abbraccio di morte e guardava poi il suo corpo afflosciarsi al suolo, morto.
Thor abbassò lo sguardo e capì che la morte sarebbe stata una magra consolazione per la perdita di Conval. Una perdita per tutti loro. Ma almeno era qualcosa.
Thor sollevò lo sguardo osservando la vasta distesa di deserto davanti a loro e seppe che la Spada era là fuori da qualche parte, oltre i suoi confini. Proprio quando pensava che il loro viaggio fosse giunto al termine, si rese conto che non era neppure cominciato.
CAPITOLO TRE
Erec sedeva tra i cavalieri nella sala delle armi del duca, all’interno del castello, al sicuro all’interno dei cancelli di Savaria. Erano tutti feriti e ammaccati dopo l’incontro con quei mostri. Accanto a lui sedeva l’amico Brandt che si teneva la testa tra le mani, come molti degli altri. L’umore nella stanza era piuttosto cupo.
Lo sentiva anche Erec. Ogni muscolo del suo corpo doleva per la battaglia del giorno contro gli uomini del signorotto prima, e contro quei mostri dopo. Era stato uno dei più duri giorni di battaglia che potesse ricordare e il duca aveva perso moltissimi dei suoi uomini. Mentre rifletteva, Erec si rese conto che se non fosse stato per Alistair lui, Brandt e gli altri ora sarebbero morti.
Le era immensamente grato e la amava ancor di più, con rinnovato slancio. Era anche incuriosito da lei più che mai. Aveva sempre percepito che era un essere speciale, potente. Ma gli eventi di quel giorno gliene avevano dato la prova. Sentiva un cocente desiderio di sapere più di lei, del suo segreto e delle sue origini. Ma le aveva giurato di non intromettersi e lui manteneva sempre la parola data.
Erec non vedeva l’ora che quella riunione fosse terminata, così da poterla vedere.
I cavalieri del duca erano seduti lì da ore, cercando di riprendersi, di capire ciò che era successo e di discutere su cosa fosse opportuno fare come prossima mossa. Lo Scudo era inattivo ed Erec stava ancora analizzando le possibili conseguenze. Significava che Savaria era ora soggetta all’attacco; peggio ancora, i messaggeri erano accorsi con la notizia dell’invasione di Andronico, di ciò che era successo alla Corte del Re e a Silesia. Il cuore di Erec gli sprofondò nel petto. Avrebbe voluto essere con i suoi fratelli dell’Argento per poter difendere le città della sua patria. E invece era lì, a Savaria, dove il fato lo aveva collocato. Ora c’era bisogno di lui in quel luogo: la città e il popolo del duca erano dopotutto una zona strategica del regno di MacGil e avevano bisogno di difesa anche loro.
Ma con i nuovi rapporti appena giunti di un nuovo battaglione spedito lì da Andronico, all’attacco di Savaria, Erec sapeva che il suo esercito da un milione di uomini si sarebbe presto sparpagliato in ogni angolo dell’Anello. Un volta terminato, Andronico non avrebbe lasciato nulla. Erec aveva udito storie di conquiste di Andronico in tutta la sua vita e sapeva che era un uomo crudele senza eguali. Per la semplice regola dei numeri le poche centinaia di uomini del duca non sarebbero state di alcun aiuto contro di loro. Savaria era una città spacciata.
“Io dico di arrenderci,” disse un consigliere del duca, un vecchio guerriero brizzolato che sedeva fiaccamente accanto a un lungo tavolo rettangolare, perso in un boccale di birra, sbattendo il suo guanto di ferro sul ripiano di legno. Tutti gli altri soldati si ammutolirono e lo guardarono.
“Che scelta abbiamo?” aggiunse. “Siamo poche centinaia contro un milione dei suoi uomini.”
“Forse potremmo difenderci, almeno mantenere la città,” disse un altro soldato.
“Ma per quanto?” chiese un altro ancora.
“Abbastanza perché MacGil mandi rinforzi, se riusciamo a resistere abbastanza a lungo.”
“MacGil è morto,” disse un altro guerriero. “Non verrà nessuno ad aiutarci.”
“Ma sua figlia è viva,” si intromise un altro. “E anche i suoi uomini lo sono. Non ci abbandonerebbero mai qui!”
“Ma se possono a malapena difendere se stessi!” protestò un altro.
Gli uomini eruppero in un agitato chiacchiericcio, tutti discutendo tra loro, parlando a voce alta e camminando per la stanza.
Erec guardava la scena, seduto, e si sentiva svuotato. Era giunto un messaggero, solo poche ore prima, portando la spaventosa notizia dell’invasione di Andronico e anche – per Erec la notizia ancora peggiore – che MacGil era stato assassinato. Erec era stato talmente tanto tempo lontano dalla Corte del Re, che la notizia lo aveva raggiunto solo ora: quando la udì si sentì come se un pugnale gli fosse stato conficcato nel cuore. Aveva amato MacGil come un padre e la sua perdita lo faceva sentire indicibilmente vuoto.
La stanza si acquietò e il duca si schiarì la voce, mentre tutti gli occhi si voltavano verso di lui.
“Possiamo difendere la nostra città contro un attacco,” disse lentamente. “Con le nostre capacità e la forza delle nostre mura possiamo contenere un esercito cinque volte più grande del nostro, forse anche dieci volte più grande. E abbiamo scorte a sufficienza per sopportare un assedio di settimane. Contro qualsiasi normale esercito, vinceremmo.”
Sospirò.
“Ma l’Impero non detiene un esercito normale,” aggiunse. “Non siamo in grado di difenderci contro un milione di uomini. Sarebbe inutile.”
Fece una pausa.
“Ma lo sarebbe anche arrendersi. Sappiamo tutti ciò che Andronico fa alle sue prede. Mi è chiaro che moriremmo in ogni caso. La questione è se morire in piedi o seduti. Io dico di morire in piedi!”
Nella stanza si levò un grido di approvazione. Erec non sarebbe potuto essere più d’accordo.
“Quindi non ci resta altro corso d’azione da seguire,” continuò il duca. “Difenderemo Savaria. Non ci arrenderemo mai. Probabilmente moriremo, ma lo faremo tutti insieme.”
Calò un denso silenzio e tutti annuirono l’un l’altro, gravemente. Sembrava che stessero tutti cercando un’altra soluzione.
“C’è un altro modo,” disse infine Erec, prendendo la parola.
Sentì che tutti gli occhi si voltavano verso di lui e lo fissavano.
Il duca gli rivolse un cenno di assenso, spronandolo ad andare avanti.
“Possiamo attaccare,” disse Erec.
“Attaccare’” risposero i soldati sorpresi. “Le poche centinaia dei nostri uomini, attaccare un milione di soldati? Erec, sappiamo che sei un temerario. Ma sei pazzo?”
Erec scosse la testa, completamente serio.
“Quello che non considerate è che gli uomini di Andronico non si aspetterebbero mai un attacco. Ci guadagneremmo nell’elemento sorpresa. Come dite, stare qui a difenderci ci porterebbe a morte certa. Se attaccassimo, potremmo annientare un sacco di uomini. Cosa ancora più importante, se attacchiamo nel modo giusto, e nel posto giusto, potremmo fare ben più che tenerli a bada, potremmo addirittura vincere.”
“Vincere?!” gridarono tutti, guardando Erec con assoluto stupore.
“Cosa intendi dire?” chiese il duca.
“Andronico si aspetterà di trovarci qui, pronti ad arretrare e difendere la nostra città,” spiegò Erec. “I suoi uomini non si aspettano di trovarci appostati in un qualche posto di blocco a caso fuori dalle mura della città. Qui nella città abbiamo il vantaggio delle mura forti, ma là fuori, nel campo di battaglia, abbiamo il vantaggio della sorpresa. E la sorpresa è sempre più efficace della forza. Se riusciamo a creare un luogo di congestione naturale, possiamo incanalarli tutti in un medesimo posto da dove possiamo attaccarli. Mi sto riferendo alla Gola Orientale.”
“La Gola Orientale?” chiese un soldato.
Erec annuì.
È un ripido crepaccio tra due pareti di roccia, l’unico passaggio scavato tra i Monti di Cavonia, a una giornata buona di viaggio da qui. Se gli uomini di Andronico vengono verso di noi, la via più diretta è attraverso la gola. Altrimenti dovrebbero scalare le montagne. La strada dal nord è troppo stretta e troppo fangosa in questo periodo dell’anno, perderebbero settimane. E da sud dovrebbe oltrepassare il Fiume Fiordo.”
Il duca guardò Erec con ammirazione, strofinandosi la barba pensieroso.
“Può darsi che tu abbia ragione. È possibile che Andronico faccia passare i suoi uomini attraverso al gola. Per qualsiasi altro esercito sarebbe un atto di suprema supponenza. Ma per lui, con un milione di uomini, può veramente essere che lo faccia.”
Erec annuì.
“Se riusciamo ad arrivare lì, se li battiamo sul tempo, possiamo sorprenderli e tendere loro un’imboscata. Con una tale posizione, pochi possono tenerne a bada migliaia.”
Tutti gli altri soldati guardarono Erec con sguardi pieni di speranza e rispetto, mentre nella stanza calava un denso silenzio.
“Un piano coraggioso, amico,” disse il duca. “Ma ripeto, tu sei un guerriero coraggioso. Lo sei sempre stato.” Il duca fece un cenno a un servitore. “Portami una mappa!”
Un ragazzo uscì di corsa dalla stanza e tornò da un’altra porta reggendo un grande rotolo di pergamena. La srotolò sul tavolo e i soldati si riunirono attorno per studiarla.
Erec allungò una mano e indicò Savaria sulla mappa, poi tracciò una linea con il dito, a est, fermandosi sulla Gola Orientale. Un crepaccio stretto, circondato da montagne che si estendevano a perdita d’occhio.
“È perfetto,” disse un soldato.
Gli altri annuirono, strofinandosi le barbe.
“Ho sentito storie di poche decine di uomini tenere a bada migliaia di nemici nella gola,” disse un soldato.
“È una vecchia storiella, una favola,” disse un altro, scetticamente. “Certo, avremo a favore l’elemento sorpresa. Ma cos’altro? Non avremo la protezione delle mura.”
“Avremo la protezione di pareti naturali,” rispose un altro. “Quelle montagne sono metri e metri di solida roccia.”
“Niente è sicuro,” aggiunse Erec. “Come ha detto il duca, o moriamo qui o moriamo là fuori. Io dico di morire là fuori. La vittoria va ai coraggiosi.”
Il duca, dopo un lungo momento di riflessione, annuì e arrotolò di nuovo la mappa.
“Preparate le armi!” gridò. “Partiamo stanotte!”
*
Erec, vestito di tutto punto con l’armatura, la spada attaccata alla cintura, percorreva il corridoio del castello del duca, nella direzione opposta a quella degli altri uomini. Aveva un compito importante prima di partire per quella che poteva essere la sua ultima battaglia.
Doveva vedere Alistair.
Da quando erano tornati dall’ultimo scontro, Alistair aveva aspettato nel castello, in fondo al corridoio nella sua camera personale, attendendo che Erec andasse da lei. Era in attesa di un felice incontro, e ad Erec si spezzò il cuore quando si rese conto che le stava portando la notizia di una nuova partenza. Provava un certo senso di pace almeno sapendo che lei sarebbe stata lì al sicuro, all’interno delle mura della città, e si sentì più determinato che mai a tenerla in salvo, a contenere l’Impero. Le faceva male il cuore all’idea di lasciarla: non avrebbe voluto niente di più che trascorrere del tempo con lei dopo il loro giuramento di matrimonio. Ma sembrava non dovesse andare così.
Quando Erec svoltò l’angolo, gli speroni tintinnanti, gli stivali riecheggianti contro il pavimento nei corridoi vuoti del castello, si preparava a dirle addio, e sapeva che sarebbe stato doloroso. Alla fine raggiunse una vecchia porta di legno e bussò delicatamente con il suo guanto di ferro.
Si udirono dei passi nella stanza e un attimo dopo la porta si aprì. Il cuore gli si gonfiò di gioia, come sempre quando vedeva Alistair. Eccola lì, sulla soglia, con i suoi biondi capelli lunghi e fluenti e i grandi occhi di cristallo che lo guardavano come fosse una visione. Ogni volta che la vedeva sembrava sempre più bella.
Erec entrò e la abbracciò e anche lei lo strinse. Lo tenne stretto a sé a lungo, non volendo lasciarlo andare. Neanche lui l’avrebbe lasciata. Desiderava più di ogni altra cosa poter chiudere la porta e rimanere lì con lei tanto quanto voleva. Ma non era possibile.
Il calore e la sensazione che gli dava il contatto con lei faceva sembrare che tutto andasse perfettamente nel mondo, ed Erec era riluttante a lasciarla andare. Alla fine si discostò e la guardò negli occhi, che stavano scintillando. Lei guardò la sua armatura e l’espressione del volto si fece seria quando si rese conto che non si sarebbe fermato.
“Te ne stai andando di nuovo, mio signore?” gli chiese.
Erec abbassò la testa.
“Non è un mio desiderio, mia signora,” le rispose. “L’Impero sta avanzando. Se rimango qui, moriremo tutti.”
“E se te ne vai?” gli chiese.
“È probabile che morirò comunque,” ammise. “Ma almeno ci sarà una probabilità per tutti noi. Una piccola probabilità, ma pur sempre una probabilità.”
Alistair si voltò e andò alla finestra, guardando il cortile del duca al tramonto del sole, il volto illuminato da una tenue luce. Erec scorse la tristezza che le segnava il viso, si avvicinò a lei e le scostò i capelli dal collo, carezzandola.
“Non essere triste, mia signora,” le disse. “Se sopravviverò a questo, tornerò da te. E poi saremo insieme, per sempre, liberi da ogni pericolo e da ogni minaccia. Liberi finalmente di vivere insieme.”
Lei scosse tristemente la testa.
“Ho paura,” disse.
“Dell’esercito che si sta avvicinando?” le chiese.
“No,” gli disse voltandosi verso di lui. “Di te.”
Erec la guardò confuso.
“Ho paura che mi guarderai diversamente adesso,” gli disse, “dopo che hai visto quello che è successo sul campo di battaglia.”
Erec scosse la testa.
“Non ti penso per niente come diversa,” le disse. “Mi hai salvato la vita e per questo ti sono grato.”
Lei scosse la testa.
“Ma hai anche visto una parte diversa di me,” disse lei. “Hai visto che non sono normale. Non sono come qualsiasi altro. Ho in me poteri che non capisco. E ora temo che tu penserai di me come una specie di mostro. Come una donna che non vuoi più come tua moglie.”
Il cuore di Erec si spezzò a quelle parole, fece un passo avanti e le prese con franchezza le mani, guardandola negli occhi con tutta la serietà che gli era possibile.
“Alistair,” le disse. “Ti amo con tutto me stesso. Non c’è mai stata donna che io abbia amato di più. E mai ci sarà. Amo tutto quello che sei. Non ti vedo diversa da chiunque altro. Qualsiasi genere di potere tu abbia, chiunque tu sia, anche se non lo capisco, ti accetto totalmente. Ti sono grato per tutto. Ho giurato di non fare domande e manterrò la parola. Non ti chiederò mai niente. Qualsiasi cosa tu sia, io lo accetto.”
Lei lo guardò a lungo, poi lentamente sorrise e gli occhi le si riempirono di lacrime di sollievo e gioia. Si voltò e lo abbracciò, stringendolo con forza e con tutta se stessa.
Gli sussurrò in un orecchio: “Torna da me.”
CAPITOLO QUATTRO
Gareth si trovava all’ingresso della grotta e guardava il tramonto del sole, in attesa. Si leccò le labbra secche e cercò di concentrarsi: gli effetti dell’oppio si stavano finalmente attenuando. Si sentiva la testa leggera ed erano giorni che non mangiava o beveva. Gareth ripensò alla rocambolesca fuga dal castello, sgattaiolando fuori attraverso il passaggio segreto dietro al caminetto, proprio prima che Lord Kultin gli tendesse l’imboscata. Sorrise. Kultin era stato furbo nel suo piano, ma Gareth lo era stato di più. Come tutti gli altri anche Kultin lo aveva sottovalutato: non si era reso conto che le spie di Gareth erano ovunque e che lui era venuto quindi a conoscenza del complotto praticamente all’istante.
Gareth era fuggito giusto in tempo, proprio prima che Kultin gli tendesse l’imboscata e che Andronico invadesse la Corte del Re radendola al suolo. Lord Kultin gli aveva fatto un favore.
Gareth aveva preso l’antico passaggio segreto per uscire dal castello, fra curve e svolte sotterranee, uscendo in superficie in mezzo alla campagna, in un remoto villaggio a miglia di distanza dalla Corte del Re. Era arrivato vicino a quella grotta ed era collassato appena l’aveva raggiunta, dormendo un giorno intero, rannicchiato e infreddolito dall’implacabile aria invernale. Avrebbe voluto essersi portato più vestiti.
Una volta sveglio, Gareth si era accucciato spiando, in distanza, il piccolo villaggio di agricoltori: c’erano una manciata di casupole, il fumo si levava dai camini, e ovunque c’erano soldati di Andronico che marciavano attraverso il villaggio e in mezzo alla campagna. Gareth aveva atteso pazientemente fino a che erano scomparsi. Lo stomaco gli faceva male per la fame e sapeva di aver bisogno di raggiungere una di quelle case. Sentiva l’odore del cibo che si stava cucinando anche da lì.
Partì di corsa dalla grotta, guardando da tutte le parti mentre avanzava, respirando affannosamente, oppresso dalla paura. Erano anni che non correva e ora rantolava per lo sforzo: questo gli faceva capire quanto magro e malaticcio era diventato. La ferita alla testa, dove sua madre lo aveva colpito con il busto di marmo, pulsava. Se fosse sopravvissuto a tutto questo, giurò che l’avrebbe uccisa con le sue mani.
Gareth corse nella città, sfuggendo fortunatamente gli sguardi dei pochi soldati dell’Impero che gli davano le spalle. Si diresse rapidamente verso la prima casa che vide, una semplice dimora con un’unica stanza, proprio come le altre: un caldo bagliore proveniva dall’interno. Vide una ragazza, forse della sua età, oltrepassare la porta aperta con un pezzo di carne, sorridendo, accompagnata da una bambina, probabilmente la sorellina di forse dieci anni. Decise che quello era il posto giusto.
Gareth attraversò di scatto l’uscio insieme a loro, seguendole e sbattendo la porta alle loro spalle, afferrando la ragazzina più giovane da dietro e tenendole un braccio attorno alla gola. La bambina gridò e la sorella maggiore lasciò cadere il piatto di cibo mentre Gareth estraeva un pugnale e lo puntava alla gola del suo ostaggio.
Lei gridò e si mise a piangere.
“PAPÀ!”
Gareth si voltò e si guardò attorno nell’accogliente casetta, illuminata da candele e inondata dal profumo di cibo e vide, accanto alla ragazza più grande, madre e padre in piedi vicino a un tavolo, fissi a guardarlo con gli occhi colmi di paura e rabbia.
“State indietro e non la ucciderò!” gridò Gareth, disperato, allontanandosi da loro e tenendo sempre stretta la bambina.
“Chi sei?” chiese la ragazza più grande. “Io mi chiamo Sarka. Mia sorella è Larka. Siamo una famiglia pacifica. Cosa vuoi da mia sorella? Lasciala stare!”
“Io so chi sei,” disse il padre strizzando gli occhi e guardandolo con disapprovazione. “Eri il precedente re. Il figlio di MacGil.”
“Sono ancora il re,” gridò Gareth. “E voi siete miei sudditi. E farete quello che dico!”
L’uomo lo guardò con espressione accigliata.
“Se sei il re, dov’è il tuo esercito?” gli chiese. “E se sei il re, che interesse hai a prendere in ostaggio una bambina piccola e innocente, usando un pugnale di corte? Magari lo stesso pugnale che hai usato per uccidere tuo padre?” disse l’uomo sogghignando. “Ho sentito cosa si racconta.”
“Hai la lingua lunga,” disse Gareth. “Continua a parlare e ucciderò la tua figlioletta.”
Il padre deglutì e gli occhi gli si allargarono per la paura. Poi tacque.
“Cosa vuoi da noi?” chiese la madre piangendo.
“Cibo,” disse Gareth. “E riparo. Avvisate i soldati della mia presenza e vi prometto che la ucciderò. Niente scherzi, chiaro? Lasciatemi stare e lei vivrà. Voglio trascorrere la notte qui. Tu, Sarka, portami un piatto di carne. E tu, donna, attizza il fuoco e dammi un mantello da buttarmi sulle spalle. Muovetevi lentamente!” li allertò.
Gareth vide il padre fare un cenno di assenso alla donna. Sarka raccolse della carne mettendola sul piatto, mentre la madre si avvicinava con uno spesso mantello e glielo posava sulla spalle. Gareth, ancora tremante, arretrò lentamente verso il fuoco lasciando che il fuoco scoppiettante gli scaldasse la schiena, e si sedette sul pavimento, tenendo con sicurezza Larka, che stava ancora piangendo. Sarka si avvicinò con il piatto.
“Mettilo sul pavimento vicino a me!” le ordinò Gareth. “Lentamente!”
Accigliata, Sarka ubbidì, guardando la sorellina con preoccupazione e sbattendo il piatto a terra.
Gareth fu sopraffatto dal profumo del cibo. Allungò la mano libera e afferrò un pezzo di carne, sempre tenendo il pugnale puntato contro la gola di Larka. Masticò ripetutamente, chiudendo gli occhi e gustandosi ogni singolo boccone. Masticava e deglutiva con foga e il cibo quasi gli usciva dalla bocca.
“Vino!” gridò.
La madre gli portò un otre di vino e Gareth se lo spremette nella bocca piena, svuotandolo completamente. Fece un respiro profondo, masticò e bevve ancora e iniziò a sentirsi finalmente di nuovo in forma.
“Ora lasciala andare!” disse il padre.
“Non se ne parla,” rispose Gareth. “Dormirò qui questa notte, così, con lei tra le braccia. Sarà al sicuro, fino a che lo sarò io. Vuoi essere un eroe? O vuoi avere la tua bambina sana e salva?”
I membri della famiglia si guardarono tra loro, senza parole, esitanti.
“Posso farti una domanda?” gli chiese Sarka. “Se sei un re tanto bravo, perché mai tratti i tuoi sudditi in questo modo?”
Gareth la guardò, confuso, poi buttò la testa indietro e rise fragorosamente.
“Chi ha mai detto che sono un bravo re?”