Kitobni o'qish: «Tramutata »
tramutata
(libro #1 in I Appunti di un Vampiro)
Morgan Rice
Traduzione italiana a cura di
Annalisa Lovat
COSA HANNO DETTO DI TRAMUTATA
“TURNED - TRAMUTATA è una storia perfetta per giovani lettori. Morgan Rice ha fatto un lavoro eccellente creando un intreccio interessante … TRAMUTATA è rinvigorente e unico, possiede i classici elementi che si ritrovano in molte storie paranormali per ragazzi. TRAMUTATA è di facile lettura, ma estremamente veloce e incalzante… Lo raccomando a chiunque ami leggere piacevoli romanzi paranormali. Classificato PG.”
--The Romance Reviews
“TRAMUTATA mi ha preso fin dall’inizio e non ho più potuto smettere…. Questa storia è un’avventura sorprendente, incalzante e piena d’azione fin dalle prime pagine. Non esistono momenti morti. Morgan Rice ha fatto un lavoro eccellente, trasportando il lettore nella storia. È inoltre riuscita a farci affezionare a Caitlin, facendoci desiderare fortemente che lei riesca a trovare la verità… Non vedo l’ora di leggere il secondo libro della serie.”
--Paranormal Romance Guild
“TRAMUTATA è una lettura dark piacevole e semplice, da poter affrontare tra un libro e l’altro, data la sua brevità… L’interesse è assicurato!”
--books-forlife.blogspot.com
"TRAMUTATA è un libro che può competere con TWILIGHT e VAMPIRE DIARIES, uno di quelli che vi vedrà desiderosi di continuare a leggere fino all’ultima pagina! Se siete tipi da avventura, amore e vampiri, questo è il libro che fa per voi!”
--Vampirebooksite.com
“Rice fa un bel lavoro nel trascinarvi nella storia fin dall’inizio, utilizzando una grande qualità descrittiva che trascende la mera colorazione d’ambiente… Ben scritto ed estremamente veloce da leggere, TRAMUTATA è un buon inizio per una nuova serie sui vampiri, con la certezza di diventare il top per lettori che cercano una storia leggera ma allo stesso tempo interessante.”
--Black Lagoon Reviews
Chi è Morgan Rice
Morgan è l’autrice della serie fantasy Bestseller L’ANELLO DELLO STREGONE, che comprende dieci libri.
Morgan Rice è l’autrice Bestseller di APPUNTI DI UN VAMPIRO, una serie per ragazzi che comprende dieci libri, è stata tradotta in sei lingue ed inizia con TRAMUTATA (Libro 1), da scaricare GRATUITAMENTE!
Morgan è anche autrice dei Bestseller ARENA ONE e ARENA TWO, i primi due libri di THE SURVIVAL TRILOGY, un thriller post-apocalittico ambientato nel futuro.
A Morgan piace ricevere i vostri commenti, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito http://www.morganricebooks.com per tenervi in contatto con lei.
Libri di Morgan Rice
L’ANELLO DELLO STREGONE
UN’IMPRESA DA EROI (Libro #1)
LA MARCIA DEI RE (Libro #2)
A FEAST OF DRAGONS (Libro #3)
A CLASH OF HONOR (Libro #4)
A VOW OF GLORY (Libro #5)
A CHARGE OF VALOR (Libro #6)
A RITE OF SWORDS (Libro ook #7)
A GRANT OF ARMS (Libro #8)
A SKY OF SPELLS (Libro #9)
A SEA OF SHIELDS (Libro #10)
THE SURVIVAL TRILOGY
ARENA ONE: SLAVERSUNNERS (Libro #1)
ARENA TWO (Libro #2)
APPUNTI DI UN VAMPIRO
TRAMUTATA (Libro #1)
AMATA (Libro #2)
BETRAYED (Libro #3)
DESTINED (Libro #4)
DESIRED (Libro #5)
BETROTHED (Libro #6)
VOWED (Libro #7)
FOUND (Libro #8)
RESURRECTED (Libro #9)
CRAVED (Libro #10)
Ascolta la serie APPUNTI DI UN VAMPIRO in formato audiolibro!
Ora disponibile su:
Copyright © 2011 by Morgan Rice
All rights reserved. Except as permitted under the U.S. Copyright Act of 1976, no part of this publication may be reproduced, distributed or transmitted in any form or by any means, or stored in a database or retrieval system, without the prior permission of the author.
This ebook is licensed for your personal enjoyment only. This ebook may not be re-sold or given away to other people. If you would like to share this book with another person, please purchase an additional copy for each recipient. If you’re reading this book and did not purchase it, or it was not purchased for your use only, then please return it and purchase your own copy. Thank you for respecting the hard work of this author.
This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.
“Che gli giovi alla salute
starsene a passeggiare seminudo,
esposto all’umidore del mattino?
Bruto è malato, e si toglie, furtivo,
dal salutare tepore del letto
per andare ad esporre le sue membra
al corrotto contagio della notte?”
--William Shakespeare, Giulio Cesare
Capitolo Uno
Capitolo Due
Capitolo Tre
Capitolo Quattro
Capitolo Cinque
Capitolo Sei
Capitolo Sette
Capitolo Otto
Capitolo Nove
Capitolo Dieci
Capitolo Undici
Capitolo Dodici
Capitolo Tredici
Capitolo Quattordici
Capitolo Quindici
Capitolo Sedici
Capitolo Diciassette
Capitolo Uno
Caitlin Paine temeva sempre il suo primo giorno in una nuova scuola. C’erano grandi cose, come incontrare nuovi amici e i nuovi insegnanti, imparare a conoscere nuovi corridoi. E c’erano piccole cose, come prendere possesso di un armadietto nuovo, sentire l’odore di un posto diverso e udirne i rumori. Quello che temeva di più erano gli sguardi. Si sentiva come se tutti, in un posto nuovo, guardassero lei. Tutto ciò che desiderava era passarte inosservata. Ma sembrava che non potesse mai succedere.
Caitlin non riusciva a capire perché tutti la notassero. Il suo metro e sessantacinque non la rendeva particolarmente alta, e i suoi capelli e occhi castani (insieme ad un peso normale) la facevano sentire nella media. Non era certo bellissima come certe altre ragazze. Aveva diciotto anni ma questo non bastava a farla emergere.
C’era qualcos’altro. C’era qualcosa di lei che faceva voltare le persone una seconda volta a guardarla. Sapeva, dentro di lei, di essere diversa. Ma non era certa di capire in che cosa.
Se c’era qualcosa di peggio del primo giorno, era cominciare il primo giorno all’inizio del secondo quadrimestre, dopo che tutti gli altri avevano già avuto il tempo di ambientarsi. Oggi era proprio quel giorno di inizio quadrimestrer, alla metà di marzo, e sarebbe stato di sicuro uno dei peggiori. Già se lo sentiva.
Nella sua più sfrenata immaginazione, però, non avrebbe mai creduto che sarebbe andata così male. Niente che avesse mai visto – e ne aveva viste tante – l’aveva preparata a questo.
Caitlin era in piedi fuori dalla sua nuova scuola, una grande scuola pubblica di New York, in quella fredda mattina di marzo, e si chiedeva Perché io? Era vestita poco, solo leggings e felpa, e neanche lontanamente preparata alla chiassosa confusione che la accolse. C’erano centinaia di ragazzi lì, che strepitavano, gridavano e si spintonavano. Sembrava il cortile di una prigione.
Era tutto troppo rumoroso. Quei ragazzi ridevano troppo forte, dicevano troppe parolacce, si spingevano con troppa forza. Avrebbe pensato che si trattasse di una zuffa di massa se non avesse colto qualche sorriso e qualche risatina canzonatoria. Avevano solo troppa energia e lei, esausta, congelata e con ore di sonno perso sulle spalle, non poteva capire da dove la prendessero. Chiuse gli occhi e sperò che tutto scomparisse.
Mise la mani in tasca e sentì qualcosa: il suo i-pod. Sì. Si mise gli auricolari e lo accese. Aveva bisogno di coprire tutto il rumore che la circondava.
Ma non successe nulla. Abbassò lo sguardo e vide che la batteria era scarica. Perfetto.
Controllò il telefono, sperando di trarne un po’ di distrazione, ma niente. Nessun nuovo messaggio.
Sollevò lo sguardo. Guardando quel mare di facce nuove si sentì sola. Non solo perché era l’unica ragazza bianca, a dire il vero era meglio così. Alcuni dei migliori amici che aveva avuto nelle altre scuole erano di colore – spagnoli, asiatici, indiani – mentre alcuni dei peggiori erano bianchi. No, non era quello il motivo. Si sentiva sola perché era in città. Era in piedi sul cemento. Una forte campanella era suonata per permettere loro l’accesso a questa “area ricreativa”, e aveva dovuto passare attraverso larghi cancelli di metallo. Ora era in gabbia, circondata da enormi cancellate sovrastate da filo spinato. Le sembrava di essere in prigione.
E il guardare quell’enorme scuola, le sbarre e le inferriate ad ogni finestra, non la faceva sentire meglio. Si adattava sempre con facilità a una nuova scuola, grande o piccola che fosse, ma quelle che aveva frequentato erano tutte scuole di periferia. Avevano tutte erba, alberi e cielo. Qui invece non c’era altro che città. Le toglieva il respiro. La terrorizzava.
Un’altra campanella risuonò forte e lei si diresse, insieme a centinaia di altri ragazzi, verso l’ingresso. Una grossa ragazza la urtò con forza e fece cadere il suo diario. Lei lo raccolse e poi sollevò lo sguardo aspettandosi delle scuse. Ma la ragazza non era più lì, essendosi già confusa con la folla. Sentì la sua risata, ma non poteva dire se fosse rivolta a lei.
Tenne stretto il diario, l’unica cosa che la rassicurava. Era stato con lei ovunque. In ogni luogo andasse ci prendeva appunti e ci faceva disegni. Era una mappa della sua infanzia.
Raggiunse infine l’ingresso e dovette schiacciarsi contro gli altri per passare attraverso alla porta. Era come entrare in un treno nell’ora di punta. Sperava di trovare un po’ di tepore una volta all’interno, ma le porte aperte alle sue spalle le facevano soffiare sulla schiena una brezza gelida, rendendo ancora più intenso il freddo.
Due grosse guardie giurate stavano all’ingresso, affiancate da due poliziotti di New York, tutti in uniforme, con le pistole ben visibili ai fianchi.
“MUOVETEVI!” ordinò uno di loro.
Non riusciva a capire perché due poliziotti armati dovessero sorvegliare l’ingresso di una scuola superiore. La sua sensazione di panico si intensificò. E la situazione peggiorò quando, sollevando lo sguardo, realizzò che sarebbe dovuta passare attraverso un metal detector, di quelli che si trovano negli aeroporti.
Altri quattro poliziotti armati si trovavano ai due lati del detector, insieme ad altre due guardie.
“SVUOTATE LE TASCHE!” disse brsucamente la guardia.
Caitlin notò che altri ragazzi riempivano dei sacchettini di plastica con ciò che avevano in tasca. Fece velocemente lo stesso anche lei, inserendo nel sacchetto il suo i-pod, il portafoglio e le chiavi.
Passò lentamente sotto il detector e l’allarme suonò.
“TU!” disse seccamente la guardia. “Di lato!”
Ovvio.
Tutti la guardavano mentre le facevano alzare le braccia e la guardia le faceva passare lo scanner manuale lungo il corpo.
“Hai addosso dei gioielli?”
Lei si passò le mani sui polsi, poi attorno al collo, e di colpo ricordò. La croce.
“Toglila,” disse rudemente la guardia.
Era la collana che sua nonna le aveva regalato prima di morire: una piccola croce d’argento, con incisa un’iscrizione latina che non aveva mai tradotto. La nonna le aveva detto che le era stata data a sua volta da sua nonna. Caitlin non era religiosa e non capiva veramente che significato avesse, ma sapeva che aveva centinaia di anni ed era per certo la cosa più preziosa che possedesse.
Caitlin la sollevò fuori dalla maglietta tenendola alta, ma senza sfilarla.
“Preferirei di no,” rispose.
La guardia la fissò con occhi freddi come il ghiaccio.
Di colpo vi fu un improvviso trambusto. Si udirono delle urla mentre un poliziotto afferrava un ragazzo alto e magro e lo spingeva contro il muro, requisendogli un coltellino dalla tasca.
La guardia si avvicinò per dare una mano e Caitlin colse l’occasione per scivolare tra la folla, portandosi verso l’atrio.
Benvenuta alla scuola pubblica di New York, pensò Caitlin. Fantastico.
Già contava i giorni che mancavano agli esami.
*
I corridoi erano i più larghi che avesse mai visto. Non poteva credere che potessero venire riempiti di gente, eppure in qualche modo erano completamente gremiti, con tutti i ragazzi ammassati spalla contro spalla. Dovevano esserci migliaia di ragazzi in quei corridoi, una marea di volti che si dispiegava all’infinito. Il rumore là dentro era ancora peggio, rimbalzava contro le pareti, condensato. Avrebbe voluto tapparsi le orecchie. Ma non c’era lo spazio neanche di un gomito per sollevare la braccia. Provava un senso di claustrofobia.
La campanella suonò e l’energia aumentò.
Già in ritardo.
Si guardò in giro alla ricerca del cartellino della sua aula e finalmente la scorse in lontananza. Tentò di attraversare il mare di corpi, ma non riusciva ad andare da nessuna parte. Alla fine, dopo diversi tentativi, capì che doveva solo essere più aggressiva. Iniziò a sgomitare e spintonare in risposta ai colpi degli altri. Sorpassando un corpo alla volta, oltrepassò tutti i ragazzi, attraverso l’ampio corridoio e spinse la pesante porta della sua classe entrando.
Si tenne forte mentre tutti la guardavano, lei, la ragazza nuova che era arrivata in ritardo. Pensava che l’insegnante l’avrebbe rimproverata per aver interrotto il silenzio. Ma si rese conto con stupore che non era proprio il caso. Quell’aula, ideale per trenta persone ma contenente una cinquantina, era stipata. Alcuni sedevano sulle sedie, altri camminavano lungo le corsie gridando e chiamandosi l’un l’altro. Era un manicomio.
La campanella era suonata da cinque minuti buoni eppure l’insegnante, tutto scompigliato e con indosso abiti spiegazzati, non aveva neanche iniziato la lezione. Anzi, stava seduto con i piedi sulla scrivania a leggere il giornale, ignorando tutti.
Caitlin gli si avvicinò mettendo la sua nuova carta d’identità sulla scrivania. Rimase lì in piedi aspettando che lui sollevasse lo sguardo, ma ciò non avvenne.
Alla fine decise di schiarirsi la voce.
“Mi scusi.”
Lui abbasso di malavoglia il giornale.
“Sono Caitlin Paine. Sono nuova. Credo di doverle consegnare questa.”
“Sono solo un supplente,” rispose lui e risollevò il giornale chiudendo il discorso.
Lei rimase lì, confusa.
“Allora,” chiese, “… lei non segna le presenze?”
“Il tuo insegnante torna lunedì,” disse seccato. “Se ne occuperà lui.”
Capendo che la conversazione era terminata, Caitlin si riprese la carta d’identità.
Si voltò e diede uno sguardo alla stanza. Il caos non si era interrotto. Se c’era un aspetto positivo, era che almeno lei non era al centro dell’attenzione. Nessuno lì sembrava curarsi di lei, né addirittura accorgersi della sua presenza.
D’altro canto, guardare quella stanza piena zeppa era esasperante: sembrava non fosse rimasto alcun posto per sedersi.
Si fece forza e, tenendo stretto il suo diario, tentò di camminare lungo una delle corsie, trasalendo un paio di volte mentre procedeva tra ragazzi turbolenti che si gridavano contro. Quando raggiunse il fondo della stanza, poté finalmente avere una visione dell’intera aula.
Non una sedia libera.
Rimase lì in piedi, sentendosi un’idiota, e percepì anche che gli altri ragazzi iniziavano a notarla. Non sapeva cosa fare. Non aveva certo intenzione di rimanere lì tutto il tempo, ma sembrava che al supplente non potesse importare di meno. Si voltò nuovamente a guardare, cercando senza speranze.
Sentì una risata provenire da un paio di corsie più in là, ed ebbe la certezza che fosse rivolta a lei. Non era vestita come quei ragazzi e non assomigliava per niente a loro. Le guance le arrossirono mentre iniziava a sentirsi veramente sotto gli occhi di tutti.
Proprio mentre si stava decidendo ad uscire dalla stanza, e forse anche dalla scuola, udì una voce.
“Qui.”
Si voltò.
Nell’ultima fila, accanto alla finestra, un ragazzo alto si alzò dal suo banco.
“Siediti,” disse. “Per favore.”
La stanza si fece un po’ più silenziosa, mentre gli altri aspettavano di vedere come lei avrebbe reagito.
Gli si avvicinò. Cercò di non guardarlo dritto negli occhi – grandi, verdi e luccicanti – ma non poté farne a meno.
Era bellissimo. Aveva pelle liscia e olivastra – non riusciva a capire se fosse nero, spagnolo, bianco, o magari una qualche combinazione – ma non aveva mai visto una pelle così liscia e soffice combinata con una mascella così ben modellata. Aveva i capelli corti e castani ed era magro. C’era qualcosa in lui, un qualcosa di completamente fuori luogo lì. Sembrava fragile. Un artista, forse.
Non era da lei rimanere colpita da un ragazzo. Aveva sempre visto le sue amiche prendere delle cotte, ma non aveva mai veramente capito. Fino ad ora.
“E tu? Dove ti siedi?” gli chiese.
Tentò di controllare la propria voce, ma non risuonò convincente. Sperò che lui non percepisse il suo nervosismo.
Le rivolse un largo sorriso, mettendo in luce denti perfetti.
“Proprio qui,” disse, e si spostò verso il largo davanzale della finestra che si trovava lì accanto.
Lei lo guardò e lui ricambiò lo sguardo con occhi completamente paralizzanti. Lei si impose di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscì.
“Grazie,” disse, e si sentì improvvisamente furiosa con se stessa.
Grazie? È tutto quello che sei capace di dire? Grazie!?
“Giusto, Barack!” gridò una voce. “Da’ il tuo posto a quella ragazza bianca così carina!”
Seguì una risata e il rumore nella stanza si impennò di nuovo, poi tutti ripresero a ignorarli.
Caitlin lo vide abbassare la testa imbarazzato.
“Barack?” chiese. “Ti chiami così?”
“No,” rispose lui arrossendo. “È solo come mi chiamano loro. Da Obama. Dicono che gli somiglio.”
Lo guardò con attenzione e si rese conto che davvero gli assomigliava.
“È perché sono mezzo nero, parte bianco e parte portoricano.”
“Beh, credo sia un complimento,” disse lei.
“Non nel modo in cui loro lo dicono,” rispose.
Lo osservò mentre si sedeva sul davanzale, mortificato, e capì che era un ragazzo sensibile. Addirittura vulnerabile. Non centrava niente con quel gruppo. Era una follia, ma si sentiva addirittura protettiva nei suoi confronti.
“Io sono Caitlin,” disse, allungando la mano e guardandolo negli occhi.
Lui sollevò lo sguardo, sorpreso, e le ritornò il sorriso.
“Jonah,” rispose.
Le strinse la mano con forza. Un brivido le corse lungo il braccio quando sentì il contatto di quella pelle morbida sulla sua mano. Si sentì sciogliere. Lui tenne la presa un secondo in più, e lei non poté fare a meno di sorridergli.
*
Il resto della mattinata fu una totale confusione e Caitlin aveva fame quando raggiunse la mensa. Aprì la doppia porta e rimase sbalordita dall’enormità della stanza, dall’incredibile rumore di migliaia di ragazzi urlanti. Era come entrare in una palestra. Eccetto che ogni venti metri tra le corsie c’era una guardia giurata che sorvegliava con attenzione.
Come al solito non aveva idea di dove andare. Perlustrò la grande stanza e finalmente trovò una pila di vassoi. Ne prese uno e si infilò in quella che credette essere la fila per il pranzo.
“Non passarmi davanti, troia!”
Caitlin si voltò e vide una grossa ragazza sovrappeso, alta una decina di centimetri più di lei, che la guardava torva in volto.
“Mi spiace, non sapevo…”
“La fila è là dietro!” disse rudemente un’altra ragazza, facendo segno con il pollice.
Caitlin guardò e vide che la fila si allungava di almeno altri cento ragazzi. A colpo d’occhio c’era da aspettare venti minuti.
Quando iniziò a dirigersi verso la fine della fila, un ragazzo ne spinse un altro, e quello volò andando a cadere dritto di fronte a lei, colpendo violentemente il pavimento.
Il primo ragazzo saltò sopra a quello steso a terra e iniziò a prenderlo a pugni in faccia.
La mensa eruppe in un boato di eccitazione, e decine di ragazzi si raccolsero attorno a loro.
“COMBATTI! COMBATTI!”
Caitlin fece diversi passi indietro, guardando con orrore la violenta scena ai suoi piedi.
Finalmente quattro guardie arrivarono e divisero i due ragazzi insanguinati, portandoli poi fuori dalla stanza. Non sembravano avere la minima fretta.
Dopo che Caitlin ebbe finalmente preso il suo pranzo, osservò la stanza sperando di vedere Jonah. Ma non era da nessuna parte.
Camminò lungo una corsia, passando oltre i tavoli, tutti gremiti di ragazzi. C’erano pochi posti liberi, e quelli vuoti non sembravano poi così invitanti, accanto a grandi combriccole di amici.
Alla fine decise per una sedia ad un tavolo vuoto verso la fine della stanza. C’era solo un ragazzo ad una estremità, un ragazzo cinese basso e mingherlino, con l’apparecchio e abiti poveri, che teneva la testa bassa e rimaneva concentrato sul suo cibo.
Si sentì sola. Abbassò lo sguardo e controllò il telefono. C’erano un po’ di messaggi su Facebook dagli amici dell’ultima cittadina dove aveva vissuto. Volevano sapere se il posto nuovo le piaceva. Non se la sentiva di rispondere. Le sembravano così lontani.
Caitlin mangiò appena: un vago senso di nausea da primo giorno la accompagnava ancora. Cercò di far cambiare direzione ai propri pensieri. Chiuse gli occhi. Pensò al suo nuovo appartamento, al quinto piano di uno sporco condominio senza ascensore nella 132a Strada. La nausea peggiorò. Respirò profondamente, volendo costringersi a pensare a qualcos’altro, qualsiasi cosa ci fosse di positiva nella sua vita.
Suo fratello più piccolo. Sam. 14 anni. Sam non sembrava mai ricordare di essere il più giovane: si comportava sempre come il più vecchio. Era cresciuto duro e irrobustito da tutto quel continuo trasferirsi, dal fatto che loro padre li aveva lasciati, dal modo in cui loro madre li trattava entrambi. Capiva che questa cosa lo irritava e vedeva anche che lui stava iniziando a isolarsi. Le sue frequenti risse scolastiche non la sorprendevano. Temeva solo che le cose potessero peggiorare.
Ma quando si trattava di Caitlin, Sam la amava incondizionatamente. E lei provava lo stesso per lui. Era l’unico punto fermo nella sua vita, l’unico di cui si potesse fidare. Sembrava che lui conservasse un posto nel suo cuore riservato solo a lei. E lei era determinata a fare del suo meglio per proteggerlo.
“Caitlin?”
Lei fece un salto.
In piedi di fronte a lei, vassoio in una mano e borsa del violino nell’altra, c’era Jonah.
“Ti spiace se mi metto qui?”
“Sì… cioè, no!” disse lei presa alla sprovvista.
Idiota, pensò. Piantala di essere così nervosa.
Jonah dispiegò quel suo sorriso e poi si sedette di fronte a lei. Stava seduto con la schiena dritta, in una postura perfetta. Appoggiò con cura il violino accanto a sé. Pose sul tavolo il suo pranzo con altrettanta delicatezza. C’era qualcosa in lui che lei non riusciva a cogliere completamente. Era diverso da qualsiasi altra persona avesse mai incontrato. Era come se provenisse da un altro tempo. Non apparteneva assolutamente a quel luogo.
“Come sta andando il tuo primo giorno?” le chiese.
“Non come me lo aspettavo.”
“So cosa intendi dire,” confermò lui.
“È un violino quello?”
Caitlin fece un cenno verso lo strumento. Lui lo teneva vicino a sé, con una mano sopra, come temesse che qualcuno potesse rubarglielo.
“Veramente è una viola. È solo un po’ più grande, ma il suono è totalmente diverso. Più caldo.”
Lei non aveva mai visto una viola, e sperava che lui la mettesse sul tavolo per fargliela vedere. Invece non fece una mossa, e lei non voleva fare la ficcanaso. Lui teneva ancora la mano sullo strumento, sembrava protettivo, come se quell’oggetto fosse qualcosa di personale e privato.
“Ti eserciti molto?”
Jonah scrollò le spalle. “Qualche ora al giorno,” disse distrattamente.
“Qualche ora!? Devi essere bravissimo!”
Lui diede un’altra scrollata di spalle. “Sono ok, credo. Ci sono un sacco di musicisti che suonano molto meglio di me. Ma spero che questo sia il mio biglietto per andarmene da questo posto.”
“Io ho sempre voluto suonare il pianoforte,” disse Caitlin.
E perché non lo fai?”
Stava per dire Non ne ho mai avuto uno, ma si fermò. Scrollò invece le spalle e riabbassò lo sguardo sul suo pranzo.
“Non c’è bisogno di avere un piano,” disse Jonah.
Lei risollevò lo sguardo, sorpresa che lui le avesse letto nei pensieri.
“C’è una sala prove qui a scuola. Per quanto qui faccia schifo, almeno c’è una cosa positiva. Danno lezioni gratuite. Tutto quello che devi fare è iscriverti.”
Caitlin sgranò gli occhi.
“Davvero?”
“C’è un foglio per le iscrizioni fuori dalla sala di musica. Chiedi della signorina Lennox. Dille che sei mia amica.”
Amica. A Caitlin piaceva il suono di quella parola. Sentì che lentamente una certa felicità le cresceva dentro.
Fece un grande sorriso. I loro occhi si fissarono per un momento gli uni negli altri.
Guardando quegli occhi verdi e brillanti lei si sentì ardere dal desiderio di fargli un milione di domande: Hai la ragazza? Perché sei così carino con me? Ti piaccio sul serio?
Ma si morse invece la lingua e non disse nulla.
Temendo che il tempo da trascorrere insieme si esaurisse troppo in fretta, scandagliò la propria mente alla ricerca di qualcosa da chiedergli, così da poter prolungare la loro conversazione. Tentò di pensare a qualcosa che potesse assicurarle che l’avrebbe rivisto. Ma si innervosì e si bloccò.
Alla fine aprì la bocca, ma proprio in quel momento suonò la campanella.
La stanza eruppe in rumore e movimento e Jonah si alzò prendendo la sua viola.
“Sono in ritardo,” disse, raccogliendo il vassoio.
Guardò il vassoio di Caitlin. “Posso prendere anche il tuo?”
Lei abbassò lo sguardo, rendendosi conto si averlo dimenticato, e scosse la testa.
“Ok,” disse lui.
Rimase lì in piedi, improvvisamente intimidito, non sapendo cosa dire.
“Bene… ci vediamo.”
“Ci vediamo,” rispose lei fiaccamente, con la voce poco più che un sussurro.
*
Al termine del suo primo giorno di scuola Caitlin uscì dall’edificio in un soleggiato pomeriggio di marzo. Sebbene soffiasse un discreto vento, non aveva più freddo. Sebbene tutti i ragazzi attorno a lei stessero gridando mentre si riversavano fuori, non era più infastidita dal rumore. Si sentiva viva, e libera. Il resto della giornata era proseguito in un caos, non riusciva a ricordare il nome di nessuno dei nuovi insegnanti.
Non riusciva a smettere di pensare a Jonah.
Si chiese se in mensa si fosse comportata da idiota. Aveva incespicato nelle proprie parole, non gli aveva quasi fatto domande. Tutto quello che le era venuto in mente di chiedere erano informazioni su quella stupida viola. Avrebbe dovuto chiedergli dove viveva, da dove veniva, dove avrebbe fatto il college.
E più di tutto se aveva una ragazza. Uno come lui doveva per forza stare insieme a qualcuno.
Proprio in quel momento una ragazza ispanica ben vestita passò accanto a Caitlin sfiorandola. Caitlin la guardò dall’alto in basso e si chiese per un momento se potesse essere lei.
Caitlin girò nella 134a Strada e per un secondo dimenticò dove stava andando. Non era mai tornata a casa a piedi da scuola, e per un momento non ricordò dove si trovasse il loro nuovo appartamento. Rimase ferma all’angolo, disorientata. Una nuvola coprì il sole e il vento iniziò a soffiare più forte. Improvvisamente ebbe freddo di nuovo.
“Ehi, amiga!”
Caitlin si voltò e si rese conto di essere di fronte ad una sporca drogheria d’angolo. Quattro uomini squallidi erano seduti su sedie di plastica davanti a lei, apparentemente noncuranti del freddo, e le sorridevano come se lei fosse il loro prossimo pasto.
“Vieni qui, bambola!” gridò un altro.
Lei ricordò.
132a strada. Ecco.
Si voltò velocemente e camminò a passo svelto imboccando un’altra strada laterale. Controllò dietro di sé un po’ di volte per vedere se quegli uomini la stessero seguendo. Fortunatamente non li vide.
Il vento freddo le punse le guance e la risvegliò, mentre la cruda realtà del suo nuovo quartiere cominciava ad apparire. Guardò le auto abbandonate lì attorno, le pareti ricoperte di graffiti, il filo spinato, le inferriate alle finestre, e improvvisamente si sentì molto sola. E molto spaventata.
C’erano solo tre altri isolati prima di arrivare al suo appartamento, ma le sembrava lontanissimo. Desiderò avere un amico al proprio fianco – ancor meglio Jonah – e si chiese se sarebbe stata capace di percorrere quel tragitto da sola ogni giorno. Un’altra volta provò rabbia per sua madre. Come poteva continuare a spostarla di qua e di là, mettendola in posti sempre nuovi e che odiava? Quando sarebbe finito tutto ciò?
Rumore di vetro rotto.
Il cuore di Caitlin iniziò a battere più velocemente quando vide del movimento più avanti sulla sinistra, dall’altra parte della strada. Camminò velocemente, cercando di tenere la testa bassa, ma quando fu più vicina, udì delle grida e una risata grottesca, e non poté fare a meno di notare cosa stava accadendo.
Quattro ragazzi belli grossi – forse di 18 o 19 anni – stavano in piedi attorno a un altro ragazzo. Due di loro gli tenevano le braccia, mentre il terzo lo prendeva a pugni in pancia e il quarto lo colpiva al volto. Il ragazzo, forse di diciassette anni, magro e indifeso, cadde al suolo. Due degli aggressori si fecero avanti e gli diedero dei calci in faccia.
Caitlin non poté fare a meno di fermarsi a guardare. Era disgustata. Non aveva mia visto una cosa del genere.