La Fabbrica della Magia

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“Piccolo idiota!” gridò Chris, strofinandosi la testa incredulo. “Te la farò pagare!”

Ma per la prima volta esitò. Sembrava troppo timoroso per avvicinarsi a Oliver, per dargli una tirata di orecchie o per strofinargli le nocche contro la testa. Fece invece un passo indietro, quasi come se avesse paura. Poi scappò dalla stanza e corse di sopra. Il rumore della porta che sbatteva risuonò per tutta la casa.

Oliver rimase a bocca aperta. Non poteva credere che avesse davvero funzionato! Non solo aveva fatto funzionare la sua invenzione all’ultimo secondo, ma era veramente riuscito a far cadere a terra la cena di Chris con la sola forza della sua mente!

Si guardò le mani. Aveva forse qualche sorta di potere? Una cosa come la magia esisteva sul serio? Non poteva iniziare improvvisamente a crederci solo perché ne aveva avuto una minima esperienza. Ma dentro di sé sapeva di essere in qualche modo diverso, di avere una qualche specie di potere.

Con la mente che ancora galleggiava, tornò al suo libro e si mise a leggere per la milionesima volta il paragrafo riguardante Armando Illstrom. Grazie alla sua invenzione, Oliver aveva spaventato Chris per la prima volta in vita sua. Voleva più di ogni altra cosa conoscere Armando Illstrom. E la fabbrica non era poi così distante dalla sua nuova scuola. Magari avrebbe potuto fargli visita il giorno dopo alla fine della scuola.

Ma per certo doveva essere un uomo molto anziano ora. Tanto vecchio da poter essere benissimo già morto. Il pensiero rattristò profondamente Oliver. Non avrebbe sopportato l’idea che il suo eroe fosse morto prima di avere la possibilità di conoscerlo e ringraziarlo per aver inventato la trappola esplosiva!

Lesse nuovamente la parte che elencava le invenzioni fallite di Armando. Il passaggio dichiarava, in tono secondo Oliver piuttosto pungente, che Armando Illstrom si era trovato a un passo dall’inventare la macchina del tempo quando era scoppiata la Seconda Guerra Mondiale. La sua fabbrica a quel punto aveva subito una battuta d’arresto, ma quando la guerra era finita, Armando non aveva mai tentato di completare la sua invenzione. A quel punto tutti lo avevano deriso per il semplice fatto di averci provato, chiamandolo l’ “Edison minore”. Oliver si chiedeva per quale motivo Armando si fosse fermato. Di certo non perché un qualche inventore bullo lo aveva preso in giro.

Il suo interesse era stato ora risvegliato. Decise che l’indomani avrebbe trovato la fabbrica. E se Armando Illstrom era ancora vivo, gli avrebbe chiesto dritto in faccia cosa fosse successo alla sua macchina del tempo.

Dall’angolo della cucina apparvero i suoi genitori, entrambi ricoperti di cibo.

“Noi andiamo a letto,” disse sua madre.

“Le mie coperte e le mie cose?” chiese Oliver, guardando la nicchia spoglia.

Papà sospirò. “Immagino che tu voglia che vada a prenderle dalla macchina, giusto?”

“Sarebbe carino,” rispose Oliver. “Non mi dispiacerebbe una buona nottata di sonno prima di andare a scuola domani.

Il senso di timore che provava riguardo al giorno dopo stava crescendo, rispecchiando il temporale che man mano si avvicinava. Sapeva già che sarebbe stata la giornata peggiore di sempre. Avrebbe voluto essere almeno riposato per poterla affrontare. Aveva avuto tanti di quegli orribili primi giorni in scuole nuove, da essere certo che quello di domani sarebbe stato solo un altro da aggiungere alla lista.

Suo padre uscì con riluttanza di casa, permettendo a una folata di vento di soffiare attraverso la porta d’ingresso. Tornò pochi attimo dopo con un cuscino e una coperta per Oliver.

“Ci procureremo un letto tra un paio di giorni,” disse mentre porgeva a Oliver le sue cose. Era tutto freddo per essere rimasto in auto tutto il giorno.

“Grazie,” rispose Oliver, riconoscente per quel minimo accenno di comodità.

I genitori lo lasciarono, spensero le luci e Oliver rimase nel buio. Ora l’unica luce nella stanza era quella del lampione che si trovava nella strada davanti casa.

Il vento ricominciò a soffiare impetuoso e i pannelli della finestra vibrarono. Si capiva che il tempo stava peggiorando e che c’era qualcosa di strano nell’aria. Oliver aveva sentito alla radio che quello che si stava presentando era un temporale da record. Non poteva che esserne emozionato. La maggior parte dei bambini erano terrorizzati dai temporali, ma ciò che terrorizzava Oliver era solo il suo primo giorno in una scuola nuova.

Andò alla finestra, appoggiò i gomiti sul davanzale, come aveva fatto prima. Il cielo era quasi completamente oscurato. Un albero allampanato era scosso dal vento, che lo piegava con forza di lato. Oliver si chiese se avrebbe potuto spezzarsi. Poteva immaginarselo, la corteccia sottile che si lacerava, l’albero che veniva lanciato in aria, portato via dalla ferocia del vento.

E proprio in quel momento li vide. Proprio mentre stava per passare alla sua condizione di sogno a occhi aperti, notò due persone in piedi vicino all’albero. Un uomo e una donna che gli assomigliavano notevolmente e che si sarebbero potuti facilmente scambiare per suoi genitori. Avevano due volti gentili e gli sorridevano mentre si tenevano per mano.

Oliver fece un salto allontanandosi dalla finestra, stupefatto. Per la prima volta si rendeva conto che nessuno dei suoi genitori gli assomigliava. Avevano entrambi capelli scuri e occhi azzurri, come Chris. Oliver invece era una più rara combinazione di capelli biondi e occhi castani.

Oliver si chiese, improvvisamente, se magari i suoi genitori non fossero realmente i suoi genitori. Forse era quello il motivo per cui sembravano odiarlo così tanto? Guardò fuori dalla finestra, ma le due persone ora erano sparite, mero frutto della sua immaginazione. Eppure gli erano sembrati così reali. E così famigliari.

Una pia illusione, concluse.

Oliver si sedette a terra, appoggiato alla parete fredda, accoccolandosi nella nicchia che ora era la sua nuova camera e tirandosi su la coperta. Portò le ginocchia al petto e le strinse con forza, colpito da una strana e improvvisa sensazione, un momento di consapevolezza, di chiarezza: che tutto fosse sul punto di cambiare.

CAPITOLO DUE

Oliver si svegliò ricolmo di un senso di trepidazione. Tutte le gambe gli facevano male per aver dormito sul pavimento duro. Le coperte non erano state abbastanza spesse da impedire che il freddo gli si infilasse dritto nelle ossa. Era sorpreso di essere comunque riuscito a dormire, considerata l’ansia che stava provano per il suo primo giorno di scuola.

La casa era molto silenziosa. Nessuno era sveglio. Oliver si rese conto di essersi effettivamente svegliato prima del necessario, grazie alla sbiadita alba la cui luce filtrava attraverso la finestra.

Si tirò su e diede un’occhiata fuori dalla finestra. Il vento aveva scatenato il caos durante la notte, abbattendo recinzioni, facendo volare cassette delle lettere e sparpagliando sui marciapiedi un sacco di rifiuti. Oliver guardò il misero albero ingobbito dove aveva avuto la visione di quella coppia dall’aspetto amichevole la notte precedente, quelle due persone che gli erano parse così simili a lui e gli avevano fatto considerare l’idea che forse lui non avesse nulla a che vedere con i Blue. Scosse la testa. Si rese conto che era solo una sua personale illusione. Chiunque avesse avuto Chris Blue come fratello maggiore avrebbe sognato di non essere in realtà un suo parente!

Sapendo di avere un po’ di tempo prima che il resto della famiglia si svegliasse, Oliver si allontanò dalla finestra e andò alla sua valigia. La aprì e guardò tutti gli ingranaggi e i cavi e le leve e i pulsanti che vi aveva raccolto dentro per le sue future invenzioni. Sorrise tra sé e sé mentre guardava la trappola esplosiva a fionda che aveva usato contro Chris il giorno prima. Ma quella era solo una delle tante invenzioni di Oliver, e di gran lunga non la più importante. L’ultima invenzione che aveva creato era qualcosa di un po’ più complesso, e decisamente molto più importante: Oliver stava tentando di inventare un modo per rendersi invisibile.

Teoricamente era possibile. Aveva letto qualcosa al riguardo. C’erano in effetti due componenti necessarie per rendere invisibile un oggetto. La prima era di flettere la luce attorno all’oggetto in modo che non potesse proiettare un’ombra, qualcosa di simile a come agiva l’acqua di una piscina, facendo apparire i nuotatori stranamente accovacciati. La seconda componente essenziale per l’invisibilità consisteva nell’eliminare il riflesso dell’oggetto.

Sembrava semplice da come lo descrivevano su carta, ma Oliver sapeva che c’era un motivo per cui nessuno c’era ancora riuscito. Questo però non l’avrebbe certo dissuaso dal provarci. Questo stratagemma gli serviva per fuggire dalla sua misera vita, e non gli importava quanto ci avrebbe messo per arrivarci.

Mise le mani nella valigia e ne tirò fuori tutti i pezzetti di stoffa che aveva raccolto nella sua ricerca di qualcosa che avesse delle proprietà rifrangenti nulle. Sfortunatamente non aveva ancora trovato la stoffa giusta. Poi tirò fuori tutti i rotoli di cavo sottile che gli servivano per le microonde elettromagnetiche necessarie a flettere la luce in modo innaturale. Sfortunatamente nessuno di essi era sufficientemente sottile. Per poter funzionare, le bobine dovevano avere una dimensione inferiore ai quaranta nanometri, che era una misura tanto piccola da risultare inconcepibile per la mente umana. Ma Oliver sapeva che prima o poi, qualcuno, da qualche parte avrebbe avuto un macchinario capace di rendere i cavi tanto sottili e la stoffa tanto rifrangente.

Proprio in quel momento, dal piano di sopra si sentì il suono della sveglia dei suoi genitori. Oliver ripose rapidamente le sue cose nella valigia, sapendo benissimo che ora sarebbero andati a svegliare Chris, e se Chris avesse mai avuto anche solo una vaga idea di ciò che lui stava tentando di fare, avrebbe distrutto ogni risultato del suo duro lavoro.

 

Lo stomaco di Oliver brontolò, ricordandogli che gli attacchi e i tormenti di Chris sarebbero ricominciati da capo, e che avrebbe fatto meglio a mettere del cibo in pancia prima del suo arrivo.

Passò accanto al tavolo da pranzo ancora rotto e andò in cucina. La maggior parte della dispensa era vuota. Sua madre non aveva ancora avuto la possibilità di andare a fare la spesa per la casa nuova. Ma Oliver trovò una scatola di cereali che si erano portati nel trasloco, e c’era del latte fresco in frigorifero, quindi si preparò rapidamente una tazza e la trangugiò. Appena in tempo: pochi secondi dopo i suoi genitori arrivarono in cucina.

“Caffè?” chiese mamma a papà, gli occhi assonnati, i capelli in disordine.

Papà sbuffò il suo sì. Guardò il tavolo rotto e con un pesante sospiro prese dello scotch da pacchi. Si mise al lavoro riparando la gamba rotta, sussultando talvolta di dolore.

“È quel letto,” mormorò mentre lavorava. “È instabile. E il materasso è troppo molle.” Si massaggiò la schiena per enfatizzare la situazione.

Oliver provò un’ondata di rabbia. Almeno suo padre aveva dormito su un letto! Lui aveva dovuto accontentarsi di una coperta in una nicchia! Quell’ingiustizia lo feriva.

“Non ho idea di come farò a superare un’intera giornata al call center,” aggiunse la madre di Oliver, avvicinandosi con il caffè. Lo posò sul tavolo ora aggiustato in modo provvisorio e pericolante.

“Hai un lavoro nuovo, mamma?” chiese Oliver.

Con tutti quei traslochi, era difficile per i suoi genitori mantenere un lavoro a tempo pieno. Le cose in casa erano sempre più difficili quando loro due erano disoccupati. Ma se mamma lavorava, questo significava cibo più buono, vestiti migliori e qualche paghetta per comprare congegni per le sue invenzioni.

“Sì,” disse lei con un sorriso forzato. “Sia io che papà. Sono tante ore però. Oggi è una giornata di formazione, ma poi faremo il turno fino a tardi. Quindi non saremo qui dopo scuola. Chris ti terrà d’occhio, quindi non c’è nulla di cui preoccuparsi.”

Oliver sentì una stretta allo stomaco. Avrebbe preferito che Chris non fosse un elemento incluso nella situazione. Oliver era perfettamente capace di badare a se stesso.

Come richiamato dal suono del suo nome, Chris fece la sua improvvisa comparsa in cucina. Era l’unico Blue ad apparire fresco e riposato questa mattina. Si stiracchiò e fece uno sbadiglio teatrale, la maglietta che si sollevava scoprendo la pancia rotonda e rosa.

“Buongiorno, meravigliosa famiglia,” disse con un sorriso sarcastico. Mise un braccio attorno alle spalle di Oliver, tirandolo a sé un una stretta chiaramente mascherata di finto affetto fraterno. “Come stai, moccioso? Non vedi l’ora di andare a scuola?”

Oliver poteva a malapena respirare: Chris lo stava tenendo troppo stretto. Come sempre i loro genitori parevano ignari della reale situazione.

“Non vedo… l’ora…” riuscì a dire.

Chris lo lasciò andare e si sedette di fronte a suo padre al tavolo.

Mamma arrivò dal banco della cucina con un piatto di fette tostate imburrate. Lo mise in mezzo al tavolo. Papà prese una fetta. Poi Chris si chinò in avanti e afferrò il resto, senza lasciare nulla per Oliver.

“EHI!” gridò Oliver. “Avete visto?”

Sua madre guardò il piatto vuoto e fece uno dei suoi soliti sospiri esasperati. Poi guardò suo padre come ad aspettarsi che intervenisse e dicesse qualcosa. Ma lui si limitò a scrollare le spalle.

Oliver strinse i pugni. Era così ingiusto. Se non avesse anticipato una cosa del genere, si sarebbe perso un altro pasto grazie a Chris. Il fatto che nessuno dei suoi genitori si mettesse dalla sua parte lo faceva andare su tutte le furie: sembrava che neanche si accorgessero di quanto spesso saltasse i pasti a causa di Chris.

“Voi due andate a scuola a piedi insieme?” chiese sua madre nell’ovvio tentativo di scansare il problema.

“Non posso,” disse Chris con la bocca piena. Il burro gli gocciolava sul mento. “Se mi faccio vedere in giro con un nerd, non riuscirò mai a farmi degli amici.”

Papà sollevò la testa. Per un secondo parve sul punto di dire qualcosa a Chris, magari per rimproverarlo di aver usato quel nomignolo per Oliver. Ma poi decise evidentemente di non farlo, perché si limitò a sospirare stancamente, riabbassando lo sguardo sul tavolo.

Oliver strinse i denti, cercando di tenere a bada la propria rabbia.

“Non è un problema per me,” sibilò, lanciando un’occhiataccia a Chris. “Ad ogni modo preferisco starti ad almeno trenta metri di distanza.”

Chris si lasciò andare a una fragorosa e perfida risata.

“Ragazzi,” li mise in guardia la mamma con la voce più mite possibile.

Finita la colazione, la famiglia si preparò rapidamente e tutti uscirono di casa per dare inizio alle rispettive giornate.

Oliver guardò i genitori che salivano sulla vecchia auto ammaccata e partivano. Poi Chris si allontanò a grandi passi senza aggiungere una parola di più, le mani in tasca e il volto accigliato. Oliver sapeva quanto fosse per lui importante stabilire immediatamente che lui era un tipo con cui non bisognava fare casino. Era la sua armatura, il modo in cui gestiva il fatto di dover cambiare scuola ogni sei settimane durante l’anno scolastico. Sfortunatamente per Oliver, lui era troppo magrolino e basso per poter anche solo tentare di seguire le sue orme e coltivare una tale immagine anche per sé. Il suo aspetto fisico semplicemente contribuiva a metterlo ancor più in evidenza.

Chris andò velocemente avanti fino a scomparire dalla vista di Oliver, lasciandolo camminare da solo per quelle strade così sconosciute. Non fu la passeggiata più piacevole nella vita di Oliver. Il quartiere era duro, con un sacco di cani che abbaiavano dietro ringhiere di ferro, e auto malridotte e rumorose che percorrevano le vie piene di buche senza riguardo per i bambini che potevano attraversarle.

Quando la Scuola Media Campbell comparve davanti a lui, Oliver sentì scorrere un brivido lungo la schiena. Era un posto dall’aspetto orribile, fatto di mattoni grigi, completamente quadrato e con la facciata rovinata dal tempo e dalle intemperie. Non c’era neanche dell’erba su cui sedersi, solo un ampio cortile di asfalto con canestri da pallacanestro rotti da entrambi i lati. I ragazzini si spingevano a vicenda contendendosi la palla. E il baccano! Era assordante: discussioni, canti, grida e chiacchiericci vari.

Oliver avrebbe voluto girarsi e tornare di corsa da dove era venuto. Ma riuscì a cacciare giù la paura e continuò a camminare a testa bassa, le mani in tasca, attraversando il cortile e poi entrando da una grande porta di vetro.

I corridoi della Campbell erano bui. Sapevano di candeggina, sebbene sembrasse che non li pulissero da un decennio. Oliver vide l’indicazione della reception e la seguì, sapendo di doversi annunciare a qualcuno. Quando trovò l’ufficio, vide che dentro c’era una donna dall’aspetto piuttosto annoiato e scontroso, le lunghe unghie rosse che digitavano qualcosa sulla tastiera del computer.

“Mi scusi,” disse Oliver.

La donna non rispose. Lui si schiarì la voce e tentò di nuovo, solo con tono un po’ più alto.

“Mi scusi. Sono un nuovo studente, inizio oggi.”

Alla fine la donna distolse lo sguardo dal computer e lo guardò. Socchiuse gli occhi. “Un nuovo studente?” chiese con voce molto sospettosa. “È ottobre.”

“Lo so,” rispose Oliver. Non serviva che glielo ricordasse. “La mia famiglia si è appena trasferita qui. Mi chiamo Oliver Blue.”

La donna lo guardò in silenzio per un lungo momento. Poi, senza pronunciare un’altra parola, riportò l’attenzione sul computer e riprese a scrivere. Le sue unghie lunghe ticchettavano sui tasti.

“Blue?” disse. “Blue. Blue. Blue. Ah, ecco. Christopher John Blue, terza media.”

“Oh no, quello è mio fratello,” rispose Oliver. “Io sono Oliver. Oliver Blue.”

“Non vedo nessun Oliver,” rispose lei disinteressata.

“Beh… eccomi qui,” disse Oliver abbozzando un sorriso. Dovrei essere nell’elenco, da qualche parte.”

La segretaria non parve per nulla colpita. Tutto quello sfacelo non lo stava minimamente aiutando con il suo nervosismo. La donna riprese a scrivere, poi emise un profondo sospiro.

“Ok. Ecco. Oliver Blue. Prima media.” Si voltò sulla sua sedia girevole e gettò una cartella di documenti sulla scrivania. “Hai il tuo programma, mappa, contatti utili, eccetera, tutto qua dentro,” disse picchiettando pigramente con una brillante unghia rossa sulla cartellina. “La tua prima lezione è inglese.”

“Bene,” disse Oliver prendendo la cartella e infilandosela sotto al braccio. “Lo parlo bene.”

Sorrise per lasciar intendere che si trattava di una battuta. La segretaria piegò leggermente un lato della bocca, mostrando un’espressione che poteva assomigliare a divertimento. Rendendosi conto che non c’era altro da aggiungere, e percependo che la donna avrebbe gradito vederlo sparire, Oliver uscì dalla stanza con la sua cartella stretta in pugno.

Una volta tornato nel corridoio, la aprì e iniziò a studiare la mappa, cercando l’aula di inglese e la sua prima lezione. Era al terzo piano, quindi Oliver si diresse verso le scale.

Qui i ragazzi che si spingevano e che sgomitavano sembravano ancora più ‘sgomitanti’. Oliver si trovò risucchiato in un mare di corpi, spinto su per la scala insieme alla folla piuttosto che per sua propria volontà. Dovette passare a forza in mezzo alla calca per arrivare incolume al terzo piano, dove arrivò ansimante. Non era certo un’esperienza che bramava di ripetere più volte al giorno!

Usando la mappa come guida, Oliver trovò senza difficoltà l’aula di inglese. Sbirciò attraverso la finestrella sulla porta. Era già mezza piena di studenti. Sentì lo stomaco che si contorceva per l’angoscia al pensiero di incontrare gente nuova, di essere visto, giudicato e valutato. Spinse giù la maniglia della porta ed entrò.

Faceva bene ad avere paura, ovviamente. Aveva fatto questa cosa talmente tante volte da sapere bene che tutti si sarebbero girati a guardarlo, curiosi di sapere chi fosse il ragazzo nuovo. Oliver aveva provato questa sensazione ben più volte di quanto volesse ricordare. Cercò di non guardare nessuno negli occhi.

“E tu chi sei?” chiese una voce rude.

Oliver si girò e vide l’insegnante, un uomo anziano con i capelli sorprendentemente bianchi, che lo guardava dalla cattedra.

“Sono Oliver. Oliver Blue. Sono nuovo.”

L’insegnante si accigliò. Aveva gli occhi piccoli, neri e sospettosi. Fissò Oliver per un tempo penosamente lungo. Ovviamente questo si unì allo stress di Oliver, perché ora anche i suoi compagni di classe stavano prestando una maggiore attenzione nei suoi confronti, mentre altri ancora entravano dalla porta. Un pubblico sempre più grande lo guardava con curiosità, come fosse una specie di spettacolo da circo.

“Non sapevo che me ne avrebbero mandato un altro,” disse infine l’insegnante con aria di sprezzo. “Sarebbe carino se mi informassero.” Sospirò stancamente, ricordando a Oliver suo padre. “Allora vai a prendere posto, direi.”

Oliver corse a sedersi in uno dei posti rimasti, sentendosi seguito dagli occhi di tutti. Cercò di farsi il più piccolo possibile, il più inosservabile possibile. Ma ovviamente, per quanto tentasse di nascondersi, spiccava come un pollicione gonfio. Dopotutto, lui era quello nuovo.

Con tutti i posti ora occupati, l’insegnante iniziò la lezione.

“Andiamo avanti da dove ci siamo fermati la volta scorsa,” disse. “Regole di grammatica. Qualcuno può spiegare a Oscar di cosa stavamo parlando, per favore?”

Tutti si misero a ridere per il suo errore.

Oliver si sentì stringere la gola. “Ehm, mi scusi se la interrompo, ma mi chiamo Oliver. Non Oscar.”

L’espressione dell’insegnante si fece immediatamente irritata. Oliver capì all’istante che quello non era il genere di uomo che apprezzava essere corretto.

“Quando vivi da sessantasei anni con un nome come Portendorfer,” disse l’insegnante con un profondo cipiglio, “ti imbatti nella gente che pronuncia male il tuo nome. Porfendoffer. Portenworten. Ne ho sentite di tutti i colori. Quindi ti suggerisco, Oscar, di preoccuparti meno di correggere la pronuncia del tuo nome!”

 

Oliver inarcò le sopracciglia, ammutolito. Anche il resto dei suoi compagni parvero scioccati da come il professore era sbottato, perché le risatine si erano interrotte. La reazione del professor Portendorfer era sopra le righe per gli standard di chiunque, e il fatto che l’avesse indirizzata contro un ragazzo nuovo la rendeva ancora peggiore. Dalla segretaria scontrosa all’insegnante di inglese irascibile, Oliver si chiese se ci fosse una persona carina in tutta la scuola!

Il professor Portendorfer iniziò a dilungarsi a parlare di pronomi. Oliver si rannicchiò ancor più nella sua sedia, sentendosi teso e infelice. Fortunatamente il professor Portendorfer non lo prese più di mira, ma quando suonò la campanella, la castigata gli stava ancora risuonando nelle orecchie.

Oliver percorse lentamente i corridoi alla ricerca della sua aula di matematica. Quando la trovò, si assicurò di andare dritto all’ultima fila. Se il professor Portendorfer non sapeva che avrebbe avuto un nuovo studente, forse non ne era al corrente neanche l’insegnante di matematica. Magari sarebbe riuscito a restare invisibile per l’ora successiva.

Con sollievo di Oliver, la cosa funzionò. Rimase seduto, silenzioso e anonimo per tutta la lezione, come un fantasma ossessionato dall’algebra. Ma neanche quella sembrava la migliore soluzione ai suoi problemi. Non essere notato era orribile proprio come essere umiliato pubblicamente. Lo faceva sentire insignificante.

La campanella suonò un’altra volta, quindi Oliver seguì la mappa lungo il corridoio. Se il cortile gli aveva messo soggezione, non era stato niente confronto alla mensa. Qui i ragazzi erano come animali selvaggi. Le loro voci roche riecheggiavano tra le pareti, rendendo il rumore ancora più insopportabile. Oliver chinò la testa e si affrettò a raggiungere la fila.

Thump. Improvvisamente andò a sbattere contro un grosso corpo minaccioso. Lentamente sollevò lo sguardo.

Con sua sorpresa si trovò a fissare in faccia Chris. Ai suoi fianchi, come a costituire una specie di formazione a freccia, c’erano tre ragazzi e una ragazza, tutti con lo stesso cipiglio. Compagni di merende fu la definizione che saltò in mente a Oliver.

“Ti sei già fatto degli amici?” gli chiese, cercando di non apparire sorpreso.

Chris socchiuse gli occhi. “Non siamo tutti degli strambi perdenti asociali,” disse.

Oliver si rese poi conto che quella con suo fratello non sarebbe stata un’interazione piacevole. Ma del resto, quando mai lo era.

Chris guardò i suoi nuovi compagni. “Questo è Oliver, quella mezza calzetta di mio fratello,” annunciò loro. “Dorme in una nicchia in salotto.”

I suoi nuovi amici bulli si misero a ridere.

“È a disposizione per spinte, tirate di pantaloni, tirate di capelli, e per la mia mossa preferita,” continuò Chris. Afferrò Oliver e gli strofinò le nocche contro la testa.

Oliver si dimenò, cercando di divincolarsi dalla stretta di Chris. Bloccato in quel malefico abbraccio, Oliver ricordò i suoi poteri del giorno prima, il momento in cui aveva rotto la gamba del tavolo facendo volare le patate addosso a Chris. Se solo avesse saputo come risvegliare quei poteri, avrebbe potuto farlo ora per liberarsi. Ma non aveva idea di come ci fosse riuscito. Tutto quello che aveva fatto era stato visualizzare mentalmente il tavolo che si rompeva, o il soldatino di plastica che volava in aria. Bastava questo? La sua immaginazione?

Ci provò ora, immaginandosi nell’atto di liberarsi da Chris. Ma non ebbe effetto. Con gli amici di Chris che assistevano alla scena e ridevano divertiti, era troppo concentrato sulla realtà dell’attuale umiliazione per poter allontanare la mente e pensare a qualcos’altro.

Alla fine Chris lo lasciò andare. Oliver barcollò indietro, massaggiandosi la testa dolorante. Si sistemò i capelli, che si erano spettinati tutti, diventando elettrici. Ma più dell’umiliazione per l’aggressione di Chris, Oliver provava la pungente delusione per non essere riuscito a usare i suoi poteri. Forse quello che era successo con la gamba del tavolo era stata una coincidenza. Forse dopotutto non possedeva nessun potere speciale.

La ragazza che si trovava subito dietro le spalle di Chris prese la parola. “Non vedo l’ora di conoscerti meglio, Oliver,” disse con voce minacciosa, e Oliver capì che intendeva esattamente il contrario.

Si era preoccupato dei bulli. Ovviamente avrebbe dovuto prevedere che il peggiore di tutti si sarebbe rivelato essere suo fratello.

Oliver passò oltre Chris e i suoi amici e si diresse verso la fila per il pranzo. Con un triste sospiro, prese un panino al formaggio dal frigo e andò dritto al bagno. Lo stanzino del gabinetto era l’unico posto dove si sentisse al sicuro.

*

La lezione successiva di Oliver, dopo pranzo, era scienze. Percorse i corridoi cercando l’aula giusta, lo stomaco contorto dalla certezza che sarebbe andata male come le due precedenti occasioni quella mattina.

Quando trovò l’aula, bussò contro la finestrella. L’insegnante era più giovane di quello che si era aspettato. Nella sua esperienza gli insegnanti di scienze tendevano ad essere vecchi e in qualche modo strani, ma la signorina Belfry sembrava completamente sana di mente. Aveva lunghi e dritti capelli castano chiaro, quasi lo stesso colore del suo abito di cotone e del cardigan. Si girò sentendolo bussare e sorrise, mostrando delle fossette su entrambe le guance, e gli fece cenno di entrare. Oliver aprì la porta timidamente.

“Ciao,” disse la signorina Belfry sorridendo. “Sei Oliver?”

Oliver annuì. Anche se era il primo ad arrivare in classe, si sentì improvvisamente molto timido. Almeno questa insegnante sembrava essersi aspettata il suo arrivo, e quello era un sollievo.

“Sono proprio contenta di conoscerti,” disse la signorina Belfry, porgendogli la mano.

Era tutto molto formale, per niente simile a quello che gli era successo alla Scuola Media Campbell fino a quel momento. Ma prese la mano della professoressa e la strinse. Aveva la pelle molto calda e il suo atteggiamento amichevole e rispettoso lo aiutò a mettersi a proprio agio.

“Hai avuto occasione di leggere qualcosa?” chiese la signorina Belfry.

Oliver sgranò gli occhi e sentì il panico che iniziava a salirgli dal petto. “Non sapevo che ci fosse qualcosa da leggere.”

“Va bene,” disse la signorina Belfry con tono rassicurante, sempre con il suo sorriso gentile in volto. “Niente di cui preoccuparsi. In questo quadrimestre stiamo studiando gli scienziati, e alcune importanti figure storiche.” Indicò un ritratto in bianco e nero sulla parete. “Questo è Charles Babbage, ha inventato la…”

“… calcolatrice,” disse Oliver completando la frase.

La signorina Belfry si illuminò e batté le mani. “Lo sai già?”

Oliver annuì. “Sì. E spesso gli si accredita anche la nascita del computer, dato che sono stati i suoi progetti a condurre a quell’invenzione.” Guardò l’immagine successiva sulla parete. “E quello è James Watt,” disse. “L’inventore del motore a vapore.”

La signorina Belfry annuì. Sembrava entusiasta. “Oliver, posso già dire che andremo molto d’accordo.”

Proprio in quel momento la porta si aprì ed entrarono i compagni di classe di Oliver. Lui deglutì, sentendo tornare una grossa ondata di ansia.

“Perché non vai a sederti?” suggerì la signorina Belfry.

Oliver annuì e corse al posto più vicino alla finestra. Se le cose non fossero andate per il verso giusto, almeno poteva guardare fuori e immaginarsi altrove. Da lì aveva una bella veduta sul quartiere, tutti i pezzi di rifiuti e le foglie secche spostati dal vento. Le nuvole in alto sembravano ancora più scure di quanto fossero state quella mattina. Tutto questo non era esattamente di aiuto per il senso di inquietudine che Oliver provava.