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Arena Uno: Mercanti Di Schiavi

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La porto alla luce, e dapprima non so dire cos’è; ma poi sento il foglio di alluminio rivelatore, e realizzo: è una barretta di cioccolato. Erano stati dati un paio di morsi, ma è ancora avvolta nel suo involucro originale, e abbastanza ben conservata. Ne scarto giusto un pezzetto, lo porto al naso e l’annuso. Non ci credo: vero cioccolato. È dalla guerra che non abbiamo cioccolato.

Odorarlo mi fa venire un’acuta fitta di fame e devo fare ricorso a tutta la mia forza di volontà per non stracciarlo e divorarlo. Mi sforzo di resistere, lo riavvolgo con cura e lo ripongo in tasca. Aspetterò di essere con Bree per godermelo. Sorrido, immaginando lo sguardo sul suo volto quando darà il suo primo morso. Sarà impagabile.

Frugo nei cassetti rimasti, fiduciosa adesso di trovare ogni genere di tesoro. Ma tutto il resto si rivela vuoto. Mi volto e attraverso la stanza in lungo e in largo, affianco ai muri, nei quattro angoli, alla ricerca di qualsiasi cosa. Ma è deserta.

All’improvviso, cammino su qualcosa di morbido. Mi inginocchio e la raccolgo, mettendola alla luce. Sono stupita: un orsetto di peluche. È logoro e gli manca un occhio, ma comunque Bree adora gli orsetti di peluche e le manca quello che ha abbandonato. Andrà in estasi quando lo vedrà. Sembra che oggi sia il suo giorno fortunato.

Metto l’orsetto nella cintura, e mentre mi rialzo, sfioro con la mano qualcosa di morbido sul pavimento. L’afferro e la tiro su, e sono felicissima nel scoprire che è una sciarpa. È nera e coperta di polvere – non potevo vederla mai al buio – e come la metto al collo e sul petto, ne sento subito il calore. La sbatto forte fuori dalla finestra, scrollando via la polvere. La guardo alla luce: è lunga e spessa – non ha neanche un buco. È oro puro. Me l’avvolgo subito intorno al collo e me la infilo sotto la camicia: sento che mi sto già riscaldando. Starnutisco.

Il sole sta tramontando e siccome pare che abbia trovato tutto ciò che potevo trovare, vado per uscire. Mentre mi dirigo verso la porta, all’improvviso, sbatto il dito del piede contro qualcosa di duro e metallico. Mi fermo e mi inginocchio, cercando di capire se si tratta di un’arma. Non lo è. È un pomello di ferro rotondo, attaccato al pavimento di legno. Come un battente. O una maniglia.

Lo tiro forte a destra e a sinistra. Non succede niente. Provo a girarlo. Niente. Non avendo altre opzioni, mi metto su un lato e lo tiro con forza verso l’alto.

Si apre una botola, sollevando una nuvola di polvere

Guardo in giù e scopro un’intercapedine, alta circa un metro, con il pavimento in terra battuta. In testa mi passano tutte le possibilità. Se vivessimo qui, e dovesse succedere qualche problema, potrei nascondere Bree quaggiù. Questo piccolo cottage sta diventando sempre più prezioso ai miei occhi.

E non solo. Come guardo giù intravedo qualcosa luccicare. Apro completamente la pesante porta di legno e balzo giù per la scala. È tutto nero, e tengo le mani davanti mentre cammino brancolando. Faccio un passo in avanti e sento qualcosa. Vetro. Gli scaffali sono incassati al muro, e sopra in fila ci sono dei barattoli di vetro. Barattoli di conserve.

Ne tiro giù uno e lo porto alla luce. Il contenuto è rosso e morbido. Somiglia a marmellata. Svito rapidamente il coperchio di stagno, lo porto al naso e annuso. Vengo investita dall’odore pungente di lamponi. Ci ficco dentro un dito, ne raccolgo un po’ e me lo porto alla lingua per assaggiare. Non ci posso credere: marmellata di lamponi. E sembra fresca come se fosse stata fatta ieri.

Stringo rapidamente il coperchio, m’infilo il vaso in tasca e ripasso agli scaffali. Stendo la mano e ne sento a dozzine nell’oscurità. Afferro il più vicino, corro di nuovo alla luce e lo tiro su. Sembrano sottaceti.

Sono sbigottita. Questo posto è una miniera d’oro.

Vorrei potermi portare tutto, ma ho le mani gelate, non ho come trasportare alcunché e si sta facendo scuro fuori. Rimetto quindi il barattolo di marmellata laddove l’avevo trovato, risalgo la scala, e, tornata al piano terra, chiudo per bene lo sportello della botola dietro di me. Vorrei avere un lucchetto; m’innervosisce lasciare tutta questa roba quaggiù, incustodita. Ma poi mi torna in mente che questo luogo non è stato toccato per anni – e che probabilmente non l’avrei mai neanche notato se quell’albero non fosse caduto.

Esco, chiudendo per bene la porta, con senso di protezione, come se questa fosse già casa nostra.

Con le tasche piene, mi affretto di nuovo verso il lago – ma mi blocco di colpo non appena percepisco un movimento e sento un rumore. Penso subito che qualcuno possa avermi seguito; ma mentre mi volto lentamente, vedo qualcos’altro. C’è un cervo che mi guarda impalato, a tre metri di distanza. È il primo cervo che vedo da anni. I suoi grandi occhi neri sono fissi sui miei, poi all’improvviso si gira e fugge via.

Sono senza parole. Ho trascorso mesi e mesi alla ricerca di un cervo, sperando di potermici avvicinare abbastanza da lanciare il mio coltello. Ma non sono mai riuscita a trovarne uno, da nessuna parte. Forse non stavo cacciando abbastanza in alto. Forse hanno vissuto quassù tutto questo tempo.

Decido che ritornerò qui la mattina presto, e aspetterò tutto il giorno se necessario. Se è stato qui una volta, forse ritornerà. La prossima volta che lo vedo, lo uccido. Quel cervo ci sfamerebbe per settimane.

Sento tornare la speranza mentre mi corro verso il lago. Mi avvicino a controllare la mia canna, e ho il batticuore nel vedere che è piegata quasi a metà.  Tremando per l’emozione, mi precipito, scivolando, verso il ghiaccio. Afferro la corda che vibra freneticamente, e prego che tenga.

Tendo le braccia e la strattono con un colpo secco. Sento la forza di un grosso pesce che tira forte e dentro di me spero che la corda non si spezzi e l’amo non si rompa. Gli do un ultimo colpo e il pesce balza fuori dal buco. È un salmone enorme, grande quanto il mio braccio. Cade sul ghiaccio e si dimena in tutti i sensi, scivolando da un lato all’altro. Mi abbasso per prenderlo, ma mi scivola dalle mani e ripiomba sul ghiaccio. Ho le mani troppo viscide per tenerlo fermo, così mi abbasso le maniche, mi chino e stavolta l’afferro con maggiore fermezza. Si divincola e si contorce nelle mie mani per trenta secondi buoni, fino a quando non si placa, morto.

Sono meravigliata. È la mia prima preda da mesi.

Mi sento estasiata mentre scivolo sul ghiaccio e lo poggio sulla riva; lo avvolgo nella neve, temendo che possa in qualche modo tornare in vita e risaltare nel lago. Tiro giù la canna e la corda e me li metto in una mano, poi afferro il pesce con l’altra. Sento il barattolo di marmellata in una tasca, il termos di linfa nell’altra – stipato insieme alla barretta di cioccolato – e l’orsetto di peluche alla cintura. Bree avrà di che gioire stasera.

È rimasta solo una cosa da prendere. Mi dirigo verso la catasta di legno secco, con la canna in equilibrio in un braccio, e con la mano libera raccolgo tutti i ceppi che riesco a prendere. Ne faccio cadere qualcuno; non riesco a portare tanti quelli che vorrei, ma non mi lamento. Posso sempre tornare domattina per i restanti.

Con mani, braccia e tasche piene, scendo cadendo e scivolando giù per il ripido versante della montagna nell’ultima luce del giorno, attenta a non fare cadere niente del mio tesoro. Mentre procedo, non riesco a smettere di pensare al cottage. È perfetto, e il cuore batte sempre più forte all’idea. È esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. La casa di nostro papà è troppo in vista; è costruita sulla strada principale. Per mesi sono stata preoccupata del fatto di essere troppo vulnerabili là dove siamo. Sarebbe bastato che passasse un qualunque mercante di schiavi e saremmo state nei guai. È da tanto tempo che vorrei che io e Bree cambiassimo posto, ma non ho mai saputo dove. Non ci sono altre case quassù.

Quel piccolo cottage, così in alto, così lontano da qualsiasi strada – e letteralmente costruito dentro la montagna – è così ben mimetizzato, che sembra quasi essere stato costruito apposta per noi. Nessuno riuscirebbe mai a trovarci lì. E pure se ci riuscissero, non potrebbero mai avvicinarsi a noi con un veicolo. Dovrebbero muoversi a piedi, e da quel punto vantaggioso, li distinguerei lontani un chilometro.

La casa ha anche una fonte di acqua dolce, un ruscello che scorre proprio davanti la porta; non dovrei lasciare Bree sola ogni volta che esco a fare un bagno o a lavare i vestiti. E non dovrei portare i secchi di acqua dal lago uno alla volta ogni volta che preparo un pasto. Senza dire che con quella copertura di alberi, saremmo abbastanza nascosti da poter accendere il caminetto ogni sera. Saremmo più sicure, più calde, in un luogo brulicante di pesce e selvaggina – e provvisto di un seminterrato pieno di cibo. In testa mia ho deciso: ci sposteremo lì domani.

È come togliersi un peso dalle spalle. Mi sento rinata. Per la prima volta da non so quando, non sento la fame che morde, non sente il freddo che mi buca le punte delle dita. Anche il vento, man mano che scendo, sembra rimanere dietro di me, come se mi aiutasse ad andare avanti, e sento che le cose finalmente sono girate. Per la prima volta da tanto tempo, so che possiamo farcela.

Che possiamo sopravvivere.

DUE

Tempo che raggiungo casa di papà è il crepuscolo, la temperatura scende, la neve inizia a indurirsi e a crepitare sotto i miei piedi. Esco dal bosco e vedo casa nostra, piazzata in bella vista sul ciglio della strada; sono sollevata nel vedere che tutto sembra tranquillo, esattamente come l’avevo lasciato. Scandaglio subito la neve per eventuali impronte di persone – o di animali – in entrata o in uscita, e non ne trovo nessuna.

Non ci sono luci accese in casa, ma questo è normale. Mi preoccuperei se ce ne fossero. Non abbiamo elettricità, e vedere delle luci potrebbe significare solo che Bree ha acceso delle candele – e non lo farebbe mai senza di me. Mi fermo e rimango in ascolto per diversi secondi: e tutto tace. Nessun rumore di lotta, nessun pianto d’aiuto o di dolore. Tiro un sospiro di sollievo.

 

Una parte di me teme sempre di tornare e trovare la porta spalancata, la finestra frantumata, impronte intorno alla casa, Bree rapita. Ho fatto quest’incubo diverse volte, e ogni volta mi sveglio sudando, e cammino fino all’altra stanza per assicurarmi che Bree è lì. E ogni volta è lì, sana e salva, e mi rimprovero. Lo so che dovrei smettere di preoccuparmi, dopo tutti questi anni. Ma per qualche motivo, non riesco a scrollarmi di dosso questo pensiero: ogni volta che devo lasciare Bree da sola, è come una piccola lama nel cuore.

Rimango in allerta, controllo la casa e tutt’attorno sotto la luce morente del giorno. A essere onesti, non è mai stata una gran casa. Il tipico ranch di montagna, con la forma di una scatola rettangolare del tutto anonima, addobbato con un rivestimento vinilico da quattro soldi color acqua , che sembrava vecchio il primo giorno e che adesso sembra proprio marcito. Le finestre sono piccole, poche e distanti fra loro, fatte di plastica di scarsa qualità. Sembra di essere in un campeggio per roulotte. Largo circa cinque metri e profondo dieci, dovrebbe essere un’unica camera da letto, ma chiunque l’abbia costruito, nella sua saggezza, ha ricavato due piccole camere da letto e un ancor più piccolo soggiorno.

Ricordo di averla visitata da bambina, prima della guerra, quando il mondo era ancora normale. Papà, quando era a casa, ci portava qui nei fine settimana, per uscire un po’ dalla città. Non volevo apparire ingrata nei suoi confronti e mi facevo sempre vedere contenta, ma in realtà non mi è mai piaciuta; l’ho sempre vista scura e angusta, e faceva odore di muffa. Da bambina, ricordo che non riuscivo ad aspettare che finisse il weekend per allontanarmi da questo posto. Ricordo che giurai segretamente che quando sarei stata più grande, non sarei mai ritornata qua.

Adesso, ironia della sorte, sono grata per questo posto. Questa casa ha salvato la mia vita – e quella di Bree. Quando la guerra è scoppiata e siamo dovute fuggire dalla città, non avevamo opzioni. Se non era per questo posto, non so dove saremmo andate. E se questo posto non fosse stato così lontano ed elevato, allora saremmo probabilmente state catturate dai mercanti di schiavi tempo fa. È buffo come da bambini si possano odiare così tanto alcune cose che finisci con l’apprezzare da adulto. Beh, quasi adulta. A 17 anni mi considero un’adulta. E in tutti i casi, negli ultimi anni sono probabilmente cresciuta più che mai.

Se questa casa non fosse stata costruita proprio sulla strada, così esposta – se fosse giusto un po’ più piccola, più protetta, più addentro nel bosco, non credo che mi preoccuperei tanto. Certo, dovremmo comunque sopportare i muri sottili come carta, il tetto che perde e le finestre che lasciano entrare il vento. Non sarebbe mai una casa comoda, né calda. Ma almeno sarebbe sicura. Adesso, ogni volta che la vedo e guardo il panorama che c’è al di là, non posso fare a meno di pensare che è un bersaglio facile.

I piedi crepitano sulla neve, mentre mi avvicino alla porta vinilica, e sento un latrato provenire da dentro casa. È Sasha, e sta facendo ciò per cui l’ho addestrata: proteggere Bree. Le sono davvero grata. Sorveglia Bree con tanta cura, abbaia al minimo rumore; il che mi rende abbastanza tranquilla da lasciarla quando vado a caccia. Tuttavia allo stesso tempo, il suo abbaiare a volte mi fa anche temere che ci farà scoprire: dopotutto, un cane che abbaia di solito significa persone. E questo è esattamente ciò che cercherebbe di sentire un mercante di schiavi in ascolto.

Entro in casa e la zittisco rapidamente. Chiudo la porta dietro di me, sforzandomi di tenere i ceppi in equilibrio in una mano, ed entro nella stanza buia. Sasha si calma, scodinzola e mi salta addosso. Un labrador color cioccolato, di sei anni, Sasha è il cane più fedele che potrei mai immaginare – e la migliore compagnia. Se non era per lei, credo che Bree sarebbe caduta in depressione tanto tempo fa. E anch’io.

Sasha mi lecca la faccia, si lamenta e sembra anche più eccitata del solito; mi annusa il girovita, le tasche, percependo che ho portato a casa qualcosa di speciale. Poso i ceppi per coccolarla e nel farlo sento le sue costole. È troppo magra. Mi sento in colpa. D’altro canto, Bree e io siamo messe allo stesso modo. Dividiamo sempre con lei tutto ciò che ci procuriamo: noi tre siamo una squadra di uguali. Tuttavia, vorrei poterle dare di più.

Strofina il naso sul pesce, facendomelo volare via di mano e facendolo cadere sul pavimento. Sasha ci piomba immediatamente di sopra, e con gli artigli lo fa scivolare per il pavimento. Ci salta sopra di nuovo, stavolta mordendolo. Ma non deve piacerle il sapore del pesce crudo, e lo lascia andare. Piuttosto, ci gioca, saltandoci sopra ripetutamente mentre il pesce scivola sul pavimento.

“Sasha, smettila!”, dico piano, per non svegliare Bree. Ho anche paura che se ci gioca troppo, finisca con lo squarciarlo e sprecare parte della carne buona. Sasha ubbidisce e si ferma. Ma mi rendo conto di quanto è eccitata e voglio darle qualcosa. Infilo una mano in tasca, svito il coperchio di stagno del barattolo, prendo con il dito un po’ della marmellata di lamponi e gliel’avvicino.

Senza perdere un attimo mi lecca il dito, e mi ripulisce la mano con tre grandi leccate. Si pulisce il muso e torna a fissarmi con gli occhi spalancati, volendone già ancora.

Le accarezzo la testa, le do un bacio, e mi rimetto in piedi. A questo punto mi chiedo se sono stata premurosa a dargliene un po’ o crudele a dargliene così poco.

La casa è scura, e incespico, come sempre quando è notte. Difficilmente faccio un fuoco. Per quanto abbiamo bisogno del calore, non voglio rischiare di attrarre l’attenzione. Ma stasera è diverso: Bree deve guarire, sia fisicamente che mentalmente, e so che un fuoco è proprio quello che ci vuole. Mi sento più tranquilla nell’abbandonare ogni tipo di cautela, visto che domani ci sposteremo da qui.

Attraverso la stanza e raggiungo la credenza, estraggo un accendino e una candela. Una delle migliori cose di questo posto era la sua enorme riserva di candele, uno dei pochissimi effetti collaterali positivi di avere un papà marine, malato di tecniche di sopravvivenza. Quando venivamo da bambine, l’elettricità se ne andava a ogni tempesta, e di conseguenza aveva fatto riserve di candele, per averla vinta sulle intemperie. Mi ricordo che lo prendevo in giro per questo, che gli diedi dell’accumulatore quando scoprii il suo armadio pieno zeppo di candele. Ora che sono arrivata alle ultime, vorrei che ne avesse accumulate di più.

Ho tenuto in vita il nostro unico accendino usandolo con moderazione, e travasando un pochino di benzina dalla motocicletta ogni due, tre settimane. Ringrazio Dio ogni giorno per la moto di papà e sono anche grata per avergli fatto il pieno l’ultima volta: è l’unica cosa che abbiamo a farmi pensare di avere ancora un vantaggio, di avere qualcosa davvero di valore, una maniera di sopravvivere se le cose dovessero mettersi male. Papà ha sempre tenuto la moto nel piccolo garage attaccato a casa, ma all’inizio quando siamo arrivati, dopo la guerra, la prima cosa che ho fatto è stata prenderla e portarla su per la salita, nel bosco, e nasconderla sotto cespugli, rami e spine così fitti che nessuno avrebbe mai potuto trovarla. Ho pensato che se la nostra casa fosse mai stata scoperta, la prima cosa che avrebbero fatto sarebbe stata controllare il garage.

Sono anche grata a mio papà per avermi insegnato a guidare quando ero giovane, nonostante le lamentele di mamma. È stata più difficile da imparare rispetto a molte moto, per via del sidecar attaccato. Ripenso a quando dodicenne, spaventata, imparavo a guidare mentre papà stava seduto nel sidecar, urlandomi comandi ogni volta che m’inceppavo. Ho imparato su queste ripide, implacabili strade di montagna e ricordo che sembrava di stare per morire. Ricordo che guardavo il bordo, vedevo il precipizio, e in lacrime, insistevo che guidasse lui. Ma si rifiutava. Rimaneva ostinatamente seduto lì per più di un’ora, fino a quando finalmente non smettevo di piangere e ci riprovavo. E in qualche modo, ho imparato a guidarla. In pratica è così che sono stata educata.

Non tocco la moto dal giorno in cui l’ho nascosta, e non voglio neanche arrischiarmi di salire a vederla se non quando devo travasare la benzina – e anche quello lo faccio solo di notte. Immagino che se mai un giorno fossimo nei guai e avessimo bisogno di andarcene via di qua velocemente, metterò Bree e Sasha nel sidecar e condurrò tutti verso la salvezza. Ma in realtà, non ho idea di dove potremmo andare. Da quello che ho visto e sentito, il resto del mondo è una zona devastata, piena di criminali violenti, bande, e qualche sopravvissuto. I pochi, violenti, che sono riusciti a sopravvivere, si sono radunati nelle città, rapendo e schiavizzando chiunque trovassero, per fini propri, o per rifornire i combattimenti mortali nelle arene. Scommetto che Bree e io siamo tra i pochissimi sopravvissuti che vivono ancora liberi, per contro proprio, fuori dalle città. E fra i pochissimi che non sono ancora morti di fame.

Accendo la candela e Sasha mi segue mentre attraverso lentamente la casa buia. Presumo che Bree stia dormendo e questo mi preoccupa: normalmente non dorme così tanto. Mi fermo davanti alla sua porta, e penso se è o no il caso di svegliarla. Mentre sto lì, alzo lo sguardo e vengo spaventata dalla mia stessa immagine riflessa nel piccolo specchio. Sembro molto più grande d’età, come accade ogni volta che mi guardo. La mia faccia, magra e asciutta, è arrossata dal freddo, i capelli castano chiaro mi cadono sulle spalle, incorniciandomi la faccia, e i miei occhi grigio ferro mi fissano come se appartenessero a qualcuno che non riconosco. Sono occhi intensi e severi. Papà diceva sempre che erano gli occhi di un lupo. Mamma diceva sempre che erano belli. Non sapevo a chi credere.

Distolgo subito lo sguardo, non mi va di stare a guardarmi. Stendo la mano e rigiro lo specchio, così non succederà più.

Lentamente apro la porta di Bree. Nell’istante in cui lo faccio, Sasha si lancia e corre dal lato di Bree, si sdraia e poggia il mento sul petto di Bree per leccarle la faccia. Non smetterò mai di stupirmi per quanto siano vicine loro due – a volte mi sembra che siano ancora più vicine di quanto lo siamo noi due.

Bree apre lentamente gli occhi nel buio.

“Brooke?” domanda.

“Sono io” rispondo dolcemente. “Sono a casa”.

Si mette seduta e sorride mentre i suoi occhi si accendono nel vedermi. È stesa su un materasso da quattro soldi messo per terra e si sbarazza della sua coperta leggera per alzarsi dal letto, ancora in pigiama. Si muove più lentamente del solito.

Mi chino e l’abbraccio.

“Ho una sorpresa per te” le dico, riuscendo a stento a contenere l’eccitazione.

Solleva lo sguardo e spalanca gli occhi, poi li chiude e apre le mani, in attesa. È sempre così fiduciosa e ottimista che mi sorprende ogni volta. Decido cosa darle prima, poi opto per il cioccolato. Metto la mano in tasca, tiro fuori la barretta e lentamente gliela sistemo sul palmo. Apre gli occhi e si guarda la mano, socchiudendo gli occhi alla luce, indecisa. Le porgo la candela.

“Cos’è?” domanda.

“Cioccolato” rispondo.

Mi guarda come se le stessi facendo uno scherzo.

“Sul serio”, le dico.

“Ma dove l’hai preso?” mi chiede, non capendo. Abbassa lo sguardo come se un asteroide le fosse appena atterrato sulla mano. Non la biasimo: non ci sono più negozi, non si cono persone, e neanche posti nel raggio di cento chilometri dove aspettarsi di trovare qualcosa del genere.

Le sorrido. “Me l’ha dato Babbo Natale, per te. È un regalo di Natale anticipato”.

Corruga le sopracciglia. “No, davvero”, insiste.

Faccio un respiro profondo, e decido che è il momento di dirle della nostra nuova casa, e che domani ce ne andremo da qui . Cerco la maniera migliore di formulare la frase. Spero che sarà contenta tanto quanto me – ma con i bambini, non si sa mai. Una parte di me teme che potrebbe essersi affezionata a questo posto e che non voglia partire.

“Bree, ho grandi notizie”, le dico, chinandomi e tenendole le spalle. “Oggi ho scoperto il posto più meraviglioso del mondo, in alto alto. È un piccolo cottage di pietra ed è perfetto per noi. È comodo, caldo, sicuro, e ha il caminetto più bello che esiste, e possiamo accenderlo ogni notte. E, cosa migliore di tutte, c’è ogni sorta di cibo. Come questo cioccolato”.

 

Bree ripensa al cioccolato, se lo studia, e i suoi occhi si spalancano non appena realizza che è vero. Toglie delicatamente l’incarto e l’odora. Chiude gli occhi e sorride, abbassa la testa per fare un morso – ma all’improvviso si ferma. Mi guarda preoccupata.

“E tu?” mi chiede. “C’è solo una barretta?”

Bree è questa, sempre premurosa, anche se sta morendo di fame. “Vai prima tu”, le dico. “Okay”.

Toglie l’incarto, e dà un gran morso. La sua faccia, scavata dalla fame, sprofonda nell’estasi.

“Mastica lentamente”, la avverto. “Non vorrai farti venire il mal di pancia”.

Mastica più piano, assaporando ogni morso. Ne stacca un grande pezzo e me lo mette sul palmo. “Tocca a te”, dice.

Lo metto in bocca lentamente, facendo  un piccolo morso, tenendolo sulla punta della lingua. Lo succhio, poi lo mastico a poco a poco, gustandomi ogni istante. Il gusto e l’odore del cioccolato riempiono i miei sensi. È con ogni probabilità la cosa migliore che abbia mai mangiato.

Sasha si lamenta, e avvicina il naso alla cioccolata; Bree stacca un pezzo e glielo offre. Sasha glielo strappa via dalle dita e lo ingoia in un sol boccone. Bree ride divertita, come sempre. Poi, mostrando grande autocontrollo, Bree avvolge la metà rimanente della barretta, stende le braccia verso l’alto e lo ripone saggiamente in alto sul comò, fuori dalla portata di Sasha. Bree sembra ancora debole, ma vedo che inizia a tornarle un po’ di morale .

“Che cos’è?” domanda indicando la mia cintura.

Per un attimo non capisco di cosa stia parlando, poi abbasso lo sguardo e vedo l’orsetto di peluche. Nell’euforia, me ne ero quasi dimenticata. Allungo la mano e glielo porgo.

“L’ho trovato nella casa nuova”, le dico. “È per te”.

Bree spalanca gli occhi euforica e afferra l’orsetto, se lo porta al petto e lo culla.

“Lo adoro!” esclama Bree, con gli occhi che brillano. “Quando ci trasferiamo? Non vedo l’ora”!

Sono sollevata. Prima di riuscire a rispondere, Sasha abbassa la testa e mette il naso sul nuovo orsetto di Bree, mettendosi ad annusarlo; Bree glilo sfrega sul muso per gioco, Sasha lo agguanta e si mette a correre per la stanza.

“Ehi!” urla Bree, che scoppia a ridere sguaiatamente e parte all’inseguimento.

Corrono entrambe per il soggiorno, ormai prese dalla loro caccia all’orsetto. Non so chi si stia divertendo di più.

Le seguo dentro la stanza, stando attenta a reggere la candela per non farla spegnere, e la porto verso il mucchietto di legna. Metto qualcuno dei legnetti più piccoli nel caminetto, poi prendo una manciata di foglie secche dal cestino che c’è accanto. Sono contenta di averle raccolte, lo scorso autunno, con l’idea di usarle per accendere il fuoco. Funzionano alla perfezione. Piazzo le foglie secche sotto i ramoscelli, le accendo e la fiamma raggiunge subito il legno accendendolo. Continuo a mettere foglie nel caminetto, fino a quando i ramoscelli non prendono completamente. Spengo la candela, risparmiandola per la prossima volta che mi servirà.

“Stiamo facendo un fuoco?” grida Bree elettrizzata.

“Sì” le dico. “Stasera festeggiamo. È la nostra ultima sera qui”.

“Yay!” grida Bree, saltando su e giù, mentre Sasha le abbaia accanto, partecipando anche lei all’euforia. Bree si mette a correre, afferra qualche legnetto e mi aiuta a collocarli sul fuoco. Lo alimentiamo con cura, lasciando spazio per l’aria; Bree ci soffia un po’ sopra, dando ossigeno alla fiamma. Come i ramoscelli prendono, piazzo in cima un ceppo più spesso. Continuo ad accatastare legni grossi, fino a quando non viene fuori un fuoco bello vivace.

In pochi istanti, la stanza è tutta illuminata, e si sente già il calore. Stiamo in piedi accanto al fuoco; stendo un po’ le mani, le sfrego, e lascio che il calore mi penetri nelle dita. A poco a poco, va tornando la sensibilità. Lentamente mi scrollo di dosso il freddo dei lunghi giorni passati all’aperto, e inizio nuovamente a sentirmi me stessa.

“Cos’è quello?” domanda Bree, indicando il pavimento. “Sembra un pesce!”.

Va verso il pesce, lo raccoglie, e come cerca di afferrarlo le scivola dalle mani. Si mette a ridere, e Sasha, senza perdere un secondo, ci salta di sopra con tutte le  zampe, facendolo scivolare per il pavimento. “Dove l’hai preso?” urla Bree.

Lo raccolgo prima che Sasha faccia altri danni. Apro la porta e lo lancio fuori, sulla neve, dove si conserverà meglio e rimarrà al sicuro; quindi mi chiudo la porta dietro.

“Questa era l’altra sorpresa”, dico. “Stasera si cena!”.

Bree mi viene di sopra e mi abbraccia forte. Sasha abbaia, come se capisse. L’abbraccio anch’io.

“Ho altre due sorprese per te”, le annuncio con un sorriso. “Sono per dessert. Vuoi aspettare fino a dopo cena? O le vuoi ora”?

“Ora!” urla elettrizzata.

Sorrido, euforica anch’io. Almeno la terrà tranquilla fino alla cena.

Infilo la mano in tasca ed estraggo il barattolo di marmellata. Bree lo guarda divertita, si vede che non sa bene cosa pensare. Svito il coperchio e glielo piazzo sotto il naso. “Chiudi gli occhi”, le dico.

Li chiude. “Ora, inspira”.

Respira profondamente, e un sorriso le attraversa la faccia. Apre gli occhi.

“Odora di lamponi!” esclama.

“È marmellata. Vai. Provala”.

Bree infila due dita, prende un bella palettata e se la mangia. I suoi occhi si illuminano.

“Wow”, esclama, e infila le dita nel barattolo per prenderne un altro bel po’ e avvicinarlo a Sasha, la quale scatta e senza esitare se lo sbafa in un boccone. Mentre Bree ride euforica, stringo il coperchio e ripongo il barattolo sulla cappa, lontano da Sasha.

“Anche quello viene da casa nuova?” domanda.

Annuisco, e mi sento sollevata nel sentire che la considera già la nostra nuova casa.

“E c’è un’ultima sorpresa”, dico. “Ma questa la dovrò conservare per la cena”.

Estraggo il termos dalla cintura e lo metto sulla cappa, fuori dalla sua vista, così che non riesca a vedere cos’è. La vedo che allunga il collo, ma lo nascondo bene.

“Fidati di me”, dico. “È qualcosa di buono”.

*

Non voglio che la casa puzzi di pesce, quindi decido di affrontare il freddo e pulire il salmone all’aperto. Prendo il coltello e mi metto al lavoro sul pesce: lo appoggio su un ceppo e mi metto in ginocchio sulla neve, col salmone accanto. Non so davvero quello che sto facendo, ma ne so abbastanza per capire che non si mangiano testa e coda. Quindi inizio tagliandole via.

Poi intuisco che non si mangiano neanche le pinne, e taglio via anche quelle —né le squame, e cerco di rimuoverle meglio che posso. Dopodiché mi rendo conto che dev’essere aperto per essere mangiato, quindi taglio quanto rimasto esattamente a metà. Si rivela essere bello pieno, rosa dentro, con un sacco di spine. Non so cos’altro fare, e decido che è pronto per essere cucinato.

Prima di rientrare, sento il bisogno di lavarmi le mani. Mi chino, prendo una manciata di neve e mi ci sciacquo le mani; meno male che c’è la neve – di solito devo camminare fino al ruscello più vicino, considerato che non abbiamo acqua corrente. Mi rimetto in piedi, e prima di entrare mi fermo un momento per assicurarmi che qua fuori sia tutto a posto. All’inizio ascolto, come sempre, in cerca di un qualsiasi segno di rumore, o pericolo. Dopo qualche secondo, mi rendo conto che il mondo non può essere più calmo. Finalmente, lentamente, mi rilasso e respiro profondamente: sento i fiocchi di neve sulle guance, mi godo il silenzio perfetto e realizzo quanto sia meraviglioso l’ambiente che mi circonda. I giganteschi pini sono coperti di bianco, la neve cade senza sosta da un cielo violaceo, e il mondo sembra perfetto, come in una favola. Il caminetto risplende dalla finestra e da qui, la nostra casa sembra il posto più accogliente nel mondo.