Kitobni o'qish: «Operazione Presidente»
O P E R A Z I O N E P R E S I D E N T E
(UN THRILLER DI LUKE STONE – LIBRO 5)
J A C K M A R S
Jack Mars
Jack Mars è l’autore bestseller di USA Today della serie di thriller LUKE STONE, che per ora comprende sette libri. È anche autore della nuova serie prequel FORGING OF LUKE STONE, e della serie spy thriller AGENTE ZERO.
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LIBRI DI JACK MARS
SERIE THRILLER DI LUKE STONE
A OGNI COSTO (Libro 1)
IL GIURAMENTO (Libro 2)
SALA OPERATIVA (Libro 3)
CONTRO OGNI NEMICO (Libro 4)
OPERAZIONE PRESIDENTE (Libro 5)
IL NOSTRO SACRO ONORE (Libro 6)
CASA DIVISA (Libro 7)
SERIE PREQUEL CREAZIONE DI LUKE STONE
OBIETTIVO PRIMARIO (Libro 1)
COMANDO PRIMARIO (Libro 2)
AGENTE ZERO SPY SERIES
IL RITORNO DELL’AGENTE ZERO (Libro #1)
OBIETTIVO ZERO (Libro #2)
LA CACCIA DI ZERO (Libro #3)
INDICE
CAPITOLO UNO
CAPITOLO DUE
CAPITOLO TRE
CAPITOLO QUATTRO
CAPITOLO CINQUE
CAPITOLO SEI
CAPITOLO SETTE
CAPITOLO OTTO
CAPITOLO NOVE
CAPITOLO DIECI
CAPITOLO UNDICI
CAPITOLO DODICI
CAPITOLO TREDICI
CAPITOLO QUATTORDICI
CAPITOLO QUINDICI
CAPITOLO SEDICI
CAPITOLO DICIASSETTE
CAPITOLO DICIOTTO
CAPITOLO DICIANNOVE
CAPITOLO VENTI
CAPITOLO VENTUNO
CAPITOLO VENTIDUE
CAPITOLO VENTITRÉ
CAPITOLO VENTIQUATTRO
CAPITOLO VENTICINQUE
CAPITOLO VENTISEI
CAPITOLO VENTISETTE
CAPITOLO VENTOTTO
CAPITOLO VENTINOVE
CAPITOLO TRENTA
CAPITOLO TRENTUNO
CAPITOLO TRENTADUE
CAPITOLO TRENTATRÉ
CAPITOLO TRENTAQUATTRO
CAPITOLO TRENTACINQUE
CAPITOLO TRENTASEI
CAPITOLO TRENTASETTE
CAPITOLO TRENTOTTO
CAPITOLO TRENTANOVE
CAPITOLO QUARANTA
CAPITOLO QUARANTUNO
CAPITOLO QUARANTADUE
CAPITOLO QUARANTATRÉ
CAPITOLO QUARANTAQUATTRO
CAPITOLO QUARANTACINQUE
CAPITOLO QUARANTASEI
CAPITOLO QUARANTASETTE
CAPITOLO QUARANTOTTO
La morte è un destino più dolce che la tirannia.
Eschilo
Due anni dopo…
CAPITOLO UNO
2 novembre
2:35 ora della costa orientale
Vicino al Tidal Basin- Washington DC
“Ok,” disse l’uomo, il fiato che si perdeva in nuvole bianche. “Che ci facciamo qui?”
Era tardi, e la notte era gelida con la pioggerellina che cadeva.
L’uomo si chiamava Patrick Norman, e stava parlando da solo. Era un investigatore, un uomo abituato a trascorrere lunghi periodi di tempo da solo. Parlare da solo faceva parte del lavoro.
Si trovava sul sentiero di cemento lungo la riva. Non c’era nessun altro in giro. Un attimo prima quello che sembrava un senzatetto si trovava disteso sotto dei giornali su una panchina a una cinquantina di metri di distanza. Adesso quell’uomo era sparito, e i giornali erano sparpagliati sul terreno bagnato.
Dal suo punto di osservazione, Norman riusciva a vedere il Lincoln Memorial lontano alla sua destra. Dritto davanti a lui e dall’altra parte del Tidal Basin c’era la cupola del Jefferson Memorial, illuminata da luccicanti azzurri e verdi. Le luci scintillavano sull’acqua.
Norman lavorava in quell’ambito da molto, e quello era il tipo di riunione che gli dava soddisfazione. A tarda notte, in un luogo isolato, con qualcuno che nascondeva la propria identità – rischioso, però era stato esattamente quel tipo di cose ad averlo ripagato, in passato. Altrimenti in quel momento non si sarebbe trovato lì.
Un uomo percorse lentamente il sentiero verso di lui. Era alto, indossava un lungo impermeabile e un cappello dall’ampia falda abbassato sul viso. Norman lo osservò avvicinarsi.
D’un tratto alle sue spalle ci fu del movimento. Norman si voltò, e c’erano altri due uomini. Uno era il senzatetto di prima. Era nero, in pantaloni da lavoro laceri e un pesante parka invernale. Il parka era bagnato e macchiato e sporco. Aveva i capelli ritti in strambi ciuffi e ricci sulla cima della testa. Il secondo uomo era solo un altro indefinito signor nessuno con impermeabile e cappello. Aveva folti baffi neri – se Norman avesse poi dovuto descriverlo, sarebbe stato questo il massimo che avrebbe saputo fare. Era troppo sconvolto sul momento per assorbire tanti dettagli.
“Come posso aiutarvi, signori?” disse Norman.
“Signor Norman,” disse l’uomo alto dietro di lui. Aveva una voce molto profonda. “Penso di essere la persona con cui vuol parlare.”
Norman sentì le spalle crollargli. Stavano giocando. Se quegli uomini avessero voluto fargli del male, probabilmente l’avrebbero già fatto. La cosa lo sollevò un po’ – quella era gente del governo. Fantasmi. Spie. Operativi dell’intelligence, si sarebbero definiti loro. La cosa lo infastidiva anche un po’. Nessuna misteriosa fonte con informazioni per lui. Quelli lì lo avevano trascinato là fuori in una notte piovosa per dirgli… cosa?
Gli stavano facendo perdere tempo.
Norman si voltò di nuovo per guardare in faccia l’uomo. “E lei chi è?”
Fece spallucce. Si mostrò un sorriso appena sotto all’ombra del cappello. “Chi sono non ha importanza. Ha importanza per chi lavoro. E posso dirle che i miei capi non sono contenti del livello del suo lavoro.”
“Sono il meglio che ci sia,” disse Norman. Lo disse senza esitare. Lo disse perché ci credeva. Su altro si poteva discutere. Ma una cosa che non era mai stata messa in questione era la qualità del lavoro che svolgeva.
“È quello che credevano anche loro, quando l’hanno assunta. Penso che sarà d’accordo sul fatto che sono stati pazienti. L’hanno pagata per un anno senza risultati. Però, improvvisamente è passato tutto questo tempo, e adesso i giochi sono quasi fatti. Sono costretti a prendere un’altra direzione, una direzione che speravano di non prendere. Le elezioni si svolgeranno tra cinque giorni.”
Norman scosse il capo. Sollevò le mani, i palmi verso l’alto, sui fianchi. “Cosa posso dirvi? Volevano che trovassi prove di corruzione, e le ho cercate. Non ce ne sono. Quella può essere tante cose, ma non corrotta. Non ha legami con l’attività del marito, né formali né informali. Il marito non gestisce neanche più gli affari quotidiani dell’azienda, e l’azienda non ha contratti governativi, né qui né altrove. Tutti i suoi capitali prematrimoniali vengono gestiti in un blind trust, senza apporto da parte sua – misura che ha preso quando si è guadagnata un posto in Senato quindici anni fa. Non ci sono prove di tangenti di nessun tipo, nemmeno un accenno o una voce.”
“Quindi ha fallito nel trovare qualcosa?” disse l’uomo.
Norman annuì. “Ho fallito nel…”
“Ha fallito, in altre parole.”
Un bagliore di luce apparve nella mente di Norman, una cosa che non aveva considerato perché prima non gli era mai stata chiesta.
“Volevano che trovassi qualcosa,” disse. “Che ci fosse oppure no.”
Gli uomini attorno a lui non dissero nulla.
“Se era così, perché non me l’hanno detto dall’inizio? Avrei detto loro di attaccarsi, e non avremmo mai avuto questa incomprensione. Se volete inventare brutte notizie, non assumete un investigatore. Assumete un pubblicitario.”
L’uomo si limitò a fissarlo. Il suo silenzio, e il silenzio dei suoi due accoliti, era snervante. Norman sentì il cuore accelerare il battito. Gli tremò appena il corpo.
“Ha paura, signor Norman?”
“Di voi? Neanche un po’.”
L’uomo guardò i due dietro a Norman. Afferrarono Norman senza una parola, ciascuno eseguendo su di lui una dolorosa mossa armbar, uno per lato. Gli strattonarono le braccia dietro alla schiena e lo costrinsero a mettersi in ginocchio. L’erba bagnata gli inzuppò istantaneamente i pantaloni.
“Ehi!” urlò. “Ehi!”
Urlare era una vecchia tecnica di fuga che aveva imparato a una lezione di autodifesa anni prima. Era stata di aiuto un paio di volte. Quando si era sotto attacco, urlare più forte che si poteva. La cosa sconvolgeva l’aggressore, e spesso faceva scappare la gente. Nessuno se lo aspettava, perché la gente normale raramente alza la voce. La maggior parte delle vittime non lo fa mai. Era una verità dolorosa – molta gente a quel mondo era stata rapinata o violentata o assassinata perché troppo educata per urlare.
Norman raccolse il fiato per il grido più forte della sua vita.
L’uomo gli strattonò la testa verso l’alto dai capelli e gli ficcò in bocca uno straccio. Era uno straccio grande, bagnato e sporco di petrolio o benzina o di qualche altra sostanza nociva, e l’uomo glielo spinse in profondità. Gli ci vollero molte spinte violente per ficcarlo fino in fondo. Norman non riuscì a credere a quanto arrivò in profondità, e a quanto gli riempisse tutta la bocca. La mascella gli si spalancò al massimo.
Non poteva far tornar su lo straccio. L’odore disgustoso che aveva, il sapore, lo facevano soffocare. La gola gli si mise in moto. Se avesse vomitato, sarebbe morto asfissiato.
“Ga!” disse Norman. “Ga!”
L’uomo gli diede uno schiaffo a lato della testa.
“Zitto!” sibilò.
Gli era caduto il cappello dal capo. Adesso Norman gli vedeva i feroci e pericolosi occhi azzurri. Erano occhi privi di pietà. Erano anche privi di rabbia. O allegria. Non tradivano emozioni di nessun tipo. Dall’interno del cappotto estrasse una pistola nera. Un secondo dopo estrasse un lungo silenziatore. Lentamente, con cautela, senza nessuna fretta, avvitò il silenziatore nella canna della pistola.
“Sa,” disse, “che rumore farà questa pistola quando avrà sparato?”
“Ga!” disse Norman. Gli tremava tutto il corpo senza controllo. Il sistema nervoso era impazzito – così tanti messaggi in arrivo tutti insieme, nel tentativo di spostarsi attraverso l’apparato, che Norman era congelato sul posto. Tutto ciò che riusciva a fare era tremare.
Per la prima volta, si accorse che l’uomo indossava guanti neri di pelle.
“Farà il rumore di un colpo di tosse. È così che la penso io di solito. Qualcuno ha tossito, una volta, e ha cercato di farlo piano per non disturbare nessun altro.”
L’uomo premette la pistola a lato della testa di Norman.
“Buonanotte, signor Norman. Mi dispiace che non abbia svolto il lavoro.”
* * *
L’uomo abbassò lo sguardo sui resti di Patrick Norman, ex investigatore indipendente. Era stato un uomo alto e magro con addosso un trench grigio con sotto un completo blu. Aveva la testa devastata, il lato destro esploso in un grosso foro d’uscita. Attorno alla testa del sangue si riversava sull’erba bagnata e scorreva per il sentiero. Se fosse continuato a piovere, probabilmente il sangue sarebbe stato lavato via.
Ma il corpo?
L’uomo porse la pistola a uno dei suoi assistenti, quello che prima, quella sera, aveva finto di essere un senzatetto. Il senzatetto, che pure indossava i guanti, si accucciò sul corpo e premette la pistola nel palmo destro del morto. Meticolosamente, premette ciascun dito di Norman sulla pistola in vari punti. Lasciò cadere l’arma a circa quindici centimetri dal corpo.
Poi si alzò e scosse la testa con tristezza.
“Che peccato,” disse con accento londinese. “Un altro suicidio. Immagino che trovasse il lavoro stressante. Troppi contrattempi. Troppe delusioni.”
“La polizia ci crederà?”
L’inglese offrì il fantasma di un sorriso.
“Neanche un po’.”
CAPITOLO DUE
8 novembre
3:17 ora dell’Alaska (7:17 ora della costa orientale)
Versanti del monte Denali
Parco nazionale del Denali, Alaska
Luke Stone non si muoveva di un millimetro.
Era accucciato assolutamente immobile su un tetto, dietro a una bassa tromba delle scale esterna fatta di cemento. La notte era pesante e calda – abbastanza da far sì che il sudore gli avesse inzuppato gli abiti. Respirava profondamente, le narici che divampavano, ma non emetteva suono. Il cuore gli batteva nel petto, lento ma forte, come un pugno che picchia ritmicamente su una porta.
Bum-BUM. Bum-BUM. Bum-BUM.
Sbirciò dietro l’angolo dell’annesso delle scale. Dall’altra parte, due uomini barbuti aspettavano con dei fucili automatici sulle spalle. Erano al parapetto dell’edificio, a guardare il porto sotto di loro. Chiacchieravano piano, ridendo di qualcosa. Uno si accese una sigaretta. Luke si allungò verso la gamba e fece scivolare il coltello da caccia a serramanico fuori dal nastro che glielo teneva alla caviglia.
Mentre Luke osservava, apparve il grosso Ed Newsam, che comparve nella visuale da destra, camminando quasi con noncuranza.
Il grosso uomo si avvicinò alle guardie. Adesso lo scorsero. Scorgere Ed Newsam era una frase allarmante. Ed portò le mani vuote in aria, ma continuò ad andare verso di loro. Uno degli uomini ringhiò qualcosa in arabo.
Luke comparve all’improvviso da dietro l’angolo, coltello alla mano. Un secondo, andato. Si precipitò verso di loro, i passi pesanti che scricchiolavano sul tetto di ghiaino. Tre secondi, quattro.
Gli uomini lo sentirono, si voltarono a guardare.
Adesso Ed attaccò, afferrando il più vicino dalla testa, girandogliela ferocemente a destra.
Luke colpì il suo uomo alto sul petto, facendolo cadere a terra. Gli atterrò sopra e ficcò forte il coltello nel pettorale dell’uomo. Lo perforò al primo tentativo. Gli schiacciò una mano sulla bocca, sentendo la peluria della barba. Accoltellò ancora e ancora, dentro e fuori, rapido, come il pistone di un macchinario.
L’uomo si dimenava e si agitava nel tentativo di togliersi di dosso Luke, ma Luke gli schiaffò via le mani e continuò ad accoltellare. Il coltello faceva un rumore liquido ogni volta che perforava.
Le braccia dell’uomo caddero sui fianchi. Gli occhi erano aperti, ed era ancora vivo, ma la voglia di lottare lo aveva lasciato.
Finiscilo. Finiscilo adesso.
Luke inclinò verso l’alto la testa dell’uomo, con la mano libera che ancora schiacciava forte contro alla bocca, e gli passò il coltello a serramanico sulla gola. Ne saltò fuori un getto di sangue.
Fatto.
Luke tenne la mano schiacciata contro la bocca finché l’uomo non se ne fu andato. Fissò il cielo nero della notte, lasciando che la vita rifluisse lentamente fuori dal suo avversario.
“Guarda il tuo uomo,” disse la voce di Ed. “Guarda!”
“Non voglio,” disse Luke. Continuò a fissare il cielo, la grande distesa della galassia della Via Lattea che gli riempiva la visuale. Erano visibili milioni di stelle. Era… non aveva parole per descriverla. Bellissima fu l’unica cosa che gli venne in mente. Voleva guardare quelle stelle per sempre. Sapeva che cosa avrebbe visto se avesse abbassato lo sguardo – aveva guardato già troppe volte, ormai.
“Devi guardare, bello,” disse piano Ed. “È il tuo lavoro, guardare.”
Luke scosse il capo. “No.”
Ma non c’era scelta. Buttò un’occhiata al corpo sotto di lui. La barba nera dello jihadista era sparita. Il volto aspro era stato sostituito dai bei lineamenti di una donna. I capelli ricci e neri adesso erano lunghi e morbidi e castano chiaro.
Luke stava coprendo la bocca di una donna con le mani. I suoi occhi azzurri e morti lo fissavano, ciechi – gli occhi di sua moglie Becca.
Ed adesso sussurrava. “Sei stato tu, bello. L’hai uccisa.”
Luke si svegliò d’improvviso.
Si mise seduto di scatto nella profonda oscurità, il cuore che gli martellava in petto. Era nudo, e aveva il corpo ricoperto di sudore. I capelli erano un lungo groviglio arruffato. La barba bionda era folta quanto quella di un qualsiasi guerriero santo islamico. Con quei capelli e quella barba, e la pelle segnata, poteva tranquillamente passare per un senzatetto.
Era avvolto in un sacco a pelo a mummia – tarato per il freddo estremo, venti gradi sottozero. Fuori dalla piccola tenda, fischiava il vento – la falda della tenda sbatteva rabbiosamente, un rumore così forte che riusciva a malapena a sentire il vento. Era a quasi cinquemila metri sul versante occidentale del Denali, e la montagna era già in pieno inverno. Due giorni prima era scoppiata una tempesta di neve, e il vento non aveva smesso di soffiare.
Non accendeva un fuoco da quando era arrivata la tempesta. In quaranta ore, non aveva lasciato la tenda tranne che per urinare. Era a milleduecento metri dalla sommità, e sembrava che non ci sarebbe arrivato. Alcuni avrebbero detto che non sarebbe arrivato da nessuna parte.
Era salito lassù impreparato in modo deplorevole – se ne era accorto adesso. Aveva portato abbastanza acqua per quattro giorni – era finita due giorni prima. Mangiava neve e ghiaccio per idratarsi, a quel punto. Andava bene così. Il peggio era il cibo. Si era portato un po’ di pasti pronti secchi. Adesso erano per la maggior parte andati. Quando era arrivata la tempesta, aveva cominciato a razionarli. Mangiava meno della metà delle calorie di cui aveva bisogno – per fortuna in due giorni si era appena mosso, e stava conservando le energie.
Non si era preoccupato di portare un fornello da campo. Non aveva una radio, quindi non aveva idea di cosa dicesse il bollettino meteorologico. Era arrivato in elicottero con un pilota privato, e non aveva presentato un itinerario all’assistenza del parco. Nessuno aveva la più pallida idea che lui fosse lì tranne il pilota, e gli aveva detto che l’avrebbe chiamato una volta finito.
“Sto cercando di uccidermi?” disse a voce alta. Rimase sconvolto dal suono della sua voce.
Conosceva la risposta. No. Non necessariamente. Se così fosse stato, ok, ma non stava cercando attivamente di morire. Si potrebbe dire che stava sfidando la sorte, accollandosi rischi assurdi, e che lo stava facendo dalla morte di Becca.
Lui voleva vivere. Voleva solo essere più bravo, a vivere. Se non ci riusciva…
Come marito era stato un fallimento. Come padre era un fallimento. La sua carriera era finita a quarantun anni – era uscito dal lavoro governativo due anni prima e non aveva cercato nient’altro. Non controllava i conti in banca da un po’, ma era ragionevole presumere che avesse quasi finito i soldi. Praticamente l’unica cosa in cui era bravo era sopravvivere in ambienti rigidi e impietosi. E uccidere – era bravo anche in questo. Per il resto era stato un totale e miserabile fallimento.
Poteva morire su quella montagna, ma la prospettiva non gli portava terrore.
Era spento, vuoto… intorpidito.
“Devi cominciare a pensare a come andartene di qui,” disse, ma erano solo chiacchiere – poteva andarsene, oppure no. Sarebbe stato un bel posto dove morire, nonché una cosa semplice da fare. Tutto ciò che doveva fare era… nulla. Alla fine – presto – avrebbe finito il cibo. Bere neve sciolta non lo avrebbe sostenuto a lungo. Gradualmente si sarebbe fatto più debole, finché non gli sarebbe stato impossibile scendere dalla montagna da solo. Sarebbe morto di fame. A un certo punto si sarebbe appisolato per non svegliarsi più.
Come fare a decidere? Come fare a decidere?
Di colpo urlò, inconsapevole del gesto finché non emise suono.
“Dammi un segno! Mostrami cosa devo fare!”
Proprio allora il telefono fece una cosa che non faceva da molto tempo – squillò. Il rumore lo fece saltare, e il cuore perse un colpo. La suoneria era il più forte possibile. Il motivetto era una canzone rock che suo figlio Gunner gli aveva messo nel telefono due anni prima. Luke non l’aveva mai cambiata. Anzi, l’aveva proprio tenuta di proposito. Faceva tesoro di quella canzone come dell’ultimo collegamento tra di loro.
Guardò il telefono. Gli ricordò una cosa viva, una vipera velenosa – si doveva fare attenzione nel maneggiarlo. Lo raccolse, guardò il numero e rispose.
“Pronto?”
Il rumore era confuso. Naturalmente la spessa tenda stava bloccando il segnale del satellite. Doveva uscire per rispondere a quella telefonata – un pensiero poco bello.
“Devo richiamare!” urlò nel microfono.
Persino muovendosi rapidamente, ci vollero molti minuti per assemblare lo strato di abiti necessario e vestirsi. Fuori faceva troppo freddo per vestirsi a metà. Tirò giù la zip della tenda, strisciò fuori dalla minuscola entrata e si spinse fuori nelle intemperie. Il vento e il pungente ghiaccio lo colpirono in volto tutto in una volta. Avrebbe fatto meglio a sbrigarsi.
Appese un faretto lampeggiante alla struttura della tenda e incespicando si allontanò dal rumore del tessuto che sbatteva nella neve profonda. Portò con sé una torcia potente, girandosi ogni qualche metro a segnare l’ubicazione del campo. Non c’erano luci là fuori, e la visibilità era di circa venti metri. La neve e il ghiaccio gli vorticavano attorno.
Premette il pulsante per chiamare e portò il telefono all’interno del cappuccio del parka. Rimase in piedi come una statua, in ascolto dei segnali acustici mentre il telefono stringeva la mano al satellite e tentava di avviare la chiamata.
“Stone?” disse una profonda voce maschile.
“Sì.”
“Resti in attesa per parlare con la presidente degli Stati Uniti.”
Fu un’attesa breve.
“Luke?” disse una voce femminile.
“Signora presidente,” urlò Luke. Non poté evitare di sorridere. “Da quanto tempo.”
“Troppo,” disse Susan Hopkins.
“A cosa devo l’onore?”
“Ho dei problemi,” disse lei. “Devi venire.”
Luke ci pensò per un attimo. “Oh, sono lontanissimo da tutto al momento. Sarà un po’ difficile arrivare…”
“Non importa,” disse Susan. “Ovunque tu sia, mando un aereo. O un elicottero. Qualsiasi cosa ti serva.”
“Un grosso e amichevole San Bernardo sarebbe un buon inizio,” disse Luke. “Con uno di quei barilotti di whiskey al collo.”
“Fatto. Ti porta anche un panino, nel caso avessi fame.”
Luke quasi rise. “Fame è un eufemismo. E quando ho finito di mangiare, avrò davvero bisogno di quell’elicottero.”
“Fatto anche questo. Prima che riappendiamo, ti passo qualcuno che possa prendere le tue coordinate e che mandi qualcuno a prenderti. Ci facciamo in quattro, qua. Crediamo nel servizio porta a porta.”
Luke dovette ammettere di sentire un rapido bagliore di sollievo. Pochi momenti prima non vedeva modo di andarsene da quella montagna, nessuna seconda chance per la vita. Adesso ne aveva una. Prima non lo sapeva se voleva morire o vivere – ma adesso lo sapeva con sicurezza. Lo capì dall’accelerazione del sangue quando Susan menzionò un modo per andarsene di lì. Intellettualmente, ancora non lo sapeva, ma visceralmente, il suo corpo glielo diceva.
Voleva vivere.
Nonostante tutto l’inferno che aveva passato, in qualche modo voleva vivere.
“Che succede?” disse Luke.
Susan esitò, e aveva la voce leggermente scossa. Lui lo sentì anche attraverso il vento che gli soffiava attorno. “Ieri ci sono state le elezioni.”
Luke prese in considerazione la cosa. Era disconnesso da tanto tempo che non aveva idea di che giorno fosse. Da qualche parte, lontanissimo, in un altro mondo, la gente faceva ancora campagna elettorale per la carica. Le ruote del governo continuavano a girare. C’erano politiche da discutere e importanti decisioni da prendere. C’era copertura mediatica, e mezzibusti che si urlavano addosso l’uno con l’altro. Era un po’ che non pensava a queste cose. Anzi, si era quasi dimenticato della loro esistenza.
Tra loro passò una lunga pausa.
“Luke,” disse Susan. “Ho perso le elezioni.”