Faqat Litresda o'qing

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Kitobni o'qish: «Racconti fantastici»

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Iginio Ugo Tarchetti
RACCONTI FANTASTICI

I FATALI

Esistono realmente esseri destinati ad esercitare un’influenza sinistra sugli uomini e sulle cose che li circondano? È una verità di cui siamo testimonii ogni giorno, ma che alla nostra ragione freddamente positiva, avvezza a non accettare che i fatti i quali cadono sotto il dominio dei nostri sensi, ripugna sempre di ammettere.

Se noi esaminiamo attentamente tutte le opere nostre, anche le più comuni e le più inconcludenti, vedremo nondimeno non esservene una da cui questa credenza ci abbia distolti, o a compiere la quale non ci abbia in qualche maniera eccitati. Questa superstizione entra in tutti i fatti della nostra vita.

Molti credono schermirsene asserendo per l’appunto non esser ella che una superstizione, e non s’avvedono che fanno così una semplice questione di parole. Ciò non toglierebbe valore a questa credenza, poichè anche la superstizione è una fede.

Noi non possiamo non riconoscere che, tanto nel mondo spirituale quanto nel mondo fisico, ogni cosa che avviene, avvenga e si modifichi per certe leggi d’influenze di cui non abbiamo ancora potuto indovinare intieramente il segreto. Osserviamo gli effetti, e restiamo attoniti e inscienti dinanzi alle cause. Vediamo influenze di cose su cose, di intelligenze su intelligenze, e di queste su quelle ad un tempo; vediamo tutte queste influenze incrociarsi, scambiarsi, agire l’una sull’altra, riunire in un solo centro di azione questi due mondi disparatissimi, il mondo dello spirito e il mondo della materia.

Fin dove la penetrazione umana è arrivata noi abbiamo portato la nostra fede; il segreto dei fenomeni fisici è in parte violato; la scienza ha analizzato la natura; i suoi sistemi, le sue leggi, le sue influenze ci sono quasi tutte note: ma essa si è arrestata dinanzi ai fenomeni psicologici, e dinanzi ai rapporti che congiungono questi a quelli. Essa non ha potuto avanzarsi di più, e ha trattenuto le nostre credenze sulla soglia di questo regno inesplorato. Poichè nell’ordine dei fatti noi possiamo ammettere delle tesi generali, delle verità complesse; non nell’ordine delle idee.

Dove i fatti sono incerti, le idee sono confuse. Avvengono fatti che non presentano un carattere deciso, sensibile, ben definito, e che la nostra ragione calcolatrice non sa se negare od ammettere. Vi sono perciò idee incomplete, oscure, fluttuanti, che non possono presentarsi mai sotto un aspetto chiaro, e che non sappiamo se accettare o respingere. Questa incertezza di fatti, questa incompletazione di idee, questo stato di mezzo tra una fede ferma e una fede titubante, costituiscono forse ciò che noi chiamiamo superstizione – il punto di partenza di tutte le grandi verità. Perchè la superstizione è l’embrione, è il primo concetto di tutte le grandi credenze.

Qualora io vedo una superstizione impadronirsi dell’anima delle masse, io dico che in fondo ad essa vi è una verità, poichè noi non abbiamo idee senza fatti, e questa superstizione non può essere partita che da un fatto. Se esso non si è ancora rinnovato e generalizzato per confermarla, egli è che la via dell’umanità è lunga – più lunga quelle delle cose – e nessuno può determinare il tempo e le circostanze in cui potrà ripetersi. Gli uomini hanno adottato un sistema facile e logico in fatto di convenzioni; ammettono ciò che vedono, negano ciò che non vedono; ma questo sistema non ha impedito finora che essi abbiano dovuto ammettere più tardi non poche verità che avevano prima negate. La scienza e il progresso ne fanno fede. Del resto, comunque sia, per ciò che è fede nelle influenze buone e sinistre che uomini e cose possono esercitare sopra di noi, non v’è uomo che non ne abbia una più o meno salda, più o meno illuminata, più o meno confermata dall’esperienza della vita. Tutto al più si tratterebbe di riconoscere se essa abbia o no ragione di essere, e fino a qual punto debba venire accettata, non di negarla – poichè l’esistenza di questa fede è indiscutibile.

Io ne trovo dovunque delle prove. Per me l’antipatia non è che una tacita coscienza dell’influenza fatale che una persona può esercitare sopra di noi. Nelle masse ignoranti questa coscienza ha creato la jettatura, nelle masse colte la prevenzione, le diffidenza, il sospetto.

Non v’è cosa più comune che udire esclamare: «quell’uomo non mi piace – non vorrei incontrarmi per via con quella persona – mi fa paura – d’innanzi a lui io non sono più nulla – ogni qualvolta mi sono imbattuto in quell’uomo mi è accaduta una sventura.» Nè questa fede che si presenta sotto tanti aspetti, che quasi non avvertiamo, che è pressochè innata con noi come tutti gli istinti di difesa che ci ha dato la natura, è sentita esclusivamente da pochi uomini – essa è, in maggiori o minori proporzioni, un retaggio naturale di tutti.

Questa superstizione accompagna l’umanità fino dalla sua infanzia, è diffusa da tutti i popoli. Gli uomini di genio, quelli che hanno molto sofferto, vi hanno posto maggior fede degli altri. Il numero di coloro che credettero essere perseguitati da un essere fatale è infinito: lo è del paro il numero di quelli che credettero essere fatali essi stessi, Hoffman, buono ed affettuoso, fu torturato tutta la vita da questo pensiero.

Non giova dilungarsi su ciò, perchè la storia è piena di questi esempi, e ciascuno di noi può trovare nella sua vita intima le prove di questa credenza quasi istintiva.

Io non voglio dimostrarne nè l’assurdo nè la verità. Credo che nessuno lo possa fare con argomenti autorevoli. Mi limito a raccontare fatti che hanno rapporto con questa superstizione.

* * *

Nel carnevale del 1866 io mi trovava a Milano. Era la sera del giovedì grasso, e il corso delle maschere era animatissimo. Devo però fare una distinzione – animatissimo di spettatori, non di maschere. Chè se la taccia di fama usurpata, così frequente, e spesso così giusta in arte, potesse applicarsi anche alle feste popolari, il carnevale di Milano ne avrebbe indubbiamente la sua parte. Queste feste non sono più che una mistificazione, ed hanno ragione di esserlo, giacchè le migliaja di forastieri che vengono annualmente ad assistervi non sono però meno convinti di divertirsi. Tutto stava nell’istillar loro la persuazione che il carnevale di Milano fosse la cosa più comica, più spiritosa, più divertente di questo mondo. Una volta infuso questo convincimento, non erano più necessari i fatti per confermarlo – lo scopo di divertire era ottenuto.

Comunque fosse, il Carnevale del 1866 non era meno animato degli altri, e nelle prime ore della sera del giovedì grasso, la popolazione si era versata sulle strade a torrenti. La folla aveva talmente stipate le vie che in alcuni punti era impossibile muoversi e presso la crociera della via di S. Paolo, ove mi trovava io, si era letteralmente pigiati.

Gli onesti milanesi si frammischiavano fraternamente ai forestieri, e si inebbriavano del piacere di guardarsi l’un l’altro nel bianco degli occhi – ciò che costituisce l’unico, ma ineffabile divertimento di questo celebre Carnevale.

Non so da quanto tempo io mi trovassi colà, in piedi, in mezzo a quella gran ressa, in una posizione incomodissima, allorchè voltandomi per vedere se v’era mezzo di uscirne, osservai intorno a me uno spettacolo assai curioso.

La folla non si era diradata, ma si era ristretta in modo da lasciare in mezzo a sè uno spazio circolare abbastanza vasto. Nel centro di questo circolo miracoloso v’era un giovinetto che non mostrava aver più di diciotto anni, ma cui, a guardarlo bene, se ne sarebbero dati venticinque, tanto il suo volto appariva patito, e tante erano le traccie che v’erano impresse d’una esistenza travagliata e più lunga. Era biondo e bellissimo, eccessivamente magro, ma non tanto che la bellezza dei lineamenti ne fosse alterata; aveva gli occhi grandi ed azzurri, il labbro inferiore un po’ sporgente, ma con espressione di tristezza più che di rancore; tutta la sua persona aveva qualche cosa di femminile, di delicato, di ineffabilmente grazioso, qualche cosa di ciò che i francesi dicono souple, e che io non saprei esprimere meglio con altra parola della nostra lingua. La purezza e l’armonia delle sue linee erano meravigliose; egli vestiva con estrema eleganza; e guardava quà e là, un poco alla folla e un poco alle maschere, con aria malinconica e divagata come se si trovasse in quel luogo a suo dispetto, e fosse più occupato di sè che dello spettacolo poco allettante che aveva d’innanzi allo sguardo.

Ma ciò che mi era parso rimarchevole era che egli sembrava non essersi avveduto di quel circolo che s’era formato d’intorno a lui, nè alcuni di quelli stessi che lo avevano formato mostravano di averci posto mente. Non era nulla in ciò di veramente straordinario; pure l’esistenza di uno spazio così vasto in mezzo ad una folla così fitta, in mezzo ad una moltitudine che si moveva, fremeva, ondeggiava come un corpo solo, senza riempire mai il vuoto che s’era formato in quel punto, mi pareva cosa meritevole di attenzione. Si sarebbe detto che da quel giovine emanasse un fluido ripulsivo, una virtù misteriosa atta ad allontanare da lui tutto ciò che lo circondava.

In quell’istante che io lo stava guardando, essendogli stati gettati alcuni confetti, di cui parecchi si fermarono tra le pieghe del suo mantello che teneva avviluppato sul braccio, un fanciulletto si spiccò dal circolo e gli venne d’appresso quasi per domandarglieli, giacchè egli nè li aveva presi, nè aveva scosso il mantello per farli cadere.

Il giovine lo guardò con affetto, raccolse le confetture, gliele diede; e prima che si allontanasse gli passò una mano tra i capelli con una specie di tenerezza piena di soavità e di malinconia.

Egli aveva posto tanto affetto in quell’atto che, ove anche la natura non lo avesse dotato di un volto così dolce e così simpatico, lo si sarebbe subito giudicato buono e cortese.

È un fatto che il volto è lo specchio dell’anima: non si può indovinare se la natura abbia dato ella stessa un’espressione buona ai buoni, e cattiva ai cattivi; o se la bontà e la malvagità umana possano talmente agire sulle nostre fattezze da modificarle e da imprimervi il loro suggello; ma egli è ben certo che il cuore trasparisce dal viso, anche da quelli la cui bellezza vorrebbe nascondere un animo turpe, o la cui laidezza uno onesto.

Io non mi sarei stancato mai di guardarlo. Non so se le affezioni degli altri uomini sieno governate da questa legge di simpatie e di antipatie improvvise, energiche, inesorabili cui vanno soggette le mie, – per me l’innamorarmi di un uomo o di una donna, il concepire un’inclinazione od un’avversione irresistibile per una creatura qualunque non fu mai opera che di pochi minuti – ma mi ricordo che l’avrei abbracciato lì sulla via, tanto l’espressione del suo volto era affettuosa, tanto quel linguaggio andava dritto al cuore, senza dar campo alla ragione di discuterci sopra.

Non mi mossi di là finchè non se ne mosse egli pure. La festa incominciava a languire, la folla incominciava a diradarsi, e il crepuscolo ad avvolgere tutta quella scena in un penombra grigia e pesante. Eravamo a due passi da un caffè, ed egli vi entrò con aria d’uomo che non sa come passare il suo tempo, che sente il peso delle sue braccia, delle sue gambe, di tutta la sua persona, e che vorrebbe sbarazzarsene e buttarlo là sopra un divano come un fardello noioso ed inutile. Io era nello stesso caso, non aveva che fare, e gli tenni dietro.

Ci sedemmo di faccia, io a guardarlo, egli a leggere. Se non che egli pareva sì poco occupato della sua lettura, che se anche avesse afferrato il giornale pel rovescio credo che non se ne sarebbe avveduto. I suoi occhi erano fissi sulle colonne di quel diario, ma sembravano guardare di dentro piuttostochè di fuori, parevano aver concentrata tutta la loro virtù visiva in sè medesimi, e non occuparsi che di ciò che avveniva nell’animo del giovine.

Io non aveva però avuto che il tempo di fare questa riflessione, allorchè dietro la vetrina della finestra scorsi un nuovo affollarsi di gente e sentii come delle grida femminili; stavo per alzarmi allorchè si aperse la porta del caffè, e ne fu recato dentro un fanciullo svenuto, il quale era stato travolto dalle ruote di una vettura, e ne aveva avuto un braccio spezzato. Rimasi dolorosamente colpito dal riconoscere in quel fanciullo quello stesso che l’incognito aveva accarezzato in mezzo a quel circolo, e a cui aveva regalato i confetti caduti sul suo mantello.

Per un moto istintivo diressi lo sguardo dalla sua parte, e lo scorsi nell’istante che usciva frettolosamente dalla sala. Il suo volto riflesso in quel momento da uno specchio che era di fronte a me, mi parve pallidissimo.

Io abbandonai poco dopo quel caffè in preda a tristi pensieri.

In quella sera stessa doveva aver luogo alla Scala una rappresentazione straordinaria.

L’opera annunciata era la Sonnambula, e il pubblico vi era accorso numeroso ad ascoltare quella musica divina, così piena, così complessa nella sua semplicità, così affettuosa. Si era rappresentata poco prima l’Africana – da Mayerbeer a Bellini la differenza almeno, se non la distanza, era ben grande. Il teatro era illuminato a giorno, la platea era stipata di uditori; e non v’erano altri palchi vuoti da cinque o sei all’infuori, posti tutti nello stesso punto; e in uno dei quali riconobbi con mia grande sorpresa il giovine che aveva veduto poco prima assistendo al corso delle maschere.

Egli era solo e non mi sembrava più nè sì triste, nè sì pensieroso. Vestiva un abito nero molto elegante, ma nulla dimostrava che fosse avvezzo a prendere gran cura della sua persona. Non so se fosse inganno mio, o allucinazione, e che altro, ma egli mi pareva straordinariamente bello, assai più di quanto mi fosse sembrato poche ore prima.

Vi era sul suo volto qualche cosa di luminoso, qualche cosa di quella trasparenza profonda, benchè torbida, benchè appannata, che ha l’alabastro. Egli aveva difatto la stessa pallidezza: a non guardarne gli occhi, a non esaminare la mobilità prodigiosa dei lineamenti, lo si sarebbe detto morto o impietrito. I suoi capelli conservavano ancora quella finezza, quella arrendevolezza, quella lucidità, quell’arricciamento semplice e naturale che hanno i fanciulli; erano di un biondo meraviglioso, e lucevano come fili d’oro al riflesso delle fiamme dei candelabri. Teneva appoggiato il gomito al parapetto, e la guancia sulla mano: la sua testa così inclinata pareva ancora più bella. Egli aveva quella specie di bellezza che hanno le donne, e che ritrae dalla luce un prestigio misterioso e affascinante. A contemplare dalla platea – d’onde non si vedeva il resto della persona – quella sua testa così diafana e così bianca, la si sarebbe creduta appartenere ad un fanciullo, ad una creatura fragile e delicata, forse ad un essere sopranaturale.

Io solo aveva rimarcato cosa che mi pareva avere una strana relazione con ciò che aveva osservato prima al corso delle maschere, voglio dire quel trovarsi egli così isolato in un palco intorno al quale ve n’erano cinque o sei altri vuoti, mentre non era possibile vederne da tutte le altre parti del teatro un solo che non fosse occupato – bisognava aver osservato prima l’accidente del circolo, per trovar causa di meraviglia in questo fatto, – ma gli spettatori erano stati unanimi nell’avvertire la sua bellezza e nell’ammirarla, nè tardai ad accorgermi che le signore sopratutto ne erano state colpite, e gareggiavano nel dirigere i loro cannocchiali verso il suo palco.

Tra quelle di esse che erano riuscite ad attirarsi più facilmente la sua attenzione, vi era una fanciulla che era pure assai bella, ed occupava un palco non molto lontano da quello del giovine. Come avviene a tutte le ragazze veramente ingenue, non di quella ingenuità convenzionale che esse devono ostentare spesso come una parte di commedia, fino a che il marito non le autorizza a rappresentare una parte diversa, ma di quella ingenuità vera che ha la sua radice nella verginità della mente e del cuore, essa ne era rimasta fortemente e subitamente impressionata. Era troppo giovine per sapersi già infingere, e credo di non essere stato io solo ad avvedermi del suo turbamento e della sua agitazione.

Assistetti per un po’ di tempo a quella specie di rapporto misterioso che s’era stabilito tra di loro, mi cacciai come un intruso in quella specie di corrente magnetica che avevano formato i loro sguardi; poi quasi vergognandomi di quello spiare, di quell’ammiccare alla loro felicità, come un pitocco che assista ad un banchetto dalla soglia della stanza, e non possa fruire che del profumo delle salse e delle vivande, mi raccolsi in me stesso, e procurai di rivolgere tutta la mia attenzione allo spettacolo dell’opera.

Dico che me n’era vergognato, ma per me solo. Che se v’è qualche cosa al mondo, d’innanzi alla quale io non sappia nè sogghignare per sprezzo nè piangere per pietà, è la vista di due persone che si amano. Mi sono cacciato spesso di notte sotto i viali pubblici, sotto i boschetti di tigli, appositamente per incontrarvi qualche coppia d’innamorati; e non mi venne mai di passar vicino ad una di esse senza sentirmi compreso da un sentimento di rispetto profondo. Lo confesso, furono quelli i soli istanti della mia vita, in cui i miei simili mi sieno sembrati meno tristi del solito.

Era così riuscito a poco a poco ad occuparmi interamente della rappresentazione, e non aveva più alzato gli occhi verso il palco di quello sconosciuto, allorchè avvedendomi d’un movimento improvviso che si manifestava negli spettatori, e scorgendo la folla addensarsi verso la porta, mi mossi io pure e entrato a stento nel vestibolo, vidi passarvi due signori che reggevano sulle loro braccia una fanciulla svenuta, e la trasportavano in una delle sale del teatro.

Non dirò quale fosse la mia meraviglia nel ravvisare in lei quella stessa fanciulla che aveva guardato con tanto affetto e con tanta insistenza il mio incognito. Tutto ciò che era accaduto non poteva essere stato che un capriccio del caso: pure era la seconda volta nel termine di poche ore, che io vedeva una persona alla quale egli aveva dato segno di predilezione, venir colpita improvvisamente da una sventura.

Rientrai nella platea.

Egli occupava ancora il suo posto, era rimasto nella posizione di prima colla guancia appoggiata alla mano; ma il suo volto coloritosi improvvisamente di un rossore vivace, era tornato in un istante di una pallidezza cadaverica. Non era difficile accorgersi che egli soffriva, che s’era avveduto degli sguardi curiosi e quasi reprensivi di cui era fatto oggetto, e che non era rimasto immobile al suo posto che per dissimulare la sua commozione, e per non accusare in certo modo quella specie di complicità che aveva avuto in quell’avvenimento.

Allorchè parve che il pubblico avesse cessato di occuparsi di lui, egli uscì dal teatro, e ne uscii io pure.

Nessuno conosceva forse il caso assai più deplorevole che aveva avuto luogo poche ore prima: nessuno aveva forse rimarcata la circostanza singolare e incomprensibile di quella specie di vuoto che egli pareva formare intorno a sè, nè aveva posto mente ai rapporti che sembravano congiungere tutti questi fatti, ma io ne era tutto in pensiero. Era evidente esservi in lui qualche cosa di inesplicabile e di fatale.

Io lo aveva veduto solo nel seno di uno spazio formato quasi miracolosamente in mezzo ad un folla fittissima, aveva veduto rinnovarsi lo stesso caso in un teatro ripieno di spettatori; aveva veduto un fanciullo che aveva ricevuto le sue carezze venir travolto dalle ruote di una carrozza, e una fanciulla osservata da lui, essere colta da un malessere improvviso. Non mi pareva possibile che una pura combinazione avesse dato luogo a questa serie di avvenimenti. E se così non era, chi era dunque egli? Quale era l’influenza che poteva esercitare quell’uomo?

* * *

Otto giorni dopo io mi trovava al caffè Martini – quel convegno di artisti che non lavorano, di cantanti che non cantano, di letterati che non scrivono, e di eleganti che non hanno uno spicciolo – e si parlava, raccolti in buon numero attorno ad un tavolo, d’una specie di pasticcio di nuova invenzione, qualche cosa di consimile al pudding, che era stato aggiunto quel giorno alla nota delle vivande del ristorante.

Da questo soggetto la conversazione era caduta, filtrando per l’idea del pudding e dell’oca di cui le classi ricche a Londra usano regalare le classi povere nel giorno di Natale, sul discorso che la regina d’Inghilterra aveva fatto allora al parlamento.

Una frase di questo discorso aveva dato un gran colpo alla discussione e l’aveva gettata di balzo sulle eventualità d’una guerra in Italia. Da ciò, giù per la china delle opinioni e delle antiveggenze personali si era arrivati ai pronostici; e dai pronostici ai presagi; e da questi, entrando nel campo della vita intima, alle fatalità, alle stregature, alle malie; per modo che cinque minuti dopo aver difeso a spada tratta l’eccellenza di questo pasticcio di nuova invenzione, io raccontava a quel circolo di sfaccendati gli avvenimenti incomprensibili di cui era stato testimonio pochi giorni prima a proposito di quel giovine incognito.

Inutile dire che si rise di me e che non mi si volle prestar fede; il fatto della fanciulla svenuta poche sere innanzi era bensì noto, ma le cause, dicevano essi, dovevano essere diverse. Nondimeno il soggetto di questa nuova deviazione del nostro discorso era stato trovato interessante, e la conservazione dopo aver fluttato su tanti argomenti, si era arrestata saldamente su questo. Ciascuno esponeva le proprie idee, ciascuno aveva qualche cosa a raccontare a questo riguardo. E come avviene ogni qualvolta ci affacciamo a questo mondo pauroso dell’incomprensibile e del soprannaturale, che se ne ride da principio per ostentazione di coraggio e si finisce coll’atterrirsi di ciò che si ascolta, e spesso di ciò che abbiamo raccontato noi stessi, ciascuno di noi si sentiva compreso da un sentimento misto di paura e di meraviglia, e si affannava a riannodare e a rinfocare la conversazione ogni qualvolta questa mostrava di languire, con quell’insaziabilità che hanno i fanciulli di ascoltare i racconti spaventevoli dei maghi e delle fate.

Avevamo pressochè esaurito tutto il repertorio delle nostre cognizioni su questa tesi, allorchè un vecchio artista da teatro che tutti noi conosciamo da tempo – una dalle cariatidi più celebri di quel caffè – si alzò da un tavolo vicino da cui era stato ascoltando, e venne a prender posto nel nostro circolo.

– Il signore ha ragione, diss’egli, accennandomi col dito. Io non conosco il giovine di cui egli ha parlato poco fa, e non posso far fede dell’influenza che gli attribuisce, ma che esistano uomini siffattamente fatali, anzi assai più fatali di quel giovine, non è cosa da potersi mettere in dubbio. Chi di voi ha sentito nominare il conte Corrado di Sagrezwitcth?

– Nessuno.

– È strano, giacchè egli si è formato in quasi tutti gli Stati d’Europa e in molte delle provincie degli Stati Uniti una terribile reputazione. Egli è considerato come l’uomo più fatale di cui si abbia memoria, la sua presenza segnala dovunque una sventura immancabile, egli si è trovato sempre sul teatro delle calamità più terribili, ha assistito ai disastri più spaventosi. Egli si trovava nell’America del Sud allorchè bruciò la chiesa di S. Jago in cui perirono più di mille persone; egli viaggiava or fanno due anni sulla ferrovia del Pacifico allorchè avvenne quello scontro in cui perdettero la vita più di trecento viaggiatori; egli era a Pietroburgo allorchè rovinò il palazzo del principe di Jakorliff in cui tante nobili dame e tanti dignitari dello Stato trovarono la morte. Nelle miniere irlandesi e in quelle di Alstau Moor in Scozia – luoghi che egli ha spesso visitati – il suo nome non viene ascoltato mai senza spavento; ogni sua visita ha segnalato qualcuna di quelle catastrofi che sono tanto frequenti e tanto temute nelle miniere. Il conte di Sagrezwitcth è stato già parecchie volte in Italia; vuolsi che egli si trovasse a Torino all’epoca della convenzione allorchè avvennero i fatti luttuosi di settembre, ma nessuno, per quanto io sappia, ve lo ha veduto.

– E voi lo conoscete?

– L’ho incontrato quattro volte ne’ miei viaggi. Voi sapete che io ho percorso come artista e come impresario teatrale, quasi tutta l’Europa e una buona metà del Nuovo Mondo. È forse perciò che ho potuto essere edotto dell’esistenza di quest’uomo straordinario, e conoscerlo personalmente. La prima volta che lo vidi fu a Berlino dove esordii nel capolavoro di Mozart colla parte di D. Giovanni. Lo incontrai poscia in una sala di caffè a Nuova York, allorchè ferveva ancora in America la guerra di secessione, e precisamente alla vigilia dell’ultima disfatta dei separatisti, e la terza volta che mi imbattei con esso fu di nuovo a Berlino....

– E di che paese è egli?

– Alcuni vogliono americano, alcuni polacco. Nessuno ne conosce con certezza la patria, forse nemmeno il nome. In America si faceva chiamare coll’appellativo di Duca di Nevers, in Europa conservò sempre il nome di conte di Sagrezwitcth; i minatori scozzesi lo chiamano l’uomo fatale. Egli parla correttamente molte lingue, ha le abitudini e i costumi di tutti i paesi che ha visitato; in Italia è italiano, in Inghilterra è inglese, e in America è americano modello…

– E che età può avere?

– Mostra cinquant’anni, ma i suoi capelli e la sua barba nerissima non hanno ancora alcun segno di canizie. È un uomo di statura mezzana, di aspetto antipatico, benchè le sue fattezze sieno regolari e in qualche modo leggiadre. Porta quasi sempre nell’inverno un berretto di pelo a foggia di turbante, e suol vestire volontieri i costumi dei paesi in cui si trova. A giudicarne dallo sperpero che egli fa ordinariamente del suo danaro, lo si direbbe assai ricco; nondimeno fu visto parecchie volte alloggiarsi in osterie di second’ordine, e tenere un regime di vita molto economico. A Nuova York, per esempio, era bensì alloggiato all’albergo del Fifth-Avenue, quel colosso di marmo che ha mille e duecento stanze, ma vi occupava un letto della sala di riposo concessa ai viaggiatori che dispongono di mezzi assai limitati. È fama che egli abbia coscienza della sua fatalità, e che si compiaccia di esercitarla. Quel suo recarsi continuo da un capo all’altro del mondo non può essere senza uno scopo. Del resto si sa che egli non ebbe mai affetti, non amicizie, forse nemmeno conoscenze, toltene alcune poche e superficialissime. Coloro che ne conoscono la potenza lo sfuggono per progetto, quelli che la ignorano, per istinto. – Che vi sieno persone che gli negano questo potere, questa specie di missione arcana e terribile, riprese egli vedendo che alcuni di noi sorridevano con aria di incredulità, è cosa naturalissima. Nessuno può provare che le sciagure avvenute nei luoghi ove egli si è trovato, e negli istanti in cui vi si è trovato, abbiano avuto una causa nella sua volontà, o in ciò che noi chiamiamo la sua influenza. Egli è d’altronde un uomo come tutti gli altri; parla, veste, opera come tutti gli altri; volendo è affabile e gentiluomo, vi è nulla a che opporre; ma parmi cecità il negare cosa che la maggior parte degli uomini ha ammesso, il negare perchè non si comprende.

– Noi non neghiamo, gli diss’io, dubitiamo. Ma, a proposito, avete dimenticato di dirci dove l’avete incontrato la quarta volta.

– Ah! riprese egli un poco rassicurato dalle mie parole. Quest’ultimo incontro ha una data molto recente. Io lo vidi due mesi or sono a Londra, allorchè vi bruciò il teatro della regina. Seppi anzi che egli aveva intenzione di passare presto in Italia, e se egli ha scelto questa stagione per venirvi, vi è nulla di più probabile che le feste del carnovale lo abbiano condotto a Milano.

– A Milano!

– Sì, e desidererei che lo vedeste. Non so dirvi il motivo di questo desiderio, pure mi sembra che al solo vederlo potreste comprendere il perchè di tante cose che io non posso spiegarvi; mi pare che non potreste più dubitare della verità della mia asserzione. – Osservereste, riprese egli dopo qualche istante, una cosa assai rimarchevole nel suo abbigliamento, voglio dire la freschezza e la finezza de’ suoi guanti che egli suole mutare più volte in un sol giorno, per modo che nessuno l’ha mai veduto a mani scoperte; e un’altra singolarità non meno notevole nella sua persona, cioè la potenza del suo sguardo, un non so che di magnetico e di inesplicabile che vi è in lui, e che vi sforza quasi a guardarlo e a salutarlo vostro malgrado.

– A salutarlo! esclamammo noi sorridendo.

– Sì, a salutarlo.

– Oh! vorrei vederlo!

– Davvero!

– Vorremmo vederlo!

In quell’istante – potevano essere le due dopo mezzanotte – si aperse l’uscio del caffè, e un uomo pingue e tarchiato entrò nella sala. Al ritratto che ci era stato delineato poco prima, al berretto di pelo, alle mani calzate da guanti freschissimi, all’espressione singolare del suo volto, noi non tardammo a riconoscere in lui l’uomo di cui si era parlato. Allora, o fosse meraviglia, o fosse confusione di idee prodotta da quella sorpresa, ci alzammo unanimemente a salutarlo. Egli portò la mano al berretto con atto di cortesia schietto ma moderato, e si sedette all’altra estremità della stanza.

Io non posso esprimere la confusione, la meraviglia, il dispetto che s’impadronì di noi in quell’istante. Comprendevamo di esserci mostrati deboli verso di lui, verso di noi stessi, di esserci mostrati fors’anche ridicoli. Ciascuno era rimasto assorto in questo pensiero, nè aveva osato riprendere la parola. Il silenzio aumentava la nostra confusione.

L’incognito chiese una tazza di punch che bevve avidamente. Gettò sulla guantiera uno scudo d’argento, e respinse al cameriere il residuo del prezzo della sua bibita. Il cameriere nell’allontanarsi inciampò del piede nell’estremità della sua sedia e cadde; la guantiera essendogli scivolata di mano, percosse del volto sui cocci della tazza che si era spezzata, e si ferì in modo che il viso gli si coperse in un istante di sangue.