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Nuovi poemetti (1909)

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Nuovi poemetti (1909)
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AI MIEI SCOLARI DI MATERA MASSA LIVORNO MESSINA PISA BOLOGNA

A voi che mi conoscete. A voi, ai quali non avrò sempre mostrato molto ingegno e assai dottrina, ma animo onesto uguale sincero, sì, sempre. A voi, ai quali non credo aver dato mai esempi di prosunzione e di ambizione, di malevolenza e di maldicenza. A voi, infine, ai quali io devo molto più che non diedi.

Perché vi devo l’abitudine di supporre sempre avanti me che scrivo, come ho avanti me che parlo, anime giovanili, che è dovere e religione non abbassare, raffreddare, violare.

Così voi mi avete beneficato.

Così io sono lieto d’aver unito alla divina poesia l’esercizio umano che più con la poesia si accorda: la scuola

Bologna, 24 giugno 1909.

Giovanni Pascoli

LA FIORITA

IL PITTIERE

I
 
Oh! tutti i giorni e tante volte al giorno
s’erano visti! L’uno era in orecchi
sempre che udisse spittinire intorno.
 
 
E s’ei tornava a casa con due stecchi
o due vincigli, l’altro lo seguiva
da ramo a ramo. Erano amici vecchi.
 
 
Ma oggi, tutto maraviglia viva
nel petto rosso, l’uno alzava a scatti
la coda al dorso di color d’uliva.
 
 
Parea dicesse: – O dunque fa di fatti!? —
Ora alïava in terra tra lo sfagno,
ora volava in cima a gli albigatti.
 
 
Con gli occhi tondi aperti sul compagno
molleggiava sul cesto e su l’ontano.
L’altro sedeva al calcio d’un castagno,
 
 
con una vetta e un coltelluccio in mano…
 
II
 
Pareva savio, un altro! Il suo coltello
fece alla vetta torno torno un segno
uguale, netto, e un piccolo tassello.
 
 
Ed egli poi con arte e con ingegno
torse la buccia tra i due pugni, e trasse
fuor della buccia umido e bianco il legno.
 
 
Tagliò del legno quanto gli tappasse
quel cannoncello, ma non tutto e troppo.
Scese il pittiere su le stipe basse.
 
 
Provò se il fiato non avesse intoppo,
soffiando un poco, e si drizzò contento.
Frullò il pittiere sur un alto pioppo.
 
 
Poi, nella selva, coi capelli al vento,
lungo il ruscello, il fanciulletto Dore
col flauto verde annunzïò l’avvento
 
 
dei fiori brevi e dell’eterno amore.
 
III 
 
O primo fiore! o bianca primavera!
Hai gli orli rossi, come li ha l’aurora,
e il sole biondo è nella tua raggiera!
 
 
Dore sonava. All’uccellino allora
sovvenne il nido. Alzò, partendo, il canto
che là, negli alti monti ove dimora,
 
 
canta alle solitudini soltanto.
 

IL SOLITARIO

I
 
Stette sul botro, stette su lo scoglio,
dritto, sonando il flauto di corteccia:
l’acqua rispose con un suo gorgoglio.
 
 
Intese la diana boschereccia
il vecchio bosco, e la vitalba volle
togliersi i bianchi bioccoli alla treccia.
 
 
E passò l’acqua e risalì sul colle:
per tutti i poggi il sufolo selvaggio
schiudeva i bocci, apriva le corolle.
 
 
Pioppi ed ontani pendere, al passaggio,
facean dai rami ciondoli e nappine;
chiedea l’avorno, s’era giunto maggio.
 
 
Mettea, chi fiori non potea, le spine;
mettea le gemme l’albero più brullo:
piovea la quercia, vergognando alfine,
 
 
le vecchie foglie a’ piedi del fanciullo.
 
II
 
E il bel fanciullo nella lieta ascesa
passò, col fresco flauto tra le dita,
presso macèe che furono una chiesa.
 
 
Pur v’è qualcosa della scorsa vita,
poiché vi canta all’apparir del nuovo
giorno ed al vespro il passero eremita.
 
 
Vi canta ai biacchi, che lì hanno il covo,
ai grilli, alle lucertole che destre
vengono a guizzi di tra il cardo e il rovo.
 
 
Dore intonò col sufolo silvestre
la sua fanfara del ritorno; e il suono
sparse per tutto un vago odor cilestre:
 
 
per tutto un casto odore, un odor buono,
dov’era già il sagrato, dove pare
fosse la croce, dove, ignoti, sono
 
 
sepolti i morti sotto il morto altare.
 
III
 
Viole caste, pallide viole!
Il fiore va, ma lascia un seme e il miele.
Aprite, o fiori, all’ape che vi vuole!
 
 
Il solitario udiva. Ecco, e fedele
alla rovina, prese alcun fuscello,
radiche e scorze, crini e ragnatele;
e fece il nido, oh! rozzo assai, ma bello.
 

LA RONDINE

I
 
E fu tra i campi e stie’ su l’altipiano
Dore, sonando. Ed ecco che un susino
bianco sbocciò sul verzicar del grano.
 
 
Come un sol fiore gli sbocciò vicino
un pesco, e un altro. I peschi del filare
parvero cirri d’umido mattino;
 
 
d’un bel mattino a nuvilette chiare
rosate in cima, che dall’Alpi d’oro
guàtino ancora palpitando il mare.
 
 
Usciano le api. Ed or s’udiva un coro
basso, un brusìo degli alberi fioriti,
un gran sussurro, un favellar sonoro.
 
 
Dicean del verno, si facean gl’inviti
di primavera. Per le viti sole
era ancor presto, e ne piangean, le viti,
 
 
a grandi stille, in cui fioriva il sole.
 
II
 
Nell’aia, sotto un prugno, sur un mucchio
di piote, egli chiamò le rondinelle,
Dore, col flauto di castagno in succhio.
 
 
Le voci fuori ne traea più belle
e più lontane. Ed ecco che su l’aia
vide due rondini alïare snelle.
 
 
Svolar le vide sotto la grondaia,
e poi sparire; e ritornar più tante,
tornare in quattro, in otto, in dieci, a paia.
 
 
E stava sotto il prugno tremolante
di bianchi fiori, tra il girar veloce
di tante nere rondinelle sante.
 
 
(Avean Gesù pur consolato in croce!)
Forse mancava a casa lor qualcosa:
parlavan alto, tutte ad una voce…
 
 
E su la soglia ecco che venne Rosa.
 
III
 
Torna la rondine! È fiorito il prugno!
Il prugno è in fiore, in succhio è già il castagno
Quale, di marzo, quale è in fior, di giugno.
 
 
Rosa tenea nel gomito il cavagno
pieno di ghiomi. Stette fissa al grido
del buon ritorno. Ognuna, il suo compagno!
 
 
L’albero ha il fiore e la rondine il nido.
 

LA CINCIALLEGRA

I
 
E poi cantò la cinciallegra, e Rigo
tornò. T’avea sognata sul mattino,
t’avea sognata tra un odor di spigo,
 
 
sognata, o Rosa, in un candor di lino,
candor di fiori prima della foglia,
senza una foglia, o candido armellino!
 
 
Avevi i piedi ignudi su la soglia,
tremavi come un armellino in fiore,
che trema tutto al vento che lo spoglia.
 
 
Era rimasto a Rigo, quel tremore;
nel cuore suo, che per due cuori accanto
avea battuto un attimo… o quante ore?
 
 
Gli era rimasta una dolcezza, un pianto
per lei come pel bimbo che non parla!
Or pregherebbe come avanti un santo…
 
 
E vide Rosa, e non ardì guardarla.
 
II
 
Cantava a lei, ch’era a ronzar nell’orto,
la cinciallegra, e l’era Rigo a mente,
quando lo vide, lieto insieme e smorto.
 
 
«Rigo!» E lasciò cadere la semente
che aveva in grembo; e vide sé, smarrita,
tutt’arruffata, con le vesti scente…
 
 
Si ravviò con le veloci dita:
pareano i segni che si fanno in chiesa.
Sfiorò d’un tratto fronte spalle vita.
 
 
Come pareva anche più bella, accesa
in viso, sfatto il nodo biondo, un piede
ignudo fuor della gonnella tesa!
 
 
«Oh! quant’è mai che non vi si rivede!»
«Il babbo è indietro con le sue faccende:
gli legherò due viti o tre, se crede…»
 
 
Poi mormorò: «Ben rende chi ben prende».
 
III
 
Squittian nel sole sopra la fanciulla,
chiedeano a lui le rondinelle nere,
chiedeano: – Ed ora non le dici nulla? —
 
 
Ma Rigo, no; perché volea vedere.
– Sei tu che vieni a me tutte le aurore?
Sei tu che torni a me tutte le sere?
 
 
Fa, quando s’apre, un fiore più rumore… —
 

IL TORCICOLLO

I
 
E dicea – Cincin… pota Cincin… pota —
la cinciallegra; e un canto uscì dal prato
d’erba lupina: un’altra voce nota.
 
 
Potava il babbo; lasciò star pennato
forbici e torchi, e poi seguì, fischiando
anch’esso un po’, l’altro messaggio alato.
 
 
Prese la vanga (questo era il comando
dell’altro uccello) dalla punta d’oro;
andò la bricia a tirar su, con Nando.
 
 
Poi spicciolò nel campo il suo tesoro
di chicchi d’oro; e gli dicea, Fa piano!,
quell’incessante piagnisteo canoro.
 
 
Dicea: – Bada! Il granturco non è grano:
ben altra rappa nascerà da un chicco! —
Quasi parea glieli contasse in mano,
 
 
dicendo: – A uno a uno! Non sei ricco! —
 
II
 
Poi l’ammoniva ch’era giunta l’ora
di seminar la canipa. Ma poca!
E tristo a lungo ripetea, Lavora!
 
 
Ei t’ubbidiva, o poverella fioca
canipaiola: e seminò ben fitto,
dicendo: «Non mai vince, chi non gioca.
 
 
Il più del seme ai passeri lo gitto
per certo! È il meno che doventa tela».
Però d’intorno non s’udiva un zitto.
 
 
Ma il torcicollo a cui nulla si cela,
avanti o dietro, e che giammai non erra,
cantava pur la lunga sua querela.
 
 
Ei li vedeva, i figli della terra,
color di terra, che tendean, gl’ingordi!
Forse pensava: – E l’uomo muove guerra,
 
 
per via di loro, ai torcicolli e a’ tordi! —
 
III
 
Ma l’uomo fece un uomo d’una cappa
e d’un cappello. «E’ vi darà buon conto!»
diceva: e se n’andò con la sua zappa.
 
 
Scesero allora i passeri. Il tramonto
era dorato. Erano cento e cento…
– Oh! il poveruomo! Ha l’ali, al volo è pronto;
 
 
ma è confitto, e lo patulla il vento! —
 

IL CUCULO

I
 
Rigo, mentr’era buona ancor la luna,
potava. Aveva, a raccattar le brocche,
la bionda Rosa e la Viola bruna.
 
 
Allegre. Oh! d’un viticcio tra le ciocche
ridean mezz’ora! e poi dicean, ridenti,
col fascio in capo: «Siamo o no due sciocche?»
 
 
Rigo seguiva il loro andar con lenti
sguardi, col tralcio che torceva in mano,
ed un vinchietto tremolo tra i denti.
 
 
Ché s’affrettava. Era già alto il grano,
avean le gemme l’uva in bocca. – O vigna! —
pensava: – il cucco già non è lontano! —
 
 
Pensava: – Il ben nel presto non alligna. —
Ma sì, potava, poi torceva a modo
il capo buono, quel che fa la pigna;
 
 
e lo legava con vie più d’un nodo.
 
II
 
Sì: presto e bene. E già finiva il tutto,
quasi; e non s’era inteso il doppio accento
del cucco: – Un giorno molle, un giorno asciutto; —
 
 
non s’era inteso annoverar tra il vento
dolce le viti ancora da potare,
cuculïando il contadino lento.
 
 
Era all’ultima vite del filare
Rigo, e le donne all’ultimo fastello;
e venne il canto da di là del mare.
 
 
Con la sua mucca risalìa bel bello
la mamma, e il babbo la scontrava in via.
Dore si ritrovò col suo fratello.
 
 
«L’ultimo nodo!» Rigo gridò: «Via!»
Rosa premeva il fascio coi ginocchi…
C’erano tutti, in pace e compagnia,
 
 
col sol morente, che splendea, negli occhi.
 
III
 
Avea finito. E stettero alcun poco.
E teste bianche e teste bionde e nere
splendean sotto le nuvole di fuoco.
 
 
Udiano le due voci delle sere
di primavera, limpide e sonore,
così lontano che parean non vere,
 
 
così vicine che parean del cuore.
 

LA CAPINERA

I
 
Su l’alba Rigo udì cantar gli uccelli.
Parlavan, ora che nessun li udiva,
tra loro, de’ lor piccoli castelli:
 
 
castelli in aria; in vetta a un melo, in riva
a un botro, appeso a un trave, dentro un muro
nel buco d’un castagno o d’un’oliva.
 
 
Il cinguettìo, così tra lume e scuro,
cessò d’un tratto. Era comparso il sole.
Sparì ciascuno nel bel giorno puro.
 
 
E Rigo in cuore preparò parole
da dire a lei, ridire, da vicino..
Oh! era tempo! E tutto può chi vuole.
 
 
Via via le rimutava in suo cammino,
per via le fece belle a poco a poco…
Rosa stendeva sopra un biancospino
 
 
l’accia filata nell’inverno al fuoco.
 
II
 
E’ parlò d’altro, e disse in fine: «O Rosa…»
Rosa aspettava. «Tutte l’altre vanno
a nozze; e voi non vi farete sposa?»
 
 
«Mia madre non è quella d’or un anno.
Come faceva! come lavorava!
Ma ora fa le scale con l’affanno.
 
 
Viola è sempre piccola, ed è brava
ma per le bestie. Ora, chi fa mangiare?
chi cuce un po’? chi tesse un po’? chi lava?
 
 
Da fare, in una casa, non appare,
ma c’è n’è tanto. E i bimbi? se sapeste!
Dore è piccino, a me mi sembra un mare.
 
 
Ora chi li rammenda e li riveste?
Ché tutti i giorni manca lor qualcosa.
Tutti i giorni! Non dico poi le feste…»
 
 
A lui così tu rispondesti, o Rosa.
 
III
 
E quando venne l’ora del ritorno,
Rosa era allegra, e Rigo, no, non era.
Andava cupo sul morir del giorno.
 
 
E chiedeva alcunché la capinera
alto cantando con la voce chiara;
oh! non a lui! Ché nella rosea sera
 
 
le rispondeva un’altra voce cara.
 

LA LODOLA

I
 
Cantar gli uccelli Rigo udì su l’alba.
Parlavan piano di bambagia e piume
e fili e peli e pappi di vitalba.
 
 
Dei lor lettini essi garrian tra lume
e scuro. E venne il sole. E frullò via
ciascuno, al bosco, al prato, al campo, al fiume.
 
 
– Casa mia! – pensò Rigo – una badia
tu sei davvero, con un fraticello
romito e solo, o trista casa mia!
 
 
E ci sarebbe pure tanto bello,
se lei vedessi tutte le mattine
girare in pianellette ed in guarnello… —
 
 
Così pensava, e, passo passo, alfine,
vide i cipressi neri della Pieve…
Rosa piegava una sua tela fine
 
 
che avea tessuta i giorni della neve.
 
II
 
Aveva i pésti, aveva pianto. «O Rosa!
Rosa, avete le guance scolorate,
avete pianto, Rosa. Per che cosa?
 
 
Voi fate troppo, autunno verno estate.
Rosa, se non lavate, voi stendete!
Rosa, se non tessete, voi filate!
 
 
Per voi non c’è momento di quïete.
Tutto tenete lindo netto asciutto,
lustrate ogni solaio, ogni parete.
 
 
Parete un uccelletto, biondo, sdutto,
snello, che cala becca salta frulla
in un minuto. E sola fate il tutto!
 
 
E siete sempre piccola fanciulla…»
«Povera mamma, è lei che non ha posa!
Senza mia madre non saprei far nulla».
 
 
A lui così tu rispondesti, o Rosa.
 
III
 
E’ ritornò più tristo, a capo chino.
Ed ecco, in mezzo al grande ciel sereno,
la lodoletta, uguale ad un puntino,
 
 
cantava; e poi, come venisse meno
dalla dolcezza, si gittò nel piano:
s’abbandonò sul nido suo terreno,
 
 
s’abbandonò sul nido suo tra il grano.
 

L’USIGNOLO

I
 
Su l’alba udì, ma piano, come fosse
un gran segreto, bisbigliar di bianche
ova e celesti con goccine rosse,
 
 
calde nel musco, sopra i pappi, ed anche
tra foglie secche… Prima ancor di giorno
volò ciascuno alle compagne stanche.
 
 
Ma tutto il giorno andava Rigo attorno
senza far nulla. Non guardò nell’orto
spighe di lilla e ciondoli d’avorno.
 
 
Violacciocche, e’ vi guardava torto
quando lo chiamavate con l’odore!
Ma verso sera egli là era, smorto…
 
 
E vide Rosa: aveva in grembo un fiore,
non facea nulla, ed era sola e muta.
S’udia lontano il sufolo di Dore.
 
 
Guardava in aria, a nulla. Era seduta.
 
II
 
Rigo le prese le due mani. «O Rosa,
ti voglio bene. Io t’amo e mi vergogno
di dirlo a te, di dirlo a te… mia sposa!
 
 
Non ho coraggio, Rosa, ed ho bisogno
che tu m’incuori. Il cuore trema: senti?
E non m’attento di parlar, che in sogno.
 
 
Anche tu sembra allora che ti attenti.
Se mostro un po’ di chiuder gli occhi e taccio,
tu entri in casa senza aprir battenti.
 
 
Tu vai, tu vieni… Oh! io non ti discaccio!»
Ecco e d’un braccio cinse a lei la vita,
ed essa gli si abbandonò sul braccio.
 
 
«Tu sei l’anima mia, sei la mia vita.
Battere, il cuore, senza il tuo, non osa
più. Respiriamo con la bocca unita!
 
 
Apriti, alfine, o mio bocciòl di rosa!»
 
III
 
Allor s’aprì la prima stella in cielo;
e dalla terra tacita e sorpresa
si levò un trillo come un lungo stelo.
 
 
Un’altra, un altro. Ad ogni stella accesa,
un nuovo canto. Un canto senza posa
correva ardendo lungo la distesa
 
 
del cielo azzurro. – È l’usignolo, o Rosa! —