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Kitobni o'qish: «Le meraiglie del Duemila», sahifa 9

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«Ed a vendicarvi» disse il vecchio Jao. «I governi d’Europa e d’America, come vi ho detto, non sono troppo teneri verso gli abitanti delle città sottomarine.»

«Come li puniranno?» chiese Toby.

«Annegandoli tutti. La giustizia, è spiccia, oggidì.»

«Non potreste voi, Jao, cercar di calmare quei forsennati?» domandò il capitano.

«Una volta scatenati non si domano più e, se mi presentassi a loro e cercassi di far loro intendere la ragione, mi accopperebbero sull’istante. Già vi ho detto che i governatori di questi penitenziari non hanno che un’autorità molto problematica.»

«Allora, prima che salti loro il ticchio di prendersela anche con noi, impediremo che possano giungere quassù» disse Brandok.

«Guastando l’ascensore, non verranno più ad importunarci» rispose Jao. «L’elevazione della cupola è troppo considerevole perché possano raggiungerci, e le pareti metalliche sono perfettamente lisce. Ah! disgraziato me! Non mi aspettavo una simile rivolta!»

«Date la colpa alla tempesta che ci ha impedito di ripartire» disse Toby.

«Ed al carico della mia nave» aggiunse il capitano. «Orsù non ci occupiamo per ora che di resistere ai colpi dell’uragano. Quando il sole spunterà vedremo quello che si potrà fare per lasciare questa poco piacevole città sottomarina ed i suoi pericolosissimi abitanti.»

Si ritirarono verso la parte più elevata della cupola, bloccarono l’ascensore per essere più sicuri che i forzati non lo facessero ridiscendere, e si misero a guardare giù, attraverso la larga apertura, l’orgia era al colmo, e dalla città sottomarina saliva un tanfo così acuto da non poter quasi resistere.

I forzati, che continuavano a bere, ridevano come pazzi e pareva che non sapessero ormai più che cosa facessero.

Mentre dei gruppi ballavano furiosamente sulla piazza, saltando come capre, urtandosi, buttandosi a terra a dozzine per volta, altri, presi da una improvvisa furia di distruzione, abbattevano le case, gettando in aria letti e tavolini, laceravano le reti, spezzavano ordigni da pesca, urlando e ridendo.

Frequenti risse scoppiavano di tratto in tratto fra danzatori e demolitori, ed erano allora vere grandinate di pugni e di legnate che piovevano da tutte le parti. Le teste rotte non si contavano più.

«Se quei furibondi potessero salire, sfonderebbero anche i vetri della cupola» disse Toby.

«Che riescano a fracassare le pareti di ferro della città?» chiese Brandok con ansietà.

«Non temete» rispose Jao. «Sono di uno spessore notevole e poi non posseggono né mazze, né altri strumenti adatti.»

«Io non ho mai veduto una simile orgia» disse il capitano del Centauro. «Quegli uomini, se continuano a bere a quel modo, finiranno per tramutare questa città in un vero manicomio. Come finirà tutto ciò? Confesso che non sono affatto tranquillo. Non possiamo sperare che nella provvidenziale comparsa di qualche nave. Disgraziatamente ci troviamo fuori dalla rotta ordinaria che tengono le navi che dall’Europa vanno in America. Bah! Non disperiamo!»

Si coricarono in mezzo alla piattaforma, l’uno accanto all’altro aspettando pazientemente che l’aurora spuntasse.

L’uragano assumeva proporzioni spaventevoli. Era una furia d’acqua e di vento che si rovesciava sulla cupola con rabbia inaudita.

Cavalloni giganteschi si infrangevano contro le pareti della città, imprimendo a tutta la massa delle oscillazioni che inquietavano non poco il capitano del Centauro ed il pilota, che ne sapevano qualche cosa delle collere dell’Atlantico.

Di quando in quando la città, per quanto saldamente fissata allo scoglio sottomarino e trattenuta da immani colonne d’acciaio, subiva dei soprassalti come se fosse lì lì per essere strappata e portata via.

Anche i tre americani non erano punto tranquilli, malgrado le assicurazioni di Jao.

«Se si staccasse dallo scoglio?» chiese Brandok ad un certo momento. «Che cosa succederebbe allora di tutti noi?»

«Sarebbe finita per tutti!» disse il capitano.

«Niente affatto» rispose Jao che non dimostrava invece alcuna apprensione. «Questa città è come un immenso cassone di ferro e galleggerebbe benissimo.»

«Ora respiro un po’ più liberamente» disse Brandok.

«L’idea di terminare il mio viaggio in fondo al mare non mi sorrideva affatto, anche se…»

Una bestemmia del pilota gl’interruppe la frase.

«Cos’hai Tom?» chiese il capitano.

«Io dico che se ci giunge addosso un’altra ondata come quella che è passata or ora, la città non potrà resistere. Ho udito dei tonfi. Che le colonne d’acciaio abbiano ceduto?»

Tutti si erano messi in ascolto, ma il fracasso che producevano i tuoni rombanti in mezzo alle densissime nuvole misto a quello che saliva dal pozzo dell’ascensore erano tali da non poter distinguere nessun altro rumore.

«Puoi esserti ingannato, Tom» disse il capitano.

«Può darsi» rispose il pilota. «Preferirei però accertarmene.»

«Si può tentare di raggiungere la balaustrata, se esisterà ancora.»

«Le onde vi porteranno via, signore» disse Brandok.

«Io e Tom le conosciamo da lungo tempo e non ci lasceremo sorprendere. Vieni, pilota.»

Si gettarono bocconi, e, sordi ai consigli dei tre americani e di Jao, si allontanarono strisciando, tenendosi ben stretti alle traverse d’acciaio, che servivano di appoggio alle lastre di vetro.

Il frastuono prodotto dall’incessante infrangersi dei cavalloni era diventato orrendo. Vi erano certi momenti in cui pareva che l’intera cupola dovesse sfasciarsi sotto quegli urti possenti.

L’assenza del capitano e del pilota fu brevissima. Furono visti ritornare velocemente, fra i nembi di spuma che coprivano tutta la cupola.

«Dunque?» chiesero ansiosamente tutti insieme, i tre americani e Jao.

«I pilastri d’acciaio crollano uno ad uno» rispose il capitano.

«Allora verremo portati via» disse Brandok.

«Sì, se l’uragano non si calma.»

«Avete speranza che le onde rallentino la loro furia indiavolata?»

«Temo invece che si vada formando uno spaventevole ciclone.»

«E quei furfanti là abbasso continuano a divertirsi!» disse Toby.

«Lasciateli crepare» disse Brandok.

«Purché non veniamo inabissati anche noi!»

«Vi ho detto che, se anche la città dovesse venire strappata dallo scoglio non correremmo alcun pericolo, almeno fino a quando non incontreremo un altro scoglio che le sfondi i fianchi. In questa parte dell’oceano sono però rari, è vero capitano?»

«Non se ne trovano affatto fino alle Azzorre» rispose il comandante del Centauro. «Possiamo quindi percorrere più di trecento miglia con la piena sicurezza di non urtare.»

Uno scroscio formidabile si fece udire in quel momento.

Un cavallone colossale si era rovesciato sulla città sottomarina, scuotendola così violentemente da far stramazzare l’uno sull’altro i tre americani, che si erano alzati per vedere se l’orgia dei forzati era terminata o se continuava sempre.

«Mi pare che questo cassone d’acciaio si sia spostato» disse il capitano.

Quel rombo spaventevole pareva che fosse stato avvertito anche dagli ubriaconi, poiché le loro grida erano improvvisamente cessate.

Jao aveva lanciato intorno una rapida occhiata.

«Sì» disse poi. «La città si è spostata. Il palo d’acciaio che serviva d’appoggio principale non si vede più. Il cavallone l’ha portato via.»

«Consolante notizia!» disse Holker. «Che cosa succederà ora?»

Nessuno rispose. Tutti guardavano con angoscia i cavalloni i quali, riflettendo la luce intensa proiettata dalle lampade a radium, sembravano masse di bronzo fuso.

Quantunque rassicurati dalle parole di Jao, il quale doveva conoscere a fondo la resistenza che poteva offrire quello strano penitenziario, una profonda inquietudine si era impadronita di tutti.

Si sarebbe detto che non respiravano più e che i loro cuori non battevano più, tanta era la loro ansietà.

Quell’enorme cassa metallica avrebbe realmente galleggiato o sarebbe invece andata a fondo come una massa inerte?

Il tuono rumoreggiava sempre nelle profondità del cielo, gareggiando collo spaventevole fragore delle onde e colle urla diaboliche del vento.

Giù, nella città, il fracasso era cessato.

Di quando in quando la cupola subiva come dei soprassalti. I vetri malgrado il loro enorme spessore e la robustezza delle traverse d’acciaio, stavano forse per cedere?

Ad un tratto un nuovo e più formidabile cavallone piombò, con furia irresistibile, sul penitenziario, sradicandolo completamente dallo scoglio e travolgendolo fra fitte cortine di spuma.

Quasi nel medesimo istante si udì la voce del capitano tuonare, fra le spaventevoli urla del ciclone:

«Galleggiamo!… Tenetevi stretti!…».

ATTRAVERSO L’ATLANTICO

Il vecchio Jao non si era ingannato. Se la nuova società del Duemila aveva pensato di relegare in quelle strane città sottomarine gl’individui pericolosi, sopprimendo sui loro bilanci le spese di mantenimento per esseri ormai inutili, aveva però procurato loro degli asili sicuri, d’una solidità a tutta prova per non esporli ad una morte certa.

Così la città sottomarina, strappata dallo scoglio dall’impeto dei cavalloni, non era diventata altro che una città galleggiante, abbandonata è vero ai capricci delle correnti e dei venti, ma che poteva aspettare benissimo l’incontro di qualche nave marina o volante, purché qualche bufera non la scaraventasse contro qualche ostacolo. Tutto il pericolo stava lì.

L’acqua dolce non poteva mancare, essendovi dei potenti distillatori elettrici che potevano fornirne in grande quantità; i viveri nemmeno, perché reti ve n’erano in abbondanza e si sa che gli oceani sono ben più ricchi dei mari.

Disgraziatamente l’uragano aveva ben poca intenzione di finire. Né le onde, né il vento accennavano a calmarsi, minacciando di trascinare la città galleggiante in mezzo all’Atlantico, poiché la bufera imperversava da levante.

La gigantesca cassa d’acciaio, dopo essere sprofondata, era subito risalita a galla, rollando spaventosamente e girando su se stessa.

Se i piloni d’acciaio avevano ceduto sotto gli urti possenti delle onde, la cupola aveva meravigliosamente resistito al tuffo e meglio ancora avevano resistito i tre americani, il capitano ed il pilota del Centauro e Jao.

Aggrappati tenacemente alle traverse, avevano aspettato che la città ritornasse a galla, opponendo una resistenza disperata alle onde.

«Credevo che la nostra ultima ora fosse giunta» disse Brandok dopo aver respirata una gran boccata d’aria. «E tu, Toby?»

«Io mi domando se sono ancora vivo o se navigo sotto l’Atlantico» rispose il dottore.

«Spero che sarai soddisfatto degli ingegneri che hanno fatto costruire questa colossale cassa.»

«Gente meravigliosa, mio caro. Ai nostri tempi non sarebbero stati capaci di fare altrettanto.»

«Ne sono pienamente convinto. Capitano, dove ci spinge la tempesta?»

«Verso sud-ovest» rispose il comandante del Centauro.

«Vi sono isole in questa direzione?»

«Le Azzorre.»

«Andremo a sfracellarci contro di esse?»

«Ciò dipende dalla durata della bufera, signore.»

«Non vi pare che si calmi?»

«Niente affatto. Infuria sempre tremendamente e temo che ci faccia ballare per molto tempo. Soffrite il mal di mare?»

«Niente affatto.»

«Allora tutto va bene.»

«E se fra un paio di giorni questo cassone si schiaccerà contro qualche scoglio, andrà anche allora tutto bene?» chiese Holker, ridendo.

«Non l’abbiamo ancora incontrato quello scoglio, quindi, finché non lo incontreremo, non abbiamo alcun motivo per allarmarci» rispose il capitano del Centauro. «Vi è però un’altra cosa che mi preoccupa assai.»

«Quale?»

«La risposta dovete darmela voi, Jao.»

«Parlate, capitano.»

«I vostri sudditi posseggono dei viveri?»

«Per due o tre giorni, non di più.»

«E noi?»

«Prima che l’uragano scoppiasse, vi erano molti pesci messi a seccare lungo le balaustrate, ma credo che il mare abbia portato via tutto.»

«Ne potremo avere dai forzati?»

«Forse, quando si saranno stancati di bere» rispose Jao. «Vi sono però delle reti in un ripostiglio della cupola.»

«Ma nessun distillatore per procurarci l’acqua…»

«Quassù no.»

«Corriamo dunque il pericolo di morire se non di fame, per lo meno di sete, se i vostri sudditi si rifiuteranno di fornirci l’acqua. Ecco quello che temevo.»

«Abbiamo l’ascensore, capitano» disse Jao.

«Che ci servirà ottimamente per farci accoppare da quei pazzi. Non sarò certamente io che scenderò nella città per chiedere dell’acqua a quei furfanti. A proposito, che cosa fanno? Che si siano accorti che la loro prigione cammina attraverso l’Atlantico?»

«Io scommetterei di no» disse Toby.

«Che dormano?» chiese Brandok. «Non odo più le loro grida.»

«Andiamo a vedere» disse il capitano. «Sono curioso di sapere se continuano a bere ed a ballare.»

Si spinsero verso il pozzo dell’ascensore.

Le lampade a radium ardevano sempre, ed un profondo silenzio regnava nell’interno della città galleggiante. Sulla piazza, in mezzo ad un gran numero di barili e d’ogni sorta di rottami, dormivano dei gruppi di forzati, fulminati di certo da quelle terribili bevute.

Altri giacevano stesi al suolo entro le case semidistrutte, prive dei tetti. Un orribile tanfo saliva sempre.

«Dormono come ghiri» disse Brandok.

«Sfido io, dopo una simile orgia!» rispose Toby «Un barile di ammoniaca non basterebbe a rimetterli in piedi.»

«E noi approfitteremo del loro sonno» disse Jao.

«Per fare che cosa?» chiese il capitano del Centauro.

«Per fare la nostra provvista d’acqua, signore.»

«Voi siete un uomo meraviglioso. Chi scenderà?»

«Io.»

«E se vi accoppano?»

«Non vi è alcun pericolo» disse Toby. «Quei furfanti non si sveglieranno prima di ventiquattro ore.»

«Ed i miei marinai?» chiese il capitano «Che siano stati uccisi?»

«Ne vedo qualcuno steso sulla piazza» disse il pilota. «Essi non hanno potuto resistere alla tentazione di fare una colossale bevuta, ed hanno fatto causa comune coi forzati. Non contate più su di loro.»

«Miserabili!»

«Sono tutti irlandesi; voi sapete quanto me se quella gente beva, quando si presenta l’occasione.»

«Non perdiamo tempo» disse Jao. «Aiutatemi, signori.»

L’ascensore fu sbloccato e l’ex governatore scese nella città accompagnato dal pilota.

La sua prima preoccupazione fu di sfondare tutti i barili pieni d’alcool che non erano stati ancora vuotati, e così por fine a quell’orgia pericolosa; poi s’impadronì d’una cassa di pesce secco e di un caratello d’acqua dolce.

Nessun forzato si era svegliato. Quei trecento e più furfanti non si erano mossi e russavano con un fragore tale da far tremare perfino i vetri della cupola.

L’ascensore risalì e fu subito bloccato perché non potessero servirsene quelli che stavano sotto.

«Ora» disse Jao «possiamo aspettare l’incontro di una nave. Per quindici giorni almeno non correremo il pericolo di morire di fame e di sete.»

«Ed i vostri sudditi ne avranno abbastanza per resistere tanto?» chiese Brandok.

«Che crepino tutti! Sono dei miserabili che non destano alcuna compassione» rispose Jao con rabbia. «Io non mi occuperò più di loro.»

«Eppure io temo invece che noi saremo costretti ad occuparcene e molto» disse Brandok. «Quando si risveglieranno e sentiranno la loro città ballare vorranno salire anche loro e ci daranno non pochi fastidi.»

«Ed io condivido il vostro pensiero, signore» disse il capitano. «Avremo la tempesta sopra le nostre teste e quei pazzi sotto di noi. La nostra passeggiata attraverso l’Atlantico, prevedo che non sarà troppo divertente. Chissà! Aspettiamo che il sole si mostri per poter meglio giudicare la violenza e la durata di questo ciclone.»

Emergendo assai la città galleggiante dopo il suo distacco dalla roccia, e non essendovi alcun pericolo che le onde giungessero fino al culmine della cupola, i sei uomini si sdraiarono presso l’orifizio del pozzo, per concedersi, se era possibile, qualche ora di sonno.

L’enorme massa metallica subiva però dei soprassalti così terribili e così bruschi da rendere impossibile una buona dormita.

Le onde che si succedevano alle onde con furia sempre maggiore, la scrollavano terribilmente e la facevano talvolta girare su se stessa, essendo sprovvista di timoni.

Di quando in quando sprofondava pesantemente negli avvallamenti, come se dovesse scomparire per sempre nei baratri dell’Atlantico; poi si risollevava bruscamente con mille strani fragori che impressionavano specialmente Brandok, i cui nervi, già da qualche tempo, sembravano fortemente scossi.

Talvolta s’alzava sulle creste dei cavalloni con un dondolio spaventoso, quindi scendeva, scendeva, con rapidità vertiginosa, roteando come una trottola.

E l’uragano intanto, invece di calmarsi, aumentava sempre.

Lampi accecanti si succedevano senza tregua con un crescendo terrorizzante, seguiti da tuoni formidabili che si ripercuotevano sinistramente perfino dentro la città, facendo vibrare le pareti di metallo, senza riuscire a svegliare gli ubriachi.

Tutta la notte, l’enorme massa oscillò e girò, percossa incessantemente dai cavalloni, i quali la spingevano verso il Mar dei Sargassi piuttosto che verso le Azzorre, come dapprima aveva creduto il capitano.

Finalmente, verso le quattro del mattino, un barlume di luce apparve fra uno squarcio delle tempestose nubi.

L’Atlantico offriva uno spettacolo impressionante. Masse d’acqua, coperte di spuma, si accavallavano rabbiosamente, urtandosi e spingendosi.

Nessuna nave, né aerea, né marittima, appariva. Solamente dei grossi albatros volteggiavano fra la spuma e la caligine, grugnendo come porci.

«Nessuna speranza di venire salvati, è vero, capitano?» chiese Brandok.

«Per ora, no» rispose il comandante del Centauro.

«Dove ci spinge il vento?»

«Verso sud-ovest.»

«Lontano dalle rotte tenute dalle navi?»

«Purtroppo, signore.»

«Dove andremo a finire dunque?»

«Sarebbe impossibile dirlo, poiché il vento potrebbe anche cambiare da un momento all’altro.»

In quell’istante delle grida spaventevoli scoppiarono nell’interno della città galleggiante.

I tre americani, il capitano, il pilota e Jao si affrettarono a raggiungere la bocca del pozzo.

I forzati si erano svegliati e, presi chissà da quale furioso delirio, si azzuffavano ferocemente fra di loro armati degli attrezzi da pesca e di coltelli.

I miserabili cadevano a dozzine, immersi in veri laghi di sangue, coi crani spaccati da colpi di rampone o coi petti squarciati da colpi di coltello.

«Disgraziati, che cosa fate?» gridò Jao inorridito.

La sua voce si perdette fra i clamori spaventevoli dei combattenti.

Il capitano sparò alcuni colpi della sua rivoltella elettrica, sperando che quelle detonazioni, troppo deboli, però, attirassero l’attenzione di quei furfanti.

Nessuno vi aveva fatto caso: forse nemmeno un colpo di cannone sarebbe stato sufficiente ad impressionarli.

«Lasciate che si scannino» disse Brandok. «Tanti pessimi soggetti di meno.»

«D’altronde, noi nulla potremmo fare per calmarli» disse il capitano del Centauro. «Se scendessimo, ci farebbero a pezzi.»

«Io vorrei sapere per quale ragione si scannano a quel modo» disse Holker.

«Sono ancora ubriachi, non lo vedete?» disse il capitano. «Vomitano sangue e alcool insieme.»

«Finitela!» gridava intanto, con quanta voce aveva in gola Jao! «Basta, miserabili! Basta!»

Era fiato sprecato.

La strage orrenda continuava con maggior rabbia fra i due partiti, formatisi chissà per quale motivo.

Combattevano sulla piazza, nelle viuzze, perfino dentro le case, fra urla e bestemmie. Di quando in quando dei gruppi si staccavano e correvano a rinforzarsi ai pochi barili che il pilota e Jao non avevano veduto e sfondato; poi, vieppiù eccitati, si scagliavano con furore nella mischia.

Quella battaglia spaventosa durò più di una mezz’ora, con grande strage da una parte e dall’altra; poi i superstiti un centinaio appena, esausti, si separarono, rifugiandosi chi nelle baracche semisfondate, chi negli angoli più oscuri della città, lasciandosi cadere al suolo come corpi morti.

«È finita» disse Brandok. «Che ricomincino e tramutino la città galleggiante in una città di morti?»

«Ecco un nuovo pericolo per noi» disse il capitano del Centauro. «Chi getterà in mare quei tre o quattrocento morti? Col calore che regna qui si corromperanno presto e scoppierà fra i superstiti qualche malattia che finirà per distruggerli.»

«E che forse non risparmierà nemmeno noi,» disse Toby «se non troveremo qualche mezzo per lasciare questa città di morti.»

«Per ora rassegnatevi, signori» disse il capitano. «Non vedo alcuna terra sorgere all’orizzonte.»

«Il Centauro deve essere stato costruito quando brillava una cattiva stella, mio caro capitano» disse Brandok.

«Così pare. Non è stato che un continuo succedersi di disgrazie. Chissà, aspettiamo la fine di questo poco allegro viaggio. La città per ora non minaccia di affondare, quindi abbiamo diritto di sperare.»

Sembrava però che le speranze dovessero diventare ben magre, poiché l’uragano continuava sempre ad infuriare, sconvolgendo l’Atlantico per un tratto certamente immenso.

Nondimeno la città galleggiava sempre benissimo, ora sollevandosi ed ora sprofondandosi fino a metà della cupola.

Talvolta i cavalloni giungevano quasi fino presso i sei uomini, i quali si tenevano bene aggrappati all’orlo del pozzo, per paura di venire portati via.

La spuma talvolta li avvolgeva così fittamente che non potevano distinguersi l’uno dall’altro, quantunque si trovassero molto vicini.

Il sole era sorto da qualche ora, però i suoi raggi non riuscivano ad attraversare l’enorme massa di vapori, sicché sull’oceano regnava una semioscurità spaventosa.

A mezzodì i naufraghi mangiarono alla meglio qualche boccone; poi, dopo essersi assicurati con delle reti alle traverse dei vetri, cercarono di dormire qualche ora sotto la guardia del pilota del Centauro.

Tutta la notte non avevano chiuso un solo istante gli occhi, e specialmente Brandok e Toby si sentivano estremamente stanchi ed in preda a dei tremiti convulsi, che li impressionavano non poco.

Verso sera uno splendido raggio di sole ruppe finalmente le nubi, illuminando di traverso le onde, essendo l’astro prossimo al tramonto.

Il capitano, avvertito dal pilota, si era affrettato ad alzarsi per cercare di conoscere, almeno approssimativamente, dove l’uragano aveva spinto la città galleggiante. Rimase subito colpito dalla presenza di enormi masse di alghe che fluttuavano in mezzo alle onde.

«Lo temevo» disse aggrottando la fronte.

«Che cosa avete?» chiese Brandok con apprensione.

«Miei cari signori, noi corriamo il pericolo di venir fermati per sempre nella nostra corsa ed imprigionati.»

«Da chi?» chiesero ad una voce i tre americani.

«Dai sargassi. Se questo enorme cassone si caccia fra quegli ammassi di alghe, non ne uscirà più, ve lo assicuro io, a meno che un’altra tempesta non scoppi soffiando in senso inverso.»

«Ma voi capitano, avete la iettatura» disse Brandok.

«Si direbbe davvero, purché invece non l’abbia Jao o la sua città.»

«Ci spinge proprio sui sargassi il vento?» disse Toby.

«E le onde anzi lo aiutano» rispose il capitano, che diventava sempre più inquieto.

«Tempesta, alghe, morti e persone pericolose sotto i piedi» mormorò Brandok. «Non valeva proprio la pena di ritornare in vita dopo cent’anni per provare simili avventure.»

«Ed i vostri amministrati che cosa fanno Jao?» chiese il capitano.

«Russano in mezzo ai morti.»

«Ancora! Meglio per noi. Se non si svegliassero più sarei ben contento, poiché sono certo che ci daranno non pochi fastidi quando finalmente apriranno gli occhi e non troveranno più alcool per continuare la loro indecente orgia. Attenzione! L’urto sarà abbastanza forte per scaraventarvi in acqua se non vi terrete ben saldi.»

L’Atlantico, che si trovava fermato nella sua corsa furibonda, sferzato poderosamente dal vento che lo incalzava senza tregua, raddoppiava la sua rabbia, cercando di sfondare, ma invano, quelle interminabili masse di alghe, saldamente intrecciate le une colle altre per mezzo d’un numero infinito di radici.

Le ondate, non trovando sfogo, si ritorcevano su loro stesse, provocando dei contrassalti d’una violenza indescrivibile.

Immense cortine di spuma vagavano al di sopra dei sargassi abbattendosi di quando in quando e lacerandosi sotto i vigorosi soffi delle raffiche.

La città galleggiante rollava in modo inquietante, tuffando i suoi fianchi nelle onde.

Tutte le sue balaustrate erano state strappate, però le traverse d’acciaio delle invetriate resistevano sempre. Guai se avessero ceduto sotto il peso immane dei cavalloni. Nessuno dei forzati sarebbe di certo sfuggito all’invasione delle acque.

Gli ultimi bagliori del crepuscolo stavano per scomparire, quando la città galleggiante che continuava la sua corsa verso il sud-ovest si trovò in mezzo alle prime alghe.

«Ci siamo!» gridò il capitano, dominando per un istante, colla sua voce tonante, i mille fragori della tempesta. «Tenetevi saldi!»

Una montagna liquida sollevò la città, la tenne un momento come sospesa in aria, poi la scaraventò innanzi con forza inaudita.

Si udì un rombo sonoro, prodotto dalle pareti d’acciaio, poi l’enorme massa rimase immobile, mentre le onde attraversavano velocemente la cupola lasciando cadere entro il pozzo dei torrenti d’acqua, i quali precipitarono sulle teste degli ubriachi come una gran doccia salutare.