Kitobni o'qish: «Le due tigri»
Capitolo I. LA «MARIANNA»
La mattina del 20 aprile del 1857, il guardiano del semaforo di Diamond-Harbour, segnalava la presenza d’un piccolo legno che doveva essere entrato nell’Hugly durante la notte, senza aver fatto richiesta di alcun pilota.
Sembrava un veliero malese, dalle dimensioni straordinarie delle sue vele, la cui superficie era immensa, però lo scafo non era precisamente simile a quello dei prahos, non essendo provvisto di bilancieri per appoggiarsi meglio sulle onde quando le raffiche aumentano di violenza, né avendo al centro quella tettoia che chiamasi attap. Anzi era costruito, a quanto pareva, con lamine di ferro anziché di legno, non aveva la poppa bassa, la tolda era sgombra e poi stazzava tre volte di piú dei prahos ordinari, i quali di rado hanno una portata di cinquanta tonnellate.
Comunque fosse, era un bellissimo veliero, lungo, affilato, che a vento largo, o, meglio ancora, con vento di poppa doveva filare meglio di tutte le navi a vapore che allora possedeva il governo anglo-indiano. Era insomma una vera nave da corsa che rammentava, salvo la velatura, i famosi legni dei violatori di blocco della guerra fra il sud e il nord degli Stati Uniti d’America.
Ma quello che piú doveva stupire il guardiano del semaforo, era l’equipaggio di quel veliero, troppo numeroso per una nave cosí piccola ed anche assai singolare.
Pareva che tutte le razze piú bellicose della Malesia vi avessero uno o piú rappresentanti. Vi erano malesi dalla tinta fosca e gli sguardi cupi; bughisi, macassaresi, battiassi, dayachi, i famosi e terribili tagliatori di teste delle foreste bornesi; si vedevano perfino dei negriti del Mindanao e qualche papuaso dall’immensa capigliatura raggruppata intorno a un pettine non meno gigantesco.
Nessuno però indossava il costume nazionale: tutti portavano il sarong, quel pezzo di stoffa bianca che scende fino alle ginocchia ed il kabay, specie di giacca assai larga, a tinte svariate, che non impedisce alcun movimento.
Solamente due, che forse erano i comandanti del veliero, indossavano costumi differenti e d’una ricchezza inaudita.
L’uno, che nel momento in cui il legno passava dinanzi a Diamond-Harbour stava seduto su un largo cuscino di seta rossa, collocato presso la ribolla del timone era uno splendido tipo d’orientale.
Era un uomo di statura alta, stupendamente sviluppato, con una testa bellissima quantunque la pelle fosse assai abbronzata, con una capigliatura folta, ricciuta, nera come l’ala d’un corvo, che cadevagli sulle spalle e due occhi che pareva avessero dentro il fuoco.
Vestiva all’orientale, con casacca di seta azzurra a ricami d’oro, ampie maniche e bottoni di rubini, calzoni larghi e lunghi stivali di pelle gialla a punta rialzata.
In testa portava un turbantino di seta bianca, con pennacchio fermato da un diamante grosso quasi quanto una noce e certo d’un valore inestimabile.
Il suo compagno invece, che stava appoggiato, spiegazzando nervosamente una lettera, era invece un europeo di statura pure alta, dai lineamenti fini, aristocratici, con occhi azzurri e dolci e i baffi neri che cominciavano a brizzolarsi, quantunque sembrasse piú giovane dell’altro.
Vestiva con molta eleganza, ma non all’orientale: giacca di velluto marrone, con bottoni d’oro, stretta ai fianchi da un’alta fascia di seta rossa, calzoni di broccatello e uose di pelle gialla con fibbie d’oro. Sul capo, invece del turbante, portava un ampio cappello di paglia di Manilla, con alcune nappine di seta rossa appese al nastro.
Già il veliero stava per passare dinanzi alla casetta bianca e all’albero dei segnali, presso cui stavano i due guardiani del faro e due piloti, in attesa di una richiesta, quando l’europeo che fino ad allora pareva che non si fosse accorto della vicinanza della stazione, si volse verso il compagno che sembrava immerso in profondi pensieri.
– Sandokan, – gli chiese: – Siamo entro il fiume e quella è la stazione dei piloti. Ne prenderemo uno?
– Non amo alcun curioso a bordo del mio legno, Yanez, – rispose l’interrogato, alzandosi e volgendo uno sguardo distratto verso la stazione. – Sapremo trovar noi Calcutta anche senza piloti.
– Sí, – disse Yanez, dopo un momento di riflessione. – Meglio conservar l’incognito. Non si sa mai: una indiscrezione può mettere in sospetto quel brigante di Suyodhana.
– Quando giungeremo a Calcutta, tu che l’hai altre volte visitata?
– Prima del tramonto di certo, – rispose Yanez. – La marea monta e la brezza è sempre favorevole.
– Sono impaziente di rivedere Tremal-Naik. Povero amico! Perdere la sua donna prima ed ora la figlia!
– La strapperemo a Suyodhana: vedremo se vincerà la Tigre dell’India o quella della Malesia.
– Sí, – disse Sandokan, mentre un lampo gli balenava negli sguardi e la sua fronte si aggrottava burrascosamente. – Gliela strapperemo, dovessi sconvolgere l’India intera e annegare tutti quei cani di Thugs nelle loro misteriose caverne.
Che il nostro dispaccio sia pervenuto a Tremal-Naik?
– Un telegramma va sempre a destinazione; non temere Sandokan
– Dunque ci aspetterà?
– Penso però che sarebbe meglio avvertirlo che siamo già entrati nell’Hugly e stasera saremo a Calcutta. Ci manderà incontro Kammamuri per risparmiarci la noia di cercare la sua abitazione.
– Vi è qualche ufficio telegrafico lungo il fiume?
– Quello di Diamond-Harbour.
– La stazione dei piloti che abbiamo or ora oltrepassato?
– Sí, Sandokan.
– Giacché siamo ancora in vista, mettiamoci in panna, fa’ staccare un canotto e mandiamo qualcuno. Un ritardo di mezz’ora non sarà una gran perdita.
E poi penso che forse la casa di Tremal-Naik può essere spiata dai Thugs.
– Ammiro la tua prudenza, Sandokan.
– Scrivi dunque, amico mio.
Yanez staccò un foglietto dal suo libriccino, levò da una tasca una matita e scrisse:
Da bordo della Marianna
Signor Tremal-Naik
Via Durumtolah
Siamo entrati stamane nell’Hugly e giungeremo questa sera. Inviateci incontro Kammamuri.
La nostra nave inalbera la bandiera di Mompracem.
Yanez de Gomera.
– Ecco fatto, – disse, mostrando il foglietto a Sandokan.
– Va bene, – rispose questi. – Meglio la tua firma che la mia. Gli inglesi possono ancora rammentarsi di me e delle mie scorrerie.
Un canotto montato da cinque uomini era stato già calato in acqua, mentre il veliero si era messo in panna a mezzo miglio da Diamond-Harbour.
Yanez chiamò il timoniere della piccola scialuppa e gli consegnò il biglietto, unitamente a una sterlina, dicendogli:
– Non una parola su noi e parla portoghese. Il capitano sono io pel momento.
Il timoniere, un bel tipo di dayaco, alto e robustissimo, raggiunse rapidamente il canotto il quale prese immediatamente il largo, dirigendosi verso la stazione dei piloti.
Mezz’ora dopo era di ritorno annunciando che il dispaccio era stato già spedito a destinazione.
– Non ti hanno rivolto alcuna domanda i guardiani del semaforo? – chiese Yanez.
– Sí, capitano Yanez, ma io sono rimasto muto come un pesce.
– Benissimo.
Il canotto fu rapidamente issato e sospeso alle gru, poi la Marianna riprese la sua corsa, tenendosi quasi in mezzo al fiume.
Sandokan si era ricoricato sul suo cuscino di seta, immergendosi in profondi pensieri, mentre Yanez, accesa una sigaretta, si era appoggiato nuovamente alla murata poppiera, guardando distrattamente le due rive.
Immense jungle formate da bambú alti quindici e piú metri, si estendevano a destra e a sinistra dell’imponente fiume, coprendo quelle terre basse e fangose che chiamansi le Sunderbunds del Gange, rifugio favorito delle tigri, dei rinoceronti, dei serpenti e dei coccodrilli.
Un numero infinito di uccelli acquatici volteggiavano sopra le rizophore che coprivano le rive, ma nessun abitante si vedeva.
Aironi giganti, le grandi cicogne nere, ibis brune, e bruttissimi e colossali arghilah, allineati come soldati sui rami curvi dei paletuvieri, facevano la loro toletta mattutina, spennacchiandosi a vicenda; mentre in alto stormi di anitre braminiche, di marangoni e di folaghe s’inseguivano e folleggiavano giocondamente, per precipitarsi poi tutti in acqua allorquando qualche banda di manghi, quei deliziosi pesci rossi del Gange, commetteva l’imprudenza di mostrarsi.
– Bei posti per la caccia, ma brutto paese, – mormorava Yanez, che a poco a poco s’interessava di quelle rive. – Non valgono queste jungle le maestose foreste del Borneo e nemmeno quelle di Mompracem.
– Se questi sono i luoghi abitati dai Thugs di Suyodhana, non li invidierei certo. Canne, spine e pantani: spine, pantani e canne. Ecco il delta del sacro fiume degli indi. E nulla è ancora cambiato da quando io ho visitato l’India. Decisamente gli inglesi non si preoccupano che di tosare meglio che possono i poveri indiani.
La Marianna continuava ad avanzare sempre rapidamente, nondimeno le due rive non accennavano a cambiare, almeno a destra. Sull’opposta invece cominciava ad apparire qualche gruppetto di meschine capanne con le pareti di fango disseccato e i tetti di foglie, ombreggiate da qualche gruppo di cocchi semi intristiti e da qualche colossale nim dal tronco enorme e dal fogliame cupo e fitto.
Yanez stava appunto osservando uno di quei miserabili villaggi, difesi verso il fiume da uno steccato per salvaguardate gli abitanti dagli attacchi dei coccodrilli, quando Sandokan gli si appressò, dicendogli:
– Sono questi i pantani abitati dai Thugs?
– Sí, fratellino mio, – rispose Yanez.
– Che quello sia uno dei loro covi o qualche posto di osservazione? Non vedi laggiú, fra le canne, ergersi una specie di torre che sembra di legno?
– È uno degli asili per i naufraghi, – rispose Yanez.
– Eretto da chi?
– Dal governo anglo-indiano. Il fiume è piú pericoloso di quello che tu creda, fratellino mio, in causa degli enormi banchi di sabbia che la forza della corrente sposta continuamente, sicché i naufragi sono piú frequenti qui che in mare.
Siccome le rive sono popolate da animali feroci, cosí si sono erette in vari luoghi delle torri di rifugio pei naufraghi alle quali si accede mediante una scala a mano che si può ritirare.
– E che cosa contengono quelle torri?
– Dei viveri che vengono rinnovati ogni mese da appositi vaporini.
– Cosí pericolose sono dunque queste rive? – chiese Sandokan.
– Sono infestate da belve e nulla possono offrire al disgraziato che vi approda. Credi tu che dietro quei paletuvieri non vi siano delle tigri che stanno spiandoci? Sono piú audaci di quelle che abitano le nostre foreste, perché sovente osano cacciarsi in acqua e assalire i piccoli velieri all’improvviso, portando via qualche marinaio.
– E non pensano a distruggerle?
– Gli ufficiali inglesi fanno sovente delle battute; sono però cosí numerose quelle fiere, che finora non accennano a diminuire.
– Mi viene un’idea, Yanez, – disse Sandokan.
– Quale?
– Te la comunicherò questa sera, quando avremo veduto quel povero Tremal-Naik.
Il praho passava in quel momento dinanzi alla torre segnalata, la quale sorgeva sul margine d’un isolotto pantanoso, diviso dalla vera jungla da un canaletto.
Era una costruzione robusta quantunque formata con panconi e con bambú, alta quasi sei metri e di forme tozze. L’entrata s’apriva verso la cima e non già a pianterreno e vi si giungeva con una scala a mano. Una iscrizione, ripetuta in quattro lingue, in francese, tedesco, inglese e indostano raccomandava ai naufraghi di fare economia dei viveri contenuti nella torre, avvertendo che il battello rifornitore non giungeva che una sola volta al mese.
Naufraghi non ve n’erano in quel momento. Solamente alcune coppie di marabú sonnecchiavano sulla cima, colla testa affondata nelle spalle e l’enorme becco semi-nascosto fra le piume del petto.
Certo stavano digerendo qualche cadavere d’indiano, arenatosi su quelle rive.
Fu solamente dopo mezzodí che le due rive cominciarono a mostrarsi un po’ popolate, quantunque la jungla si estendesse sempre su una superficie immensa, colle sue erbe gigantesche dalla tinta giallastra, e le sue pianure monotone, interrotte da fanghiglia e da pozzanghere sulla cui smorta uniformità spiccavano invece vivacemente i fiori di loto.
Degli abitanti apparivano di quando in quando su quelle rive, impregnate di febbre e di cholera, intenti a raccogliere il sale nelle naturali efflorescenze di quei terreni pantanosi e nei quadrati a truogolo ed a fondo d’argilla nei quali si conduce l’acqua a mezzo di chiuse.
Erano dei poveri molanghi, nudi, scarni, anzi quasi ischeletriti, tremanti di febbre e che rassomigliavano a ragazzi malaticci piuttosto che a uomini, tanto erano bassi di statura e poco sviluppati.
Di miglio in miglio che il praho guadagnava, anche sul fiume la vita diventava piú attiva. Gli uccelli diventavano rari e soli i martini pescatori, appollaiati sulla cima delle canne facevano udire il loro monotono kri… kri… kri… Si succedevano invece le barche le quali indicavano la vicinanza dell’opulenta capitale del Bengala. Bangle, mur-punky, pinasse e anche delle grab di buon tonnellaggio, attraversavano o scendevano il fiume, ben cariche di derrate e qualche vapore filava lungo le rive, manovrando con precauzione.
Verso le sei, Yanez e Sandokan che si erano collocati a prora, scorsero fra una nuvola di fumo, le alte cime delle pagode della città nera ossia della città indiana di Calcutta e i bastioni imponenti del forte William.
Sulla riva destra bengalows e palazzine graziose, d’architettura inglese mista all’indiana, cominciavano ad apparire in gran numero, allineate dietro a graziosi giardinetti ombreggiati da gruppi di banani e di cocchi.
Sandokan aveva fatto spiegare sull’alberetto maestro la bandiera di Mompracem, tutta rossa con in mezzo una testa di tigre dalle fauci aperte, ritirare buona parte dell’equipaggio e coprire le due grosse spingarde di poppa e le due di prora.
– Che Kammamuri non venga? – stava chiedendo a Yanez che gli stava a fianco coll’eterna sigaretta in bocca, guardando le barche che s’incrociavano in tutti i sensi, quando l’europeo tese la destra verso la riva destra, esclamando:
– Ecco il fedele e coraggioso servo di Tremal-Naik. Vedi Sandokan quella scialuppa che porta a poppa la bandiera di Mompracem?
Sandokan aveva seguito cogli sguardi la direzione indicata dal compagno e vide infatti un piccolo ma elegantissimo fylt’ sciarra, di forme snelle, colla prora adorna d’una testa d’elefante dorata, montato da sei rematori e da un timoniere e sulla cui poppa ondeggiava la bandiera rossa colla testa d’una tigre.
S’avanzava rapidissimo, fra le grab veleggianti e le pinasse che ingombravano il fiume, puntando sul praho il quale si era subito messo in panna.
– Lo vedi? – disse Yanez con voce giuliva.
– Gli occhi della Tigre della Malesia non si sono ancora indeboliti, – rispose Sandokan. – È lui che siede al timone.
Fa’ gettare la scala, mio caro portoghese. Finalmente sapremo come quel cane di Suyodhana è riuscito a rapire la figlia di quel povero Tremal-Naik.
Il fylt’ sciarra in pochi minuti superò la distanza e abbordò il praho a babordo, sotto la scala che in quel frattempo era stata abbassata.
Mentre i remiganti ritiravano i remi e legavano la scialuppa, il timoniere salí, lesto come una scimmia, la scala e balzò sulla tolda, esclamando con voce commossa:
– Signor Sandokan! Signor Yanez! Ah! Quanto sono felice di rivedervi!
Quell’uomo era un bel tipo d’indiano di trenta o trentadue anni, piuttosto alto di statura, dai lineamenti belli, fini ad un tempo ed energici, col corpo piú vigoroso dei bengalesi i quali ordinariamente sono magri.
Il suo viso abbronzato aveva dei riflessi dell’ottone e spiccava vivamente sul vestito bianco, mentre i pendenti che portava agli orecchi gli davano un non so che di grazioso e strano.
Sandokan respinse la mano che l’indiano gli porgeva e se lo attirò fra le braccia, dicendogli:
– Qui sul mio petto, valoroso maharatto.
– Ah! mio signore! – esclamò l’indiano con voce rotta, mentre impallidiva per l’emozione.
Yanez, piú calmo e meno espansivo, gli diede una vigorosa stretta di mano, dicendo:
– Questa vale quanto un abbraccio.
– E Tremal-Naik? – chiese Sandokan, con ansietà.
– Ah! mio signore! – disse il maharatto, mentre un singhiozzo gli faceva nodo alla gola. – Temo che il mio padrone impazzisca! I maledetti si sono vendicati!
– Racconterai tutto fra poco, – disse Yanez. – Dove dobbiamo ancorarci?
– Non gettate l’ancora davanti alla spianata del forte, signor Yanez, – disse il maharatto. – Noi siamo vigilati dai Thugs e quei miserabili devono ignorare il vostro arrivi.
– Saliremo il fiume fino dove tu vuoi.
– Al di là dal forte William, dinanzi lo Strand. I miei battellieri s’incaricheranno di guidarvi.
– Ma quando potremo rivedere Tremal-Naik? – chiese Sandokan con impazienza.
– Dopo la mezzanotte, quando la città sarà addormentata. Dobbiamo essere prudenti.
– Posso fidarmi dei tuoi uomini?
– Sono tutti abili marinai.
– Falli salire a bordo e affida loro la direzione del praho, poi vieni nella mia cabina. Voglio sapere tutto.
Il maharatto con un fischio fece accorrere i suoi uomini, scambiò con loro alcune parole, poi seguí Sandokan e Yanez nel salotto di poppa.
Capitolo II. IL RAPIMENTO DI DARMA
Se quel praho si presentava splendido al di fuori, nel quadro di poppa lo era ancora di piú e si capiva subito che il suo proprietario non aveva certo lesinate le spese nella costruzione e negli addobbi.
La saletta entro cui i tre uomini erano entrati, occupava buona parte del quadro. Le sue pareti erano tappezzate di seta rossa cinese con fiori trapunti in filo d’oro e ornate di gruppi d’armi disposte artisticamente: kriss malesi dalla lama serpeggiante e colla punta probabilmente avvelenata col terribile succo dell’upas; kampilang e parang dayachi, dalla lama larga e pesante soprattutto verso la punta; pistole e pistoloni con le canne arabescate ed i calci d’ebano con intarsi di madreperla; carabine indiane con incrostazioni meravigliose e non mancavano nemmeno i vecchi tromboni dalla bocca larghissima usati un tempo dalle bellicose tribú dei bughisi e dei mindanesi.
Tutto all’intorno correvano dei divani bassi, di seta bianca a fiorami: nel mezzo una tavola di ebano con intarsi di madreperla, in alto una gran lampada di Venezia, con un globo color rosa e già accesa, spandeva una luce dolcissima.
Yanez prese da una mensola una bottiglia e tre bicchieri, che riempí d’un liquore color del topazio, poi disse al maharatto, che si era seduto presso Sandokan:
– Ora puoi parlare, senza timore che alcuno oda i nostri discorsi. I Thugs non sono già pesci per sorgere dal fondo del fiume.
– Se non sono pesci sono diavoli di certo, – rispose il maharatto, con un sospiro.
– Bevi e sciogli la lingua, mio bravo Kammamuri, – disse Sandokan – la Tigre della Malesia ha lasciato Mompracem per dichiarare la guerra alla Tigre dell’India, ma prima desidero conoscere tutti i particolari del rapimento.
– Sono ventiquattro giorni signore, che la piccola Darma è stata rapita da emissari mandati da Suyodhana e sono ventiquattro giorni che il mio padrone la piange senza un momento di tregua. Se non fosse giunto il vostro dispaccio che annunciava la vostra partenza da Mompracem, a quest’ora sarebbe certamente impazzito.
– Temeva che noi non giungessimo in suo aiuto? – chiese Yanez.
– Sí, per un momento lo ha creduto, supponendovi impegnati in qualche impresa.
– I pirati della Malesia da qualche tempo dormono e non vi è piú nulla da fare ormai laggiú. I tempi sono mutati e i bei giorni di Labuan e di Sarawak sono ormai lontani.
– Narra, Kammamuri, – disse Sandokan. – Come fu rapita la piccola Darma?
– Con un colpo di mano veramente diabolico, che dimostra quale genio infernale abbia Suyodhana.
Il mio disgraziato padrone, dacché Ada era morta, dando alla luce la piccola Darma, aveva concentrato sulla bambina tutta l’affezione che nutriva verso la moglie e vegliava rigorosamente onde i Thugs non tentassero qualche cosa contro la debole creatura.
Vaghe voci giunte ai nostri orecchi ci avevano messo in guardia sulle mire dei settari di Kalí. Si diceva che i Thugs, dopo essersi per qualche tempo dispersi onde sfuggire alle giuste rappresaglie dei cipayes del capitano Macpherson, erano tornati ad abitare le immense caverne che si estendono sotto l’isola di Rajmangal e che Suyodhana pensava a procurarsi un’altra «Vergine della pagoda».
Quelle voci avevano gettato un vivo turbamento nel cuore del mio padrone. Egli temeva che quei miserabili, che già per tanti anni avevano tenuto prigioniera sua moglie, adorandola come la rappresentante della dea Kalí sulla terra, tramassero per rapirgli la figlia.
I suoi timori, pur troppo, dovevano avere una terribile e dolorosa conferma.
Conoscendo le astuzie e l’audacia dei Thugs, avevamo prese grandi precauzioni onde non potessero giungere nella stanza della piccina.
Avevamo fatto mettere delle sbarre di ferro alle sue finestre, corazzare la porta, visitare minutamente le pareti per timore che esistesse qualche passaggio segreto, come ve ne sono tanti negli antichi palazzi indiani.
Per di piú io dormivo nel corridoio che conduceva alla stanza, assieme alla tigre addomesticata ed a Punthy, il feroce cane nero, animali che come sapete, i Thugs conoscevano.
Passammo sei mesi fra continue ansie e continue vigilanze, senza però che i Thugs dessero segno di vita.
Un mattino Tremal-Naik ricevette un dispaccio da Chandernagor firmato da un suo amico, un piccolo rajah spodestato, compromesso nell’ultima insurrezione che aveva trovato sicuro asilo nella piccola colonia francese.
– Che cosa diceva quel dispaccio?– chiesero ad una voce Yanez e Sandokan, che non perdevano una sola parola del maharatto.
– Non conteneva che quattro sole parole: «Vieni, urgemi parlarti. Mucdar.»
Il mio padrone, che si era stretto di profonda amicizia con quell’ex principotto da cui aveva ricevuto non pochi favori quando noi tornammo in India, credendolo minacciato dalle autorità inglesi, partí senza indugio dopo avermi raccomandato di vigilare sulla piccola Darma.
Durante il giorno nulla accadde che potesse mettermi in sospetto, sul colpo che forse dal lungo meditavano i settari di Kalí, per avere la figlia della loro «ex-Vergine della pagoda».
Era già giunta la sera, quando ricevetti anch’io un telegramma da Chandernagor e che portava la firma del mio padrone.
Mi rammento ancora parola per parola ciò che diceva:
«Parti immediatamente con Darma, la quale corre un grave pericolo da parte dei nostri nemici.»
Spaventato assai, mi recai alla stazione senza perdere un solo minuto assieme alla piccola Darma e alla sua nutrice.
Il dispaccio mi era giunto alle 6 e 34, e un treno partiva per Chandernagor e Houghy alle 7 e 28.
Salii in uno scompartimento che era vuoto, ma alcuni istanti prima che il treno partisse, due bramini salirono pure, sedendosi di fronte a me.
Erano due personaggi dalle lunghe barbe bianche, dall’aspetto grave ed imponente, che avrebbe rassicurato l’uomo piú sospettoso.
Partimmo senza che alcun che di straordinario fosse accaduto, quando un’ora dopo, appena oltrepassata la stazione di Sirampur, accadde un fatto semplicissimo in apparenza e che doveva avere invece terribili conseguenze.
La valigia d’uno dei due bramini era caduta e nell’aprirsi era sfuggito un globo di sottilissimo cristallo che nell’interno conteneva dei fiori.
Dall’urto fu spezzato e quei fiori si sparsero per lo scompartimento senza che i due bramini si curassero di raccoglierli.
Vidi però che entrambi avevano subito estratto un fazzoletto, accostandoselo alla bocca e al naso come se il profumo di quei fiori, che era acutissimo, avesse dato loro noia.
– Ah! – esclamò Sandokan, che s’interessava assai di quello strano racconto. – Continua, Kammamuri.
– Che cosa successe poi? – disse il maharatto la cui voce era diventata tremante. – Io non ve lo saprei dire.
Mi ricordo solo d’aver sentito la mia testa diventare a poco a poco pesante… poi piú nulla.
Quando mi svegliai un profondo silenzio regnava attorno a me ed ero al buio. Il treno non correva piú, in lontananza udii invece un fischio prolungato.
Balzai in piedi chiamando la nutrice e Darma e nessuno mi rispose. Credetti per un momento di essere diventato pazzo o di essere in preda a uno spaventevole sogno.
Mi precipitai verso lo sportello: era chiuso.
Completamente fuori di me, con un pugno sfondai il vetro tagliandomi la mano, aprii lo sportello e mi slanciai fuori.
Il treno era fermo su un binario morto e non vi erano piú né macchinisti, né frenatori.
In lontananza vidi però dei fanali che pareva illuminassero una stazione. Mi misi a correre gridando sempre:
«Darma! Ketty! Aiuto! Le hanno rapite! I Thugs! I Thugs!»
Venni fermato da alcuni policeman e da alcuni impiegati della stazione. Dapprima mi credettero pazzo tanta era la mia esaltazione e mi ci volle non meno di un’ora per persuaderli che il mio cervello era sano e narrare loro quanto mi era toccato.
Io mi trovavo non già nella stazione di Chandernagor bensí in quella di Houghy, che è situata a una ventina di miglia piú al nord.
Nessuno del personale si era accorto della mia presenza, quando il treno fu fermato nel binario morto, sicché ero rimasto nello scompartimento fino al mio risveglio.
Dal policeman della stazione furono fatte pronte ricerche, che lí per lí non dettero risultato.
Al mattino partii per Chandernagor per avvertire Tremal-Naik della scomparsa di Darma e della nutrice. Non era piú là e appresi dal suo amico che non aveva spedito al mio padrone alcun telegramma.
Nemmeno quello da me ricevuto era stato mandato da Tremal-Naik.
– Quanto sono astuti quei Thugs! – esclamò Yanez. – Chi avrebbe potuto architettare un piano cosí infernale?
– Prosegui, Kammamuri, – disse Sandokan.
Il maharatto si asciugò due lagrime, poi riprese con voce rotta:
– Non riuscirei mai a descrivere il dolore del mio padrone, quando apprese la scomparsa della piccola Darma e della nutrice.
Fu un vero miracolo se non impazzí.
La polizia intanto continuava le sue indagini, unitamente a quella francese di Chandernagor, per scoprire i rapitori della bambina e di Ketty.
Fu cosí constatato che quei due dispacci erano stati spediti da un indiano, che prima di allora non era mai stato veduto dagli impiegati dell’ufficio telegrafico di Chandernagor e che parlava malissimo il francese. Poi che i due bramini che erano saliti con me, eran scesi alla stazione ferroviaria di quella città sorreggendo una donna che pareva fosse stata colpita da un grave malore e portando in braccio una bambina bionda.
Il giorno seguente la nutrice era stata trovata morta in mezzo a un bosco di banani, con un fazzoletto di seta nera stretto al collo.
I Thugs l’avevano strangolata!
– Miserabili! – esclamò Yanez, stringendo i pugni.
– Ciò però non prova che siano stati i Thugs di Suyodhana a rapire la piccola Darma, – osservò Sandokan. – Possono essere stati dei banditi volgari che…
– No, signore, – disse il maharatto, interrompendolo. – Sono i Thugs di Suyodhana che hanno fatto il colpo perché una settimana dopo il mio padrone trovò nella sua stanza una freccia, che doveva essere stata scagliata dalla strada, la cui punta era formata da un piccolo serpente colla testa di donna, l’emblema dei settari della mostruosa Kalí.
– Ah! – esclamò Sandokan, aggrottando la fronte.
– E non è tutto, – prosegui Kammamuri. – Un mattino trovammo sulla porta della nostra abitazione un foglietto di carta con sopra dipinto l’emblema dei Thugs, sormontato da due pugnali incrociati fra un S.
– La firma di Suyodhana? – chiese Yanez.
– Sí, – rispose il maharatto.
– La polizia inglese non ha scoperto nulla?
– Ha proseguite le indagini per qualche settimana ancora, poi lasciò morire la cosa. Sembra che non desideri troppo imbarazzarsi coi Thugs.
– Non ha fatto ricerche nelle Sunderbunds? – chiese Sandokan.
– Si è rifiutata, col pretesto che non poteva disporre di uomini per organizzare una spedizione abbastanza forte per assicurare un buon successo.
– Non ha piú soldati dunque il governo del Bengala? – chiese Sandokan.
– Il governo anglo-indiano in questo momento è troppo occupato per pensare ai Thugs. L’insurrezione si allarga sempre piú, e minaccia di travolgere tutti i possedimenti inglesi dell’India.
– Ah! Vi è stata un’insurrezione in India? – chiese Yanez.
– E diventa di giorno in giorno piú terribile, signore. I reggimenti dei cipayes si sono rivoltati in piú luoghi, a Merut, a Delhi, a Lucknow, a Cawnpore e dopo d’aver fucilato i loro ufficiali accorrono sotto le bandiere di Tantia Topi e della bella e coraggiosa Rani.
– Ebbene, – disse Sandokan, alzandosi e facendo un giro attorno alla tavola con una certa agitazione, – giacché né la polizia, né il governo del Bengala possono occuparsi dei Thugs in questo momento, ci penseremo noi, è vero, Yanez?
Abbiamo cinquanta uomini, cinquanta pirati, scelti fra i piú valorosi di Mompracem, che non temono né i Thugs, né Kalí, armi di buona portata, una nave che può sfidare anche le cannoniere inglesi e dei milioni da gettar via.
Con tuttociò si può sfidare la potenza dei Thugs e dare a quel mostro di Suyodhana un colpo mortale.
La Tigre dell’India alle prese con la Tigre della Malesia! Ci sarà da divertirsi.
Vuotò il bicchiere colmo di quel delizioso liquore, stette un momento immobile cogli occhi fissi sul fondo della tazza, poi, girando bruscamente su se stesso e guardando il maharatto, chiese:
– Tremal-Naik crede che i Thugs siano tornati nei loro misteriosi sotterranei di Rajmangal?
– Ne ha la convinzione, – rispose Kammamuri.
– Dunque la piccola Darma deve essere stata condotta là?
– Certo, signor Sandokan.
– Tu conosci Rajmangal?
– E anche i sotterranei. Vi dissi già che rimasi per sei mesi prigioniero dei Thugs.
– Sí, me ne ricordo. Sono vasti quei sotterranei?
– Immensi, signore, e si estendono sotto tutta l’isola.
– Sotto mi hai detto! Ecco una bella occasione per affogare là dentro tutte quelle canaglie.
– E la piccola Darma?
– Li affogheremo piú tardi, quando saremo riusciti a strappare a loro la piccola, mio bravo Kammamuri.
– Da quale parte si discende in quei sotterranei?.
– Da un foro aperto nel tronco principale d’un immenso banian.
– Ebbene, andremo a visitare le Sunderbunds, – disse Sandokan. – Mio caro Suyodhana, avrai ben presto notizie di Tremal-Naik e della Tigre della Malesia.