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Kitobni o'qish: «La rivicità di Yanez»

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Emilio Salgari
LA RIVINCITA DI YANEZ

CAPITOLO I. LA COLONNA INFERNALE

– Saccaroa!… Ma dove quel demonio di Sindhia ha raccolto tanti sciacalli? Sono due giorni che sbucano dalle foreste e dalle jungle per arrestarci, eppure ne abbiamo gettati a terra! Cinque elefanti, cinque mitragliatrici e cento carabine, se saranno ancora cento, poiché delle perdite ne abbiamo subite anche noi.

– Vogliono impedirci di giungere a Gauhati, signor Sandokan, per non lasciarci congiungere col signor Yanez, il Maharajah bianco, il vostro fratello d’oltre oceano.

– E tu credi, Kammamuri, che quei pezzenti saranno capaci di fermarci? Sai come ho chiamato la banda che io conduco in aiuto di Yanez? La colonna infernale. Oh, passerà anche attraverso a ventimila uomini! Hanno molto da imparare questi indiani dai malesi e dai dayaki. Non ne ho condotti con me che cento, ma scelti con estrema cura, cento vere tigri della Malesia, che quantunque siano in fondo maomettani, ad un mio ordine non esiterebbero a strappare la barba al gran Profeta se si presentasse dinanzi a loro.

– So quanto valgono – disse Kammamuri. – Due volte sono stato nella Malesia e li ho sempre ammirati; eppure io appartengo ad una delle razze piú guerresche dell’India.

– Sí, i maharatti sono sempre stati bravi soldati, ed agli inglesi hanno dato dei grossi fastidi. Lo sa la Compagnia delle Indie.

– Signor Sandokan, un’altra imboscata…

– Questa sarebbe la terza, ma la colonna infernale passerà ed io andrò, malgrado tutti gli ostacoli, a rivedere mio fratello bianco, la rhani e il piccolo Soarez. Bell’idea che ho avuto a portare con me delle mitragliatrici! Sgombrano rapidamente le jungle. Sei sicuro che ci assalgano ancora?

– Ho udito i segnali di quei banditi, signor Sandokan. Si radunano per darci un ultimo attacco, forse.

– Oh, noi passeremo.

Stava per cadere il giorno. Una luce quasi sanguigna si proiettava attraverso le alte pianure del Bengala, coperte di jungle e di fitte boscaglie di fichi baniani, di mangifere e di vecchi tamarindi, i cui rami piegavansi sotto il peso della frutta.

Una colonna si avanzava rapidamente, aprendosi il passo lungo il fossato sinistro della linea ferroviaria di Rangpur.

Era composta di cinque magnifici elefanti coomareah, i piú forti delle due razze che esistevano nell’India, quantunque meno bassi dei merghee, muniti di robuste casse od houdah, dinanzi alle quali s’alzava, su un affusto, una mitragliatrice a venticinque canne, disposta a ventaglio.

Seguivano cento cavalieri, montati su robusti cavalli di razza inglese.

Strani quei cavalieri, poiché non appartenevano a nessuna razza indiana. Mentre alcuni erano bassi e piuttosto tarchiati, colla pelle fosca che aveva dei riflessi olivastri e sfumature rossastre cupe, gli occhi piccoli e nerissimi; altri invece erano piuttosto alti, di colore giallastro, di forme quasi perfette, coi lineamenti bellissimi, quasi regolati, e gli occhi bene aperti, ampi ed intelligentissimi.

Un uomo che avesse avuto una profonda conoscenza colla regione malese, non avrebbe esitato a classificare i primi per malesi autentici, e gli altri per dayaki bornesi, due razze che si equivalgono per ferocia, per audacia e per coraggio indomito.

Cavalcavano forse un po’ male, poiché tutta quella gente doveva essere piú abituata a cavalcare i pennoni dei rapidissimi prahos malesi; pure si tenevano abbastanza bene in sella, ed i cavalli inglesi non avevano molto buon giuoco.

Tutti erano formidabilmente armati di grosse carabine di mare, usate piú per la mitraglia che pei proiettili, di pistoloni a lunga canna e di certi pesanti sciaboloni le cui punte finiscono in forma di doccia, armi terribili, fabbricate con un acciaio naturale che solo si trova nelle miniere dei Monti del Cristallo del Sultanato di Varauni, e che con un colpo solo portano via una testa.

Erano i famosi kampilangs dei dayaki.

Sul primo elefante si trovavano due uomini ben diversi l’uno dall’altro. Noi sappiamo chi era Kammamuri, l’indemoniato maharatto, il fedelissimo servo di Tremal-Naik, il famoso cacciatore della Jungla nera.

L’altro, che stava proprio seduto dietro alla mitragliatrice, pronto sempre a scatenarla, pareva invece un orientale dell’estremo oriente, a giudicarlo dalla tinta della sua pelle che aveva dei lontani riflessi olivastri, occhi nerissimi, ardenti, barba ancora nera malgrado i suoi cinquantacinque anni, e capelli lunghi e ricciuti che gli cadevano sulle spalle.

Indossava una ricchissima casacca di seta verde con alamari rossi e bottoni d’oro, portava calzoni larghi d’egual colore, alti stivali di pelle gialla colla punta rialzata, come quelli degli Usbeki del Turchestan, e da una larga fascia di seta bianca gli pendeva una magnifica scimitarra la cui impugnatura, incrostata di diamanti e di rubini, doveva avere un valore grandissimo.

Sul secondo si trovavano un vecchio malese dal volto rugoso e l’espressione feroce, ed un uomo sulla quarantina, di forme massicce, cogli occhi azzurri, difesi da un paio d’occhiali montati in oro, i capelli biondissimi e la carnagione quasi rosea degli uomini dei paesi nordici dell’Europa.

Vestiva tutto di bianco, di flanella leggerissima, e portava in testa una specie di elmo di tela bianca, con un lungo velo azzurro che gli cadeva sulle spalle.

Non aveva affatto l’aspetto d’un uomo di guerra, ma piuttosto quello di uno scienziato o d’un esploratore.

Gli altri tre erano montati da malesi e dai cornac.

La colonna si era cacciata in mezzo ad un largo passaggio aperto fra delle immense mangifere che si stendevano lungo alcuni stagni assai vasti, entro i quali si vedevano guizzare giganteschi coccodrilli in cerca di preda. Doveva già aver subíto delle perdite, se non di uomini almeno di cavalli, poiché parecchi animali portavano due cavalieri invece d’uno.

Il primo elefante, ad un fischio del cornac, si era arrestato, arrotolando subito prudentemente la sua proboscide fra le zanne, come se avesse temuto l’assalto improvviso di qualche tigre, e si era piantato solidamente sulle grosse zampe mandando un lungo barrito.

L’uomo vestito da orientale s’era tolto il largo turbante di seta bianca, su cui sfavillava un diamante d’inestimabile valore, poi si era collocato dietro alla mitragliatrice, dicendo al cornac che si era coricato tutto sul collo dell’elefante:

– Tieni ferma la bestia tu.

– Sí, sahib.

– Avremo un altro assalto da parte di quei brutti sciacalli. È già il quarto… Quanti sono dunque?

– Ve l’ho detto, signor Sandokan, – disse l’indiano che gli sedeva a fianco e che stava armando la carabina. – Molti… Ventimila, si dice.

Il fiero bornese, poiché non era affatto un malese, alzò le spalle e disse:

– Ma noi passeremo egualmente.

– Badate che quei banditi hanno espugnata e saccheggiata Goalpara, battendo i duemila montanari di Sadhja che erano guidati dal figlio di Khampur.

– Se fossero stati comandati dal padre, Goalpara apparterrebbe ancora alla rhani e quindi anche a Yanez. E poi, noi siamo le tigri di Mompracem che tante e tante volte hanno vinto gli inglesi per terra e per mare, e quegli uomini, non offenderti, Kammamuri, si battono meglio degli indiani.

– Non dei maharatti, però, signor Sandokan. Abbiamo perduto, è vero, la nostra indipendenza, ma quante madri inglesi hanno pianto i loro figli caduti nella lontana India? E molti ne sono morti, in mezzo alle jungle, in mezzo alle selve, intorno alla città ed ai villaggi.

– Taci, Kammamuri.

Fra le folte mangifere si erano uditi degli urli acuti, urli lugubri, simili a quelli che manda il lupo quando è affamato e scorrazza le montagne.

– Credi tu, che sei indiano, che questi siano urli di sciacalli? – chiese Sandokan.

– No, signore, quantunque abilmente imitati – rispose Kammamuri.

– Siamo lontani dalla capitale?

– Solamente sei o sette miglia, ma mi stupisce grandemente una cosa.

– Parla.

– Che non vedo le cime né di pagode, né di moschee. Eppure l’orizzonte è ancora bene illuminato.

– Che Yanez, vedendosi perduto, abbia dato fuoco a Gauhati?

– Lo credo, signor Sandokan.

– Ma sappiamo dove trovarlo?

– Nella città sotterranea.

– Sarà ben sicuro laggiú?

– Poche carabine bastano a difenderne l’entrata.

– Allora sono tranquillo. Ancora dei segnali?

Si alzò, e volgendosi verso gli uomini che montavano gli altri quattro elefanti, gridò con voce tonante:

– Pronte le mitragliatrici!… C’è un nuovo attacco.

«I cavalieri si stringano presso gli animali.»

In quel momento alcuni colpi di fucile rimbombarono in mezzo alle mangifere. Facevano gran fracasso e nessun danno, essendo forse le carabine maneggiate da gente piú abituata ad usare il tarwar ed il bastone anziché le armi da fuoco.

– Cornac! – gridò Sandokan. – Lanciate gli elefanti! Ormai sono abituati a questa musica!

I cinque giganteschi animali, scortati dai cavalieri, si misero in moto a mezza corsa, barrendo spaventosamente. Non tenevano però la proboscide alzata per paura di ricevere qualche palla.

Le mitragliatrici erano pronte. Bastava solo che gli assalitori si mostrassero per scatenarle, ma gli sciacalli di Sindhia, che avevano già provato il fuoco di quei terribili ordigni di guerra, si guardavano bene dal mostrarsi.

I cavalieri però, quando vedevano qualcuno attraversare i cespugli a gran corsa, o per unirsi ai compagni, o per scegliersi una migliore posizione, di quando in quando facevano tuonare le loro grosse carabine di mare cariche fino a mezza canna di piccoli chiodi di rame. Quei colpi non sempre uccidevano, ma sbarazzavano il terreno dagli assalitori, i quali non sapevano resistere ai morsi crudeli di quel nuovo genere di mitraglia, usato solamente dai pirati malesi.

Per un buon chilometro i cinque elefanti procedettero sempre a mezza corsa e sbucarono finalmente nella pianura che si stendeva al sud della capitale, priva di boschi e di jungle, perché quei terreni erano stati coltivati a risaie.

Kammamuri mandò un altissimo grido:

– La capitale è scomparsa!… Non vedo altro che la vecchia moschea che sorge presso l’entrata della città sotterranea.

– Infatti non si vedono che dei bastioni semi-sventrati – rispose Sandokan. – Dev’essere stato un bell’incendio, poiché dei templi, dei palazzi e delle case ve n’erano in gran numero in Gauhati. Che si sia arrostito, per caso, anche Yanez? Ah! Sindhia me la pagherebbe ben cara la morte del mio fratellino bianco.

La sua fronte si era corrugata tempestosamente, ed i suoi occhi nerissimi avevano mandato dei baleni terribili. La Tigre della Malesia non era ancora invecchiata.

– Mi hai udito, Kammamuri? – chiese dopo un breve silenzio, rotto solo dallo sbuffare degli elefanti, i quali pareva che avessero nei polmoni dei mantici giganteschi.

– Se il Maharajah ha avuto il tempo di rifugiarsi nelle grandi cloache, e l’avrà certamente avuto, noi lo troveremo ancora vivo.

Sandokan respirò a lungo come gli avessero tolto dal petto un masso enorme che lo comprimesse, poi riprese:

– Tu credi dunque che sia salvo?

– Sí, signor Sandokan.

– E la rhani? Ed il piccolo Soarez che tanto desidero di vedere?

– O saranno con lui, o li avrà avviati prima verso le montagne. Sapete quanto Yanez sia prudente.

– Sí, molto piú di me, e se non ci fosse stato lui a frenarmi, chi sa se sarei ancora vivo. Orsú, tutto pare che vada bene. Sole quattro miglia ci separano da quella moschea, distanza che i nostri elefanti ed i nostri cavalli supereranno in un batter d’occhio.

– Se ci lasceranno tranquilli, signor Sandokan.

– Ci diano pure battaglia quegli sciacalli; anche se sono molti, moltissimi, noi siamo pronti ad accettarla.

– Vi è però un pericolo.

– E quale?

– Che poi ci assedino.

– Dentro la città sotterranea?

– Sí, signor Sandokan.

– Manca l’acqua là dentro?

– Ve n’è perfino troppa.

– Ed allora tutto andrà bene: cinque elefanti da mangiare e quasi cento cavalli da scuoiare. Ne avremo per resistere a lungo.

– E la legna?

– I miei uomini sono abituati a mangiare la carne anche cruda; e poi, se ne avremo bisogno, tenteremo delle uscite furiose e ci provvederemo. Orsú, basta, ora è il momento di riprendere un’altra conversazione. Li vedi correre e nascondersi nei fossati delle risaie?

– Sí, signor Sandokan, e quei birbanti son dieci volte piú numerosi di noi, e quello che è piú grave ancora, vedo non pochi rajaputi.

– Ah, quei bravi rajaputi che si vendono cosí facilmente – disse Sandokan, stringendo i denti. – Sarà su di loro che faremo tuonare le nostre mitragliatrici. Gli altri ben poco contano.

Per la seconda volta si alzò gridando ai cornac:

– A gran corsa!… Diritti verso quella moschea che vedete laggiú!…

Cinque o seicento uomini, fra i quali si trovavano non pochi rajaputi, erano balzati sugli argini delle risaie, sparando all’impazzata. Le cinque mitragliatrici, tre volte a destra e due a sinistra subito crepitarono scagliando proiettili in tutte le direzioni.

Nel medesimo tempo i cavalieri avevano aperto il fuoco colle loro grosse carabine.

Quell’uragano di piombo e di rame non parve però che spaventasse troppo gli assalitori, quantunque molti cadessero ad ogni istante dentro i canali delle risaie morti o feriti.

Gli sciacalli di Sindhia correvano all’assalto con un coraggio disperato, decisi, a quanto pareva, ad impedire a quella colonna, che veniva dal sud, l’entrata nella capitale distrutta o nella città sotterranea.

Si scagliavano con impeto selvaggio, in grossi gruppi, correndo all’impazzata ed urlando spaventosamente. Assalivano a destra ed a sinistra procedendo animosamente e non cessando di sparare, ma quasi sempre a casaccio.

La colonna infernale peraltro non si arrestava. Procedeva rapida, sempre mitragliando, mentre i cavalieri eseguivano, di quando in quando, delle cariche furiose coi pesanti kampilangs in pugno, producendo sugli sciacalli di Sindhia delle ferite spaventose e forse inguaribili.

Dinanzi a quegli attacchi furibondi gli assalitori continuavano a scompigliarsi ed a fuggire attraverso alle risaie, ma non tardavano a raggrupparsi intorno ai rajaputi, i soli che osassero resistere, ed a far uso delle loro carabine.

Dalla parte dei malesi, di quando in quando cadeva qualche uomo che non veniva abbandonato dai compagni sul campo di battaglia, colla speranza di poterlo ancora salvare.

Ma le cinque mitragliatrici, maneggiate da uomini abili, compivano delle vere stragi, ed erano soprattutto i rajaputi che pagavano, perché Sandokan non faceva fuoco che su di loro, ben sapendo che erano le uniche truppe solide che aveva l’ex rajah.

Quegli arditi mercenari dall’aspetto brigantesco, cadevano a gruppi sugli argini, dentro i canali delle risaie; eppure tentavano di raccogliere, con altissime grida, intorno a loro, i paria, i fakiri, i bramini, tutta gente non abituata certamente alla guerra.

– Tengono duro, ma noi la spunteremo – disse Sandokan a Kammamuri, maneggiando la mitragliatrice. – Se non vi fossero i rajaputi, la giornata sarebbe già vinta; però Sindhia s’inganna se crede di arrestarci prima che noi giungiamo nella città sotterranea.

Le scariche si succedevano alle scariche con frequenza spaventosa, ed i proiettili sibilavano dentro le risaie. I cavalieri cosí malesi come dayaki, erano tornati a stringersi intorno agli elefanti e si servivano delle loro grosse carabine, lasciando in pace i kampilangs, già arrossati di sangue.

La vecchia moschea non era che a tre chilometri. Le sue cupole si disegnavano nettamente sul fondo del cielo diventato d’un azzurro cupo poiché il sole era ormai già tramontato.

Erano molti, tuttavia Sandokan non disperava affatto di giungervi malgrado i continui e feroci assalti degli sciacalli di Sindhia.

Aveva portato con sé molte casse di munizioni destinate soprattutto alle mitragliatrici, e non faceva economia di proiettili né faceva farne agli altri.

– Giú!… Spazzatemi questa canaglia!… – gridava. – Noi che abbiamo vinti gli inglesi in dieci battaglie, dovremo cadere dinanzi a dei miserabili paria?

Vedendo che gli assalitori, malgrado le terribili perdite subite, tornavano a radunarsi intorno ai pochi rajaputi sfuggiti al fuoco infernale delle mitragliatrici, si volse verso i suoi cavalieri.

– Addosso coi kampilangs in pugno!… – gridò. – Sbarazzatemi la via ora che il terreno è piú propizio.

Gli elefanti intanto avevano lasciate le risale e marciavano, a gran corsa, su una landa vastissima interrotta solamente da gruppi di banani e di radi cespugli.

I malesi ed i dayaki attesero che le mitragliatrici avessero sgominato l’ostinato avversario, poi caricarono all’impazzata, maneggiando con mano robusta i loro pesanti sciaboloni.

La colonna infernale passava attraverso i corpi degli sciacalli di Sindhia, tutto rovesciando al suo passaggio.

Ormai piú nessuno poteva arrestarla. Sarebbero state necessarie tutte le forze dell’ex rajah, forze che si trovavano forse disperse intorno alla vasta città distrutta ed occupate a rimescolare le ceneri delle pagode, delle moschee, dei palazzi, dei bengalow, colla speranza di trovare dell’oro e dell’argento.

Gli elefanti impressionati da tutti quegli spari e da tutte quelle grida, e resi furibondi per qualche ferita, si erano slanciati a gran corsa barrendo spaventosamente.

Quei cinque giganti, montati da uomini che parevano invulnerabili, e che colle mitragliatrici seminavano dovunque la morte, facevano paura.

Gli sciacalli di Sindhia, già sgominati dall’ultima carica, atterriti da tutti quegli spari che si succedevano senza tregua, e che abbattevano sempre gruppi d’uomini, non osavano piú opporre alcuna resistenza, anche perché il terreno scoperto non si prestava piú.

Fuggivano da tutte le parti, piú lesti dei nilgò, gettando perfino le carabine per essere piú leggeri. Anche i pochi rajaputi, spaventati dalla carneficina compiuta dalle mitragliatrici, non resistevano piú. Fuggivano dinanzi alla colonna infernale.

– Era tempo che se ne andassero – disse Sandokan, scaricando un’ultima volta la sua mitragliatrice sui fuggiaschi. – Ci prendevano per dei conigli?

Alzò la voce e gridò:

– Spingete, spingete, cornac!… Siamo ormai a pochi passi dall’asilo sicuro.

– Lasciate ora a me la direzione degli elefanti – disse Kammamuri. – Io solo conosco il passaggio.

– Potranno entrare le bestie? – chiese Sandokan.

– L’arcata è cosí grande da permettere l’entrata anche ad un piccolo esercito, e poi vi sono le due banchine che sono vastissime. Cavalli ed elefanti potranno avanzarsi senza alcun pericolo di cadere nelle acque fangose del fiume nero. Ci vorrebbe peraltro qualche torcia.

– Ne abbiamo una cassa piena. Sta proprio sotto i tuoi piedi.

Il maharatto con due colpi del calcio della sua carabina sfondò le tavole, prese ciò che aveva chiesto e l’accese subito, gridando agli altri cornac:

– Seguite sempre il mio elefante ed io rispondo di tutto. Badate che nessun animale si sbandi quando saremo entrati nella grande città sotterranea!…

Presso la vecchia moschea una banda composta di paria o di fakiri, o di banditi, tentò un ultimo assalto per arrestare la colonna infernale prima che si sprofondasse sotto le tenebrose volte della grande cloaca, ma non era cosí formidabile da opporre una lunga resistenza.

Le mitragliatrici tuonarono per l’ultima volta abbattendo file intere di combattenti, poi i cinque elefanti ed i cento cavalieri scomparvero sotto la gigantesca arcata, correndo su una delle due banchine.

La torcia di Kammamuri serviva da faro.

Ad un tratto delle voci echeggiarono fra le tenebre:

– Chi va là!… Chi va là!…

– Siamo le tigri di Mompracem! – gridò Sandokan con voce tonante. – Non fate fuoco!…

– Era tempo che tu giungessi!… – gridò una voce.

– Ah, sei tu, Yanez? – chiese Sandokan. – Sono ben lieto di essere giunto ancora in tempo per salvarti.

Un gruppo d’uomini si avanzava, agitando due torce. Era preceduto da un uomo bianco, dalla lunga barba brizzolata, di forme gagliarde, vestito interamente di flanella bianca sottilissima. A fianco di quel bell’uomo si avanzava un indiano dal lineamenti fini, la pelle appena abbronzata, gli occhi nerissimi, vestito mezzo da cipai e mezzo da rajaputo.

Erano Yanez, il Maharajah dell’Assam, ormai troppo noto, ed il suo fedele compagno Tremal-Naik, il famoso cacciatore della Jungla nera.

Dietro venivano tredici uomini, tutti indiani e tutti armati di carabine e di tarwar, armi che non valevano molto in uno scontro contro i malesi ed i dayaki, che si servivano invece, come abbiamo già detto, di sciabole pesantissime, i formidabili kampilangs.

Kammamuri aveva fatto fermare il primo elefante e gettare la scala di corda.

Sandokan, il terribile pirata malese, in un lampo si era slanciato sulla banchina ed aveva aperte le braccia gridando:

– Qui sul mio cuore tutti e due, miei vecchi amici!…

Il Maharajah e l’indiano si erano gettati verso di lui stringendolo gagliardamente.

– Ora basta – disse Sandokan. – La rhani e Soarez sono in salvo?

– Sí – rispose Yanez. – Prima di distruggere la mia capitale ho mandato l’una e l’altro fra i montanari di Sadhja.

– Saccaroa! ho ben veduto, giungendo qui, che non sorgevano piú né pagode, né palazzi. Dicono che io sono terribile, ma tu non sei meno di me.

– Non sono forse il tuo fratello bianco? – disse Yanez ridendo.

– È vero; ma me n’ero quasi scordato. Sai che sono tre lunghissimi anni che non ci vediamo?

Poi volgendosi bruscamente verso Tremal-Naik, gli chiese:

– E la tua Darma? E suo marito, quel bravo Sir Moreland? Sono qui?

– Mai piú; navigano sempre e sono ora nell’Oceano Pacifico.

– E credo che facciano bene a tenersi lontani dall’India – disse Sandokan. – I thugs non sono ancora stati tutti distrutti, e quelle canaglie sono troppo vendicative.

Poi guardò l’amico bianco sorridendo.

– Dunque tu non sei piú Maharajah, mio povero amico?

– Adagio, Sandokan – rispose Yanez. – Ho sempre un piede nell’impero ed ho i montanari sempre fedeli.

– Mentre quelle canaglie di rajaputi ti hanno tradito tutti. Me lo ha detto Kammamuri.

– Non ne ho che uno solo, di mille.

– Ne abbiamo gettati giú parecchi però, di quei mercenari infedeli, venendo qui, e sento per quella gente un vero odio.

– Ed io non meno di te – disse Yanez. – Se non mi avessero abbandonato, Sindhia non avrebbe mai potuto riporre i piedi sulle coste assamesi. Tutta la canaglia che ha radunata sarebbe andata subito a rotoli.

– E cosí hai perduto le due città piú grosse dell’impero?

– E forse altre saranno cadute nelle mani di quei bricconi. Da ventisei giorni sono qui, come un prigioniero, e piú nessuna notizia mi è giunta dal di fuori.

Sandokan lo guardò con stupore.

– Come puoi aver resistito tanto tempo al calore infernale che regna qui dentro? Dovresti essere biscottato come un pane di sagú.

– Quest’altissima temperatura si è sviluppata cinque o sei giorni fa. Prima le immense volte delle cloache pareva che non si fossero nemmeno accorte dell’incendio che avvampava sopra di loro distruggendo la mia capitale.

Poi, a poco a poco sono diventate ardenti.

– Non ci cadranno sulla testa?

– Non credo. I mongoli erano troppo buoni costruttori. Può darsi che molte gallerie e molte rotonde siano crollate, ma noi non usciremo attraverso quelle. Sarebbe troppo pericoloso.

– E l’acqua manca? Vedo qui un largo fiume puzzolente che scorre presso la banchina. Certamente io non mi disseterò con quella poltiglia.

– Abbiamo trovata una piccola sorgente che ce ne fornisce in abbondanza.

– E di viveri quanti ne avete? – chiese Sandokan.

– Pensa, mio caro, che da quando ci siamo rifugiati qui non abbiamo fatto altro che arrostire topi poiché non avevamo avuto il tempo di portare con noi nemmeno una cassa di biscotti.

– Povere bestie!… Quante ne avrete distrutte?… Delle centinaia e centinaia m’immagino.

– Ma ora eravamo alle prese con la fame, poiché i rosicchianti, spaventati, ci hanno vigliaccamente abbandonato.

– Non avevano poi torto – disse Sandokan, sorridendo. – A nessuno piace finire nello spiedo.

In quel momento verso l’entrata della grande cloaca si udirono rimbombare sinistramente parecchi colpi d’arma da fuoco i quali si erano ripercossi lungamente attraverso alle innumerevoli gallerie, rumoreggiando.

Sandokan aveva fatto un gesto di collera.

– Ah!… – esclamò. – Quei banditi, o sciacalli che siano, osano assalirci anche qui? Adagio, miei cari. Avrete altre terribili lezioni!…

Poi alzando la voce e volgendosi verso i suoi uomini che si tenevano ancora in sella, e che avevano accese parecchie torce, disse loro:

– Togliete le mitragliatrici dalle houdah e portatele, con una scorta di cinquanta persone, verso l’uscita di questa immensa cloaca. Gli elefanti rimangano per ora qui. Potrebbero diventare, piú tardi, straordinariamente preziosi. Non fate risparmio di munizioni: ne abbiamo in abbondanza.

Venticinque dayaki ed altrettanti malesi saltarono a terra affidando i cavalli ai loro compagni, si strinsero intorno agli elefanti che i cornac avevano fatti inginocchiare, tolsero le cinque terribili bocche da fuoco e si allontanarono a gran corsa, seguendo la banchina.

– Sempre lesti come scimmie e mai esitanti i tuoi uomini! – disse Yanez con un sospiro.

– Puoi dire i nostri uomini, poiché per lunghi anni hanno combattuto con te. Se io sono la Tigre della Malesia, tu sei sempre la Tigre bianca di Mompracem, e ti rimpiangono quei valorosi che tu hai guidato a tante vittorie sulle terre malesi.

«Già, questo maledetto impero dell’Assam non ci voleva proprio e non era necessario.»

– E mia moglie?

– È vero, è la rhani, ed ha il diritto di conservarsi lo Stato e di contrastarlo a quel furfante di Sindhia già detronizzato.

Ci sarà un gran lavoro da fare, mio caro Yanez, tuttavia io non mi spavento affatto. Mi piace combattere in India e noi, che abbiamo vinto e ucciso Suyodhana, il famoso capo dei thugs della Jungla nera, per la seconda volta sapremo mettere a posto l’ex rajah ubriacone e…

Si era interrotto e si era voltato verso l’immensa entrata della grande cloaca, dove brillavano in lontananza dei punti rossastri che talvolta si oscuravano per diventare invece giallastri. Erano le torce a vento che fiammeggiavano alla foce del fiume fangoso.

Si udirono alcuni colpi di fucile, poi delle scariche fitte, serrate, spaventevoli, dinanzi alle quali non potevano certamente resistere gli sciacalli di Sindhia.

– Odi come cantano le mie mitragliatrici? – disse il formidabile pirata, volgendosi nuovamente verso i due suoi amici. – Senza quelle forse non sarei mai riuscito a giungere fino qui, poiché quegli sciacalli, animati dalla presenza dei rajaputi, ci hanno dato dei brillanti attacchi. È vero bensí che resistevano soltanto qualche minuto.

– Armi da marina? – chiese il portoghese. – Non ho ancora avuto il tempo di osservarle. Somigliano a quelle che avevamo a bordo del Re del Mare?

– Molto piú potenti – rispose Sandokan. – Le ho tolte dalla mia Perla di Labuan che ora è la nave piú rapida e meglio armata che io possegga. Oh, gli inglesi di Labuan la conoscono e sanno che è in grado di tener testa ai loro incrociatori già troppo antiquati, ed alle cannoniere olandesi.

– Ah!… – fece Yanez, battendosi con una mano la fronte. – E la tua amica olandese?

– È sempre la mia fedele amica – rispose il pirata di Mompracem con un leggero sorriso. – To’, io mi dimenticavo di presentarti un suo parente, un professore, che si dice goda molta fama in Europa, e che ci aiuterà validamente a distruggere le bande di Sindhia.

– Qual professore? – chiese Yanez, con tono un po’ ironico, alzando la voce poiché le mitragliatrici facevano un chiasso infernale.

– Ti rammenti quel Demonio della guerra che con una certa macchina elettrica poteva far esplodere, a distanza, i depositi di polvere delle navi?

– Per Giove, se me lo rammento!… E sono quasi certo che se quella granata, caduta proprio nel momento in cui stava per lanciare la terribile scintilla elettrica, non avesse ucciso lui distruggendo nel medesimo istante il suo misterioso apparecchio, molte navi di Sir Moreland sarebbero saltate.

– Ed allora Sir Moreland non sarebbe diventato mio genero – disse Tremal-Naik. – Se tutto saltava, doveva ben andare in aria anche lui coi suoi marinai.

– Tu hai ragione – disse Sandokan. – La tua Darma non si sarebbe sposata col figlio di Suyodhana.

– Ma dov’è questo professore? – chiese Yanez.

– Sul secondo elefante. È probabile che si sia addormentato poiché soffre di sonno.

– Ha anche lui qualche scintilla elettrica per fare esplodere le polveri? – chiese Yanez.

– No, ha una cassa piena di bottiglie ben sigillate.

– E crederebbe, quel pacifico professore che viene dalla brumosa Olanda, di sterminare…

– Sterminare, hai detto? Pretende e si tien sicuro di distruggere tutti gli sciacalli di Sindhia con quelle misteriose bottiglie.

– Che cosa contengono dunque?

– Io non ho capito gran cosa, e poi non sono un europeo per sapere che cosa sono i microbi.

– I microbi?… Che diavolo!… Ha la peste ed il colera rinchiusi dentro quelle bottiglie?

– Che cosa vuoi che ne sappia io? – rispose Sandokan. – Io non mi intendo che di prahos, di carabine, di parangs e di kampilangs. Lui ti spiegherà meglio.

Prese ad un malese una torcia, la sbatté per terra, ed essendo in quel momento cessate le scariche delle mitragliatrici e delle grosse carabine da mare, s’avvicinò al secondo elefante, il quale stava vuotando avidamente un mastello che il cacciatore di topi aveva riempito alla sorgente e gridò:

– Signor Wan Horn, vi presento il Maharajah dell’Assam!