Kitobni o'qish: «La riconquista di Monpracem»
1. L’abbordaggio dei malesi
Quella notte tutto il mare che si stende lungo le coste occidentali del Borneo era d’argento.
La luna che saliva in cielo col suo corteo di stelle, attraverso una purissima atmosfera, versava torrenti di luce azzurrina d’una dolcezza infinita.
I naviganti non potevano sperare una notte migliore, poiché anche il mare era calmissimo e solamente una fresca brezza, impregnata de’ mille profumi di quell’isola meravigliosa, lo faceva appena appena increspare.
Una gran nave a vapore che veniva dal settentrione scivolava dolcemente fra il banco di Saracen e l’isola di Mangalum, fumando allegramente.
Sulla sua scia nottiluche e meduse salivano rendendo più viva la luminosità delle acque.
Vi era festa quella sera a bordo, poiché il salone centrale era tutto illuminato.
Un pianoforte sonava un waltzer di Strauss, mentre la voce robusta d’un tenore vibrava, lanciandosi attraverso gli sportelli aperti ed espandendosi lontano sul mare d’argento.
Ad un tratto un grido si alza a prora.
– Stop in macchina!
Il capitano che era salito sul ponte per fumare liberamente una pipata di acre tabacco inglese, appena udito quel comando si precipitò giù dalla passarella e gridò:
– Good God! chi ferma la mia nave?
– Sono io, capitano, – disse un marinaio avanzandosi.
– Con qual diritto? Comando io qui!
– Perché abbiamo dinanzi a noi una flottiglia di pescatori malesi, giunta non so come, e quella flottiglia è ben grossa.
– Se non ci lasceranno il posto, passeremo sui loro maledetti prahos e manderemo in fondo al mare tutti quei vermi che li montano.
– E se fossero invece pirati, signore? Non è la prima volta che assaltano anche i piroscafi.
– Corpo d’un tuono! Vediamo! —
Il capitano salì sul castello di prora, dove già si trovava l’ufficiale di rotta e guardò nella direzione che il marinaio gl’indicava.
Venticinque o trenta grossi prahos, colle loro immense vele variopinte sciolte al vento, s’avanzavano lentamente contro il piroscafo, coll’evidente intenzione di tagliare il passo.
Dietro quella flottiglia poi, una piccola nave a vapore che pareva uno yacht bordeggiava per non sopravvanzare i velieri, lanciando attraverso la luce lunare una colonna di fumo nerissimo misto a scorie scintillanti.
– Corpo d’un tuono! – gridò il capitano. – Che cosa vogliono quei velieri? Non mi pare affatto che peschino. —
Si volse verso l’ufficiale di quarto che aspettava i suoi ordini e gli disse:
– Signor Walter, fate caricare il cannone di prora con della buona mitraglia e rallentare la corsa.
– Chi credete che siano, comandante?
– Io non lo so; ma so che navighiamo in mari battuti dai pirati bornesi e malesi.
Non dite nulla a nessuno non voglio guastare la festa organizzata in onore di S. M. la Graziosa Vittoria. —
L’ufficiale diede rapidamente gli ordini ricevuti ai marinai di quarto, che si erano radunati sul castello di prora non poco impressionati dall’avvicinarsi di quella misteriosa flottiglia.
La marcia del piroscafo si era subito rallentata, ma i passeggeri non si erano accorti di nulla, poiché il tenore accompagnava al piano un altro waltzer di Strauss, Sangue Viennese.
Quattro uomini, guidati dall’armaiuolo di bordo, smascherarono rapidamente il cannone celato sotto un grosso incerato e si misero a caricarlo.
I prahos intanto continuavano la loro marcia con un insieme meraviglioso, approfittando della brezza che soffiava dal sud.
Il piccolo battello a vapore li scortava sempre, girando pei due fianchi della doppia colonna.
Non vi era ormai più alcun dubbio: erano pirati ferocissimi che movevano all’abbordaggio del piroscafo.
Se fossero stati dei pescatori, vedendo avanzarsi la nave a vapore, non avrebbero tardato a dividersi per non perdere le loro reti.
Il capitano e l’ufficiale di quarto si erano messi in vedetta, mentre un quartiermastro distribuiva in fretta fucili e munizioni e faceva salire in coperta la guardia franca per prestare man forte nel caso di un attacco.
– Signor Walter, che cosa ne pensate di tutto ciò? – chiese il capitano, il quale appariva assai preoccupato.
– Temo che quelle canaglie vengano a guastare la festa.
– Abbiamo delle armi.
– Ma quella flottiglia è dieci volte più numerosa di noi. Voi sapete come sono armati i prahos da corsa.
– Sì, lo so purtroppo! – rispose il capitano.
La flottiglia in quel momento si trovava a soli cinquecento metri dal piroscafo.
Con una rapida manovra aprì le due linee e lasciò il passo allo yacht a vapore, il quale si spinse audacemente innanzi.
Trascorse qualche minuto, poi una voce poderosa, che coprì quella del tenore, s’alzò sul mare gridando minacciosamente:
– Stop in macchina! —
Il capitano aveva imboccato un portavoce ed aveva prontamente chiesto:
– Chi siete voi e che cosa volete da noi?
– Divertirci a bordo della vostra nave.
– Avete detto?
– Che questa sera mi sento in grado di ballare un waltzer.
– Fate aprire le file o faccio fuoco!
– Accomodatevi – rispose la misteriosa voce con un po’ d’ironia.
La sirena dello yacht aveva fatto udire il suo urlo. Era certamente un comando, poiché i trenta prahos in un baleno si disposero su due colonne e mossero velocemente e risolutamente contro la nave, la quale si era fermata.
– Belt, tira un colpo di cannone su quei vermi! – gridò il capitano.
L’armaiuolo fece tremare il pezzo con un rombo che si ripercosse anche nel salone centrale, dove i passeggeri si divertivano.
La risposta fu fulminea.
Sei prahos avevano scaricate le loro grosse spingarde, facendo scrosciare la mitraglia sulle lastre metalliche della nave, mentre altre sei scagliavano in coperta una tempesta di chiodi, ma ad un’altezza da non poter colpire gli uomini.
Quasi subito un lampo balenò sulla prora dello yacht e l’albero di trinchetto, spaccato sopra la coffa con matematica precisione, cadde in coperta con grande fracasso.
I passeggeri atterriti avevano interrotta la festa e tentato d’invadere il ponte; ma l’ufficiale di quarto, appoggiato da otto marinai armati di carabine e di sciabole d’arrembaggio, aveva chiuso inesorabilmente il passo così agli uomini come alle signore, dicendo:
– Nulla, nulla: sono affari che riguardano gli uomini di mare. —
Per la seconda volta la voce poderosa echeggiò sulla prora dello yacht:
– Arrendetevi o scateno tutte le mie artiglierie. Voi non potrete resistere nemmeno dieci minuti.
– Canaglia! che cosa vuoi da noi? – gridò il capitano, furioso.
– Ve l’ho già detto: divertirmi a bordo della vostra nave e null’altro.
– E saccheggiarci?
– Ah, no! Ve ne do la mia parola d’onore.
– La parola d’un bandito.
– Oh, signor mio, non sapete ancora chi io sia. Fate calare subito la scala e date ordine che si riprenda la festa. Vi accordo un solo minuto. —
La resistenza era impossibile.
Quei trenta prahos dovevano disporre di almeno sessanta spingarde e portare equipaggi numerosi ed agguerriti negli abbordaggi.
Per di più vi era l’artiglieria dello yacht, artiglieria grossa senza dubbio, capace di aprire delle falle a fior d’acqua ed affondare il vapore in meno di cinque minuti.
– Giù la scala! – comandò subito il capitano, vedendosi ormai perduto.
Lo yacht, una splendida nave a vapore di trecento tonnellate, armata di due grossi pezzi da caccia, s’avanzò fra i prahos e venne ad ormeggiarsi sul tribordo del piroscafo, proprio sotto la scala.
Un uomo salì subito, seguìto da trenta malesi armati di carabine, di parangs e di kriss.
Lo sconosciuto che voleva divertirsi indossava un elegantissimo costume di flanella bianca e portava in testa un ampio sombrero colle ghiande d’oro, come usano i ricchi messicani.
Nella fascia di seta azzurra portava un paio di pistole a doppia canna col calcio d’avorio laminato in oro ed una corta scimitarra di manifattura indiana colla guaina d’argento finemente cesellato.
I marinai avevano portati dei fanali, cosicché lo sconosciuto comparve finalmente in piena luce.
Era un bell’uomo di statura alta, fra i quarantacinque e quarantotto anni, con una lunga barba ormai brizzolata abbondantemente.
Fissò i suoi occhi scuri, quegli occhi che sono comuni solamente agli spagnuoli ed ai portoghesi, sul capitano dicendo:
– Buona sera, comandante. —
Lo sconosciuto parlava tranquillamente come un uomo che è sicuro di sé.
D’altronde i trenta malesi si erano allineati dietro di lui, piantando sul ponte, con un rumore pauroso, le enormi lame dei loro parangs.
– Chi siete? – chiese il capitano sbuffando.
– Un nababbo indiano che ha voglia di divertirsi – rispose lo sconosciuto.
– Voi, un indiano? Che carote mi venite a vendere?
– Ho sposato una rhani che governa una delle più popolose provincie dell’India e perciò posso farmi passare per un indiano, quantunque io sia nativo del Portogallo.
– E con quale diritto hai fermato la mia nave? Corpo d’un tuono! Farò rapporto alle autorità di Labuan.
– Nessuno ve lo impedirà.
– State certo che lo farò, signor…
– Yanez.
– Yanez, avete detto? – esclamò il capitano. – Io ho udito ancora questo nome.
Voi dovete essere il compagno di quel formidabile pirata, che si fa chiamare pomposamente la Tigre della Malesia.
– V’ingannate, comandante; in questo momento non sono che un principe consorte che viaggia per svagarsi.
– Con un seguito di trenta prahos!
– Se vi ho detto che sono un nababbo! Questi piccoli capricci me li posso levare.
– Abbordando le navi in piena corsa come un volgare pirata! Che cosa pretendete voi? La consegna del piroscafo ed il saccheggio dei passeggeri? —
Yanez si mise a ridere.
– I nababbi sono troppo ricchi per aver bisogno di queste miserie, signor mio. Lo Stato frutta a mia moglie milioni e milioni di rupie.
– Concludete. È da un po’ che voi mi canzonate.
– Date ordine ai passeggeri che riprendano le danze e rassicurateli sulle mie intenzioni.
– Siete straordinario! – esclamò il capitano, che cadeva di sorpresa in sorpresa.
– Vi avverto che se non obbedite subito lancerò trecento uomini all’abbordaggio della vostra nave, e son uomini che non hanno mai avuto paura né del Profeta né del diavolo.
Vi avverto inoltre che dispongo di settanta bocche da fuoco, che vi copriranno tutti di mitraglia, nel caso che vi saltasse il ticchio di opporre la menoma resistenza.
Guidatemi, comandante; pagherò lautamente il vostro disturbo. —
Si levò dalla cravatta di seta azzurra una superba spilla d’oro montata su un diamante grosso come una nocciola e gliela porse, aggiungendo:
– Chiudete gli occhi e prendete. È un diamante del Guzerate d’un’acqua bellissima. —
Vedendo che il capitano, al colmo dello stupore, non si muoveva, lo prese per la giacca e gli piantò la spilla all’altezza del colletto, dicendo:
– Accontentatemi, dunque! Il ballo sarà ben pagato! —
Ormai ogni resistenza era inutile.
I prahos avevano compiuta la loro congiunzione intorno al piroscafo ed i loro equipaggi non aspettavano che un comando del nababbo, per montare all’arrembaggio e spazzare via tutti, uomini e donne.
– Venite – disse lui coi denti stretti, bestemmiando in cuor suo, quantunque avesse ricevuto un regalo principesco. – Voi mi date la parola d’onore che rispetterete i miei passeggeri?
– Parola di rajah! – rispose l’uomo che si chiamava Yanez, con una leggera punta d’ironia. – Non sono già un bandito, anche se ho una scorta di prahos malesi.-
Attraversarono la tolda e scesero insieme nel gran salone centrale splendidamente illuminato.
I trenta malesi, silenziosi, minacciosi, li avevano seguiti, tenendo snudati i loro terribili parangs, coi quali d’un sol colpo potevano far volare una testa.
I banditi dell’arcipelago si schierarono all’estremità del salone, su due linee compatte, mentre Yanez si avanzava col sombrero in mano verso i passeggeri, che non osavano più fiatare, e diceva:
– Signore, riprendano, prego, le loro danze, e gli uomini facciano da cavalieri.
I miei uomini non ammazzeranno nessuno, malgrado il loro aspetto poco rassicurante, perché sotto il mio pugno di ferro diventano agnellini. —
Una bionda miss tutta vestita di bianco e con ricchi pizzi sedeva al pianoforte, e guardava da vera inglese, più con curiosità che con apprensione, la scena che stava per succedere.
Il tenore invece era prudentemente scomparso per paura che la sua voce guastasse i nervi del terribile uomo, che comandava da vero padrone su una nave non sua.
– Miss, – disse alla suonatrice, inchinandosi galantemente e togliendosi il cappello – poco fa, navigando al largo, io ho udito suonare un waltzer che da molti anni non ho più danzato.
Vorreste essere così gentile di ripeterlo?
– Suonavo il Sangue Viennese, signor…
– Chiamatemi pure milord, o meglio Altezza, essendo io un rajah indiano che ha già dato non poco da fare ai vostri compatriotti.
– Ebbene, Altezza? – balbettò la miss.
– Replicatemi quel waltzer, ve ne prego. L’ho danzato una sera a Batavia e me lo ricordo ancora.
Quello Strauss, bisogna dirlo, è insuperabile nello scrivere i waltzer.
Ma vi era qualcuno poco fa che cantava in questa sala. Dove si è cacciato quel signore? Non sono già un’orca marina per divorarlo in un solo boccone e me ne appello a voi, signore e signorine.-
Un giovinotto roseo e paffuto coi capelli biondi e gli occhi azzurri fu spinto innanzi da una energica signora olandese od inglese che fosse, la quale gli disse:
– Canta dunque Wilhelm! Sua Altezza desidera udirti.
– Più tardi signora, – rispose il portoghese. – L’alba non è ancora spuntata. —
Il capitano, che si mordeva rabbiosamente i baffi malgrado il magnifico regalo che aveva ricevuto e che non doveva valere meno di mille rupie, si fece minacciosamente innanzi a Yanez, chiedendogli:
– Voi avete detto che l’alba non è ancora spuntata?
– Chiamatemi Altezza prima di tutto. Io vi ho chiamato finora capitano.
– Sia pure, Altezza; ma vi chiedo se voi avreste l’idea d’immobilizzare il mio piroscafo fino a domani mattina. Siamo attesi a Brunei.
– Da chi? – chiese Yanez ironicamente. – Da quel famoso sultano? È troppo occupato a digerir lo champagne che si fa mandare dalla Francia e che beve come acqua fresca.
Ora lasciateci tranquilli e non guastate più oltre la festa colle vostre proteste, che d’altronde non otterranno alcun effetto. —
Poi, volgendosi verso i trenta malesi, immobili e silenziosi come statue di bronzo, sempre appoggiati sui loro sciaboloni, aggiunse:
– Là c’è la forza! —
Girò intorno uno sguardo e lo fissò su una bellissima signora dalle forme opulenti, che si pavoneggiava in un azzurro vestito di percallo adorno di trine di Bruxelles.
– Signora, – le disse togliendosi il sombrero e facendo un profondo inchino. – Vorreste farmi l’onore di concedermi un waltzer? Non sono più giovane, eppure sono sicuro di ballarlo meglio di tutti quelli che si trovano qui.
– Volentieri, Altezza, – rispose prontamente la signora.
– Miss, volete cominciare?
Approfittiamo dell’immobilità del piroscafo.
– Subito, Altezza, – rispose la giovane pianista.
Fece scorrere le sue agili dita sui tasti, poi attaccò vigorosamente il magnifico waltzer di Strauss, facendo echeggiare tutta l’ampia sala.
Yanez, sempre cortese, quantunque un po’ beffardo, porse la mano alla sua dama, dicendole:
– Approfittiamone.
– Di che cosa, Altezza? – chiese la signora con visibile emozione.
– Questa è la tregua di Dio, e io perciò sarò con voi tutti un perfetto gentiluomo.
Non chiedo altro che di divertirmi e di farmi obbedire. Signora, sono ai vostri ordini. —
Lo strano nababbo indiano abbracciò la dama e mentre la giovane miss suonava vigorosamente, si slanciò traverso il salone, danzando con grazia sufficiente, data la sua età.
Tutti gli altri, impressionati dalla presenza dei malesi, erano rimasti immobili. Nessuno aveva osato seguire quel terribile uomo, quantunque, pur danzando, avesse gridato replicatamente:
– Divertitevi dunque, signore! Che cosa aspettate? —
Il pianoforte, un ottimo Roeseler, vibrava superbamente nella magnifica sala.
Yanez continuava a danzare, ma i suoi occhi irrequieti si fissavano di quando in quando sui passeggeri, come se cercasse qualcuno.
Ad un tratto, fra l’ansietà generale, s’interruppe.
Un uomo, che indossava una casacca rossa ad alamari d’oro, calzoni di tela candidissima entro alti stivali alla scudiera, con due lunghi favoriti biondi che gli scendevano lungo le gote, si era aperto il passo attraverso i passeggeri.
Yanez si curvò verso la dama e le disse:
– Permettete, signora? Riprenderemo la danza un po’ più tardi. —
Mosse diritto verso l’uomo che indossava la divisa rossa, così cara agl’inglesi, con un moto fulmineo trasse ed armò le pistole e gliele puntò contro il petto.
Un grido di spavento echeggiò nella gran sala, subito soffocato dal rumore sordo e minaccioso dei parangs malesi che venivano piantati nel tavolato.
– Signor mio, – gli disse – volete farmi l’onore di dirmi chi siete?
– Un uomo protetto dovunque dal largo vessillo inglese rispose l’altro, pur impallidendo poiché era affatto inerme.
– L’Inghilterra penserà più tardi, se crederà, a prendersi la sua rivincita e vendicare una offesa fatta ad uno dei suoi ambasciatori.
Per il momento il padrone sono io qui.
– Con quale diritto? – chiese l’inglese.
– Del più forte.
– Questa non è una ragione, bandito!
– Vi prego di chiamarmi Altezza, perché la grande Inghilterra ha riconosciuto perfettamente i diritti che io ho su una grande provincia prossima al Bengala.
– E che cosa pretendereste da me?
– Vi siete dimenticato, milord, di chiamarmi Altezza.
– Ai banditi dell’Arcipelago malese non accordo un tanto onore.
– Ed io milord, me ne infischio altamente. Chi siete? Parlate o fra pochi secondi qui vi sarà un uomo morto.
– Tanto v’interessa? – chiese l’inglese, pallido d’ira, arretrando d’un passo.
– Certo, milord.
– E se mi rifiutassi?
– Vi ucciderei! – rispose freddamente Yanez, appoggiandogli contro il petto le due magnifiche pistole.
– E l’Inghilterra…
– Sì, vi vendicherà, troppo tardi per vostra disgrazia. La sua bandiera non è ancora giunta a coprire questo piroscafo.
Non volete dirmi chi siete? Ve lo dirò io allora.
Voi siete l’ambasciatore inglese che l’Inghilterra manda a Varauni a sorvegliare, o meglio a spiare gli atti di quell’imbecille di sultano.
Mi sono ingannato? —
L’inglese era rimasto come fulminato. Aveva capito d’aver dinanzi a sé un uomo capace di eseguire alla lettera la minaccia e di farlo stramazzare, con quattro palle di pistola nel petto, sanguinante sul tappeto del gran salone.
Il momento era tragico. Nessuno fiatava.
La bionda miss aveva interrotto il suo waltzer, mentre i trenta malesi avevano fatto un passo innanzi, facendo scintillare minacciosamente, alla luce delle innumerevoli candele, le loro enormi sciabole.
2. L’ambasciatore inglese
Mai l’inglese, anche durante le sue cacce in India od in altre regioni dell’Asia, aveva veduto la morte così vicina.
Yanez, fermo a due passi di distanza, teneva sempre puntate le pistole e le sue mani non avevano un tremito.
Un rifiuto, una esitazione, e quattro spari avrebbero echeggiato là dove fino allora aveva vibrato il pianoforte.
– Orsù! – disse Yanez, alzando un po’ le pistole. – Vi decidete sì o no?
Per Giove! Io a quest’ora, preso così fra l’uscio e il muro o, se vi piace meglio, fra la vita e la morte, non avrei esitato.
È vero che un portoghese non è un inglese.
– Insomma che cosa volete da me? – chiese l’uomo dai favoriti rossi.
– Vi faccio osservare che non mi avete chiamato ancora Altezza, milord.
– Io non vi riconosco questo titolo.
– La corona che mia moglie, la rhani, porta sulla fronte, ai confini del Bengala, è abbastanza pesante, signor mio, per farvi rispettare le persone.
Sono un rajah e basta. Ditemi invece chi siete voi. Sono due minuti che attendo la vostra risposta e che aspetto di graziare od uccidere un uomo. —
L’inglese, quantunque facesse degli sforzi supremi per mantenersi tranquillo, impallidiva a vista d’occhio.
– La risposta! – ripeté Yanez.
– Che cosa volete fare di me? Io non lo so ancora.
– Solamente impedirvi di andare a Varauni come ambasciatore dell’Inghilterra, perché quel posto verrà occupato da un’altra persona che io ora non posso nominare.
– E vorreste arrestarmi?
– Certo, milord: vi imbarcherò sul mio yacht, dove sarete trattato con tutti i riguardi possibili.
– E fino a quando?
– Fino a quando piacerà a me.
– È un sequestro di persona.
– Chiamatelo come volete, milord: a me non disturberete con questo i miei sonni.
Ed ora, milord, conducetemi nella vostra cabina e consegnatemi le credenziali per il sultano del Borneo.
– È troppo! – urlò l’inglese.
– Ma obbedendo salvate la vita.
Sbrigatevi: abbiamo annoiato abbastanza queste signore e queste signorine. —
Si era voltato e fatto un cenno.
Subito quattro malesi, robusti come piccoli tori, lo raggiunsero in mezzo alla sala.
– Voi, poi – gridò Yanez volgendosi verso la scorta sempre immobile – al primo tentativo di rivolta fate fuoco. —
Prese un candeliere che si trovava sul pianoforte e spinse avanti l’inglese, il quale ormai non si sentiva più in caso di tentare la menoma resistenza.
– Andiamo! – gli disse.
Attraversarono il salone, aprendosi il passo fra i passeggeri terrorizzati ed impotenti, e sempre seguiti dai quattro malesi raggiunsero il quadro di poppa, dove si trovavano le cabine di prima classe.
Yanez si era messo a leggere i cartellini attaccati alle porte che portavano il nome, cognome e condizione dei viaggiatori.
– Sir William Hardel, ambasciatore inglese – lesse. – È dunque questa la vostra cabina?
– Sì, signor brigante! – rispose l’inglese, furibondo.
– Fareste meglio a chiamarmi Altezza: ve l’ho già detto. Aprite, signor mio. —
Sir William non osò rifiutarsi. Si sentiva addosso i quattro malesi, i quali pareva avessero una voglia pazza di metterlo a pezzi coi loro terribili parangs.
La porta fu aperta ed i sei uomini entrarono in una bellissima e spaziosa cabina ammobiliata con molto lusso e soprattutto con buon gusto.
Yanez che osservava tutto, balzò verso il canterano dove si trovava una pistola; la prese e la passò ai suoi uomini, dicendo al disgraziato ambasciatore:
– Certe volte succedono delle cose che non si possono prevedere, e sono quasi certo che se voi aveste potuto afferrare prima di me quell’arma, me l’avreste scaricata nel petto.
– Le occasioni non mancheranno – rispose sir William.
Mentre i malesi lo attorniavano per impedirgli di fare il menomo atto di ribellione, aprì la sua grossa e splendida valigia di pelle gialla cogli angoli d’acciaio.
– Sono qui le credenziali? – chiese Yanez.
– Sì, bandito.
– Fatemele vedere.
– Sono in quel pacco di carta rossa sigillata.
– Benissimo. —
Il portoghese spezzò i bolli, tolse l’involucro e trasse diversi documenti che scorse rapidamente.
– Sono in perfetta regola, Sir William Hardel. —
Li rimise nel bagaglio, poi volgendosi verso due dei suoi uomini aggiunse:
– Portate tutto ciò a bordo del mio yacht.
– Assassino! – gridò l’inglese. – Mi private perfino delle mie vesti e del mio denaro!
– No, Sir William, lo metto solamente al sicuro.
– Ed ora che cosa volete fare di me?
– Seguirete questi due altri uomini, i quali hanno precedentemente ricevuto tutti gli ordini necessari.
Badate di non tentare la fuga, perché allora avreste da far i conti coi parangs e so io come tagliano.
– Il mio governo non lascerà impunita una simile infamia.
– Certo, Sir Hardel, – rispose Yanez un po’ beffardamente. – Non so per altro chi lo avvertirà.
– I passeggeri della nave o il capitano. Appena saranno giunti a Varani telegraferanno al governatore di Labuan.
– Non sono ancora giunti nella capitale del sultanato. Andiamo, signor ambasciatore, ché io non voglio farmi sorprendere all’alba da qualche cannoniera, quantunque abbia una flottiglia poderosa.
I due malesi ad un cenno del portoghese avevano afferrato strettamente per le braccia il povero Sir, e gli altri portavano la valigia che pareva pesantissima.
Quando tornarono nel gran salone ancora tutti vivi, i passeggeri mandarono un gran sospiro di soddisfazione ed assistettero, al pari dei marinai perfettamente immobili, all’uscita dell’ambasciatore.
Il capitano del piroscafo si avvicinò a Yanez, chiedendogli con voce rabbiosa:
– Che cosa volete ancora da noi?
– Finire il waltzer con quella graziosa signora – rispose il portoghese tranquillamente.
– Ancora? E quando ve ne andrete fuori dai piedi?
– Ah, c’è tempo, capitano. —
S’avvicinò al pianoforte, dove stava sempre seduta la bionda miss e le disse:
– Signorina, per circostanze indipendenti dalla mia volontà ho dovuto interrompere il ballo.
Vorreste riprenderlo? Ah, i waltzer di Strauss sono veramente meravigliosi!
– Quest’uomo è pazzo! – pensò certo il capitano.
Yanez si era voltato bruscamente, col viso scuro, verso il comandante.
– Signor mio, – gli disse – vorreste dirmi come vi chiamate?
– Tanto v’interessa?
– Non si sa mai.
– John Foster: io non ho paura a dirvelo.
– Grazie. —
Trasse di tasca un piccolo libriccino legato in pelle ed oro e scrisse quel nome, poi mosse, sempre pacato, sempre magnifico nella sua grande calma, verso la signora colla quale aveva incominciato il waltzer e che pareva lo aspettasse.
– Volete finirlo… signora?…
– Lucy Wan Harter.
– Ah! Un’olandese?
– Si, Altezza.
– Mi ricorderò di voi.
Il waltzer era incominciato ed i passeggeri, vedendo il terribile uomo slanciarsi fra i vortici della danza e sorridere alla sua dama, dapprima timidamente, poi più animatamente avevano seguito l’esempio ma guardando bene di tenersi lontani dalla coppia che danzava al centro del salone.
Solamente il tenore non si era più fatto udire. Lo spavento doveva aver paralizzati i suoi mezzi vocali.
Il waltzer era terminato e Yanez aveva condotto verso un divano la bella olandese, la quale non cessava di fissarlo intensamente, con quell’olimpica calma che è una specialità dei popoli bagnati dal freddo e tempestoso mare del Nord.
Una profonda ansietà si era impadronita di tutti. Pareva che si chiedessero che cosa voleva ora fare il terribile uomo.
Yanez si asciugò il sudore che gli bagnava la fronte, poi disse, volgendosi verso i passeggeri:
– Signore e signori: vi accordo dieci minuti per far portare i vostri bagagli in coperta. —
Il capitano, che digrignava i denti presso il pianoforte, si slanciò innanzi colle pugna chiuse chiedendo:
– Che cosa volete fare ora, furfante?
– Mia Altezza desidera vedere una nave saltare in aria – rispose francamente il portoghese.
– La mia?
– È della Compagnia; quindi non è affatto vostra.
– Mi è stata affidata.
– Difendetela, se vi credete abbastanza forte. Io sono un uomo che non rifiuta mai un combattimento.
– Miserabile pirata! Mi avete preso per il collo e cercate ora di strozzarmi.
– La nave, non voi.
– Avete trenta prahos, fatene saltare uno se volete divertirvi, o anche mezza dozzina.
– Oh! Siete spiccio, voi.
– È ora di finirla con questa infame canagliata. —
Yanez trasse un portasigari tempestato di brillanti, levò una sigaretta, l’accese, e dopo d’aver gettato in aria alcune boccate di fumo profumato, disse con voce che non ammetteva replica:
– Quando io avrò finito di fumare questa sigaretta, il piroscafo dovrà essere sgombro delle persone che lo montano.
I macchinisti sono stati tutti arrestati ed ho fatto già collocare presso i forni un barile contenente cento chilogrammi di polvere.
Su via, capitano: fate portare in coperta i bagagli delle signore e dei signori e date ordine che si mettano in mare tutte le scialuppe.
– Bisogna che vi uccida: ricordatevi di John Foster.
– Anzi, mi segnerò il vostro nome. Talvolta gli uomini s’incontrano quando meno credono.
– Ed io spero bene di trovarvi un giorno! – ruggì il capitano al colmo dell’esasperazione.
– Ed io sarò lieto di offrirvi una buona bottiglia di vino portoghese a bordo del mio yacht.
Badate che ho fumato già mezza sigaretta e che i miei malesi cominciano ad impazientirsi.
– Corpo d’un tuono! Obbedisco alla forza brutale d’un bandito!
– Principe! – disse Yanez un po’ beffardamente.
Degli ordini erano stati dati e trasmessi agli uomini che si trovavano in coperta, sorvegliati da altri trenta malesi, perfettamente armati, sbarcati da uno dei trenta grossi prahos.
I passeggeri, terrorizzati dal pensiero che quel terribile uomo facesse da un momento all’altro saltare il piroscafo, salivano confusamente sulla tolda.
Yanez li aveva preceduti coi suoi malesi.
I marinai stavano calando le scialuppe e ritirando dal boccaporto di maestra le valigie dei passeggeri.
Una grande confusione si era manifestata tra quelle cento e cinquanta persone. Tutti si spingevano innanzi per essere i primi a scendere nelle scialuppe.
Solamente la bella dama olandese conservava una calma olimpica.
Yanez, vedendo gli uomini più vigorosi travolgere i più deboli, si slanciò innanzi, seguito da una ventina di malesi.
– Prima i fanciulli! – gridò – poi le signorine, poi le signore e ultimi gli uomini.
Se non mi obbedite, faccio spazzare il ponte da una scarica. —
Sapendo ormai con quale individuo avevano da fare, i passeggeri si fermarono. I malesi d’altronde avevano imbracciate le loro pesanti e corte carabine di mare, pronti a far fuoco al primo segnale del loro capo.
– Calmatevi! – disse Yanez levando un’altra sigaretta. – Non ho ancora dato ordine di accendere la miccia che ho fatto collocare sul barile. Avete tempo di fare i vostri comodi. —
Poi, vedendo passare la bella dama olandese sospinta dagli altri, la trasse dal gruppo.
– Signora, – le disse – dove andate? A Varauni o a Pontianak?
– A Varauni, signore.
– Allora spero di rivedervi presto.
– Anche voi andate nella capitale del Sultanato?
– Lo spero. —
Si tolse da un dito un superbo anello con un magnifico rubino e glielo porse:
– Signora Lucy, – riprese – per avermi fatto divertire.
– Ed io lo terrò carissimo, perché datomi da un uomo che non ha paura di nessuno. —
Le diede il braccio e le fece largo fra i passeggeri che si affollavano addosso alle murate, impazienti di scendere nelle imbarcazioni già tutte messe in acqua.
– Finché io sono qui non v’è alcun pericolo, signori miei, perché non ho alcun desiderio di saltare in aria colle macchine di questa nave.
Lasciate il posto a questa signora! —
La sollevò fra le robuste braccia, passandola sopra il bastingaggio e l’affidò a due marinai che si trovavano sulla piattaforma della scala.