Kitobni o'qish: «La regina dei Caraibi»
CAPITOLO I. IL CORSARO NERO
Il Mare dei Caraibi, in piena tempesta, muggiva tremendamente, scagliando delle vere montagne d’acqua contro i moli di Puerto Limon e le spiagge del Nicaragua e di Costarica. Il sole non era per anco tramontato, ma le tenebre cominciavano di già a scendere, come se fossero impazienti di celare la lotta accanita che si combatteva in cielo ed in terra. L’astro diurno, rosso come un disco di rame, non proiettava che radi sprazzi attraverso gli strappi delle nerissime nuvole che volta a volta lo avviluppavano. Ancora non pioveva, però le cateratte del cielo non dovevano tardare ad aprirsi
Solamente alcuni pescatori ed alcuni soldati della piccola guarnigione spagnuola avevano osato rimanere sulla spiaggia, sfidando con ostinazione la furia crescente delle onde e le cortine d’acqua che il vento sollevava dal mare per poi spingerle addosso alle case.
Un motivo, forse molto grave, li aveva ancora trattenuti all’aperto. Da qualche ora una nave era stata scorta sulla linea dell’orizzonte e, dalla direzione delle sue vele, pareva avesse l’intenzione di cercare un rifugio entro la piccola baia.
In altra occasione nessuno avrebbe fatto gran caso alla presenza di un veliero, ma nel 1680, epoca in cui comincia la nostra istoria, la cosa era ben diversa.
Ogni nave che veniva dal largo non mancava di produrre una viva emozione nelle popolazioni spagnuole delle colonie del Golfo del Messico, sia del Yucatan, del Guatemala, dell’Honduras, del Nicaragua, di Costarica, di Panama e delle grandi isole Antille.
La paura di veder comparire l’avanguardia di qualche flotta di filibustieri, gli audacissimi pirati della Tortue, metteva lo scompiglio fra quelle industriose popolazioni. Bastava che si scorgesse qualche cosa di sospetto nelle manovre delle navi che venivano segnalate, perchè le donne ed i fanciulli corressero a rinchiudersi nelle loro abitazioni e gli uomini ad armarsi precipitosamente. Se la bandiera era spagnuola, veniva salutata con strepitosi evviva, essendo cosa piuttosto rara che fosse sfuggita alla crociera di quegli intrepidi corsari; se era di diverso colore, il terrore invadeva coloni e soldati ed impallidivano perfino gli ufficiali incanutiti al fumo delle battaglie.
Le stragi ed i saccheggi commessi da Pierre le Grand, da Braccio di Ferro, da John Davis, da Montbar, dal Corsaro Nero, dai suoi fratelli il Rosso ed il Verde e dall’Olonese, avevano sparso il terrore in tutte le colonie del golfo, tanto più che in quell’epoca si credeva, in buona fede, che quei pirati fossero d’origine infernale e perciò invincibili.
Vedendo apparire quella nave, i pochi abitanti, che si erano soffermati sulla spiaggia a contemplare la furia del mare, avevano rinunciato all’idea di tornarsene alle loro case, non sapendo ancora se avevano da fare con qualche veliero spagnuolo o con qualche ardito filibustiere incrociante lungo quelle coste, in attesa dei famosi galeoni carichi d’oro. Una viva inquietudine si rifletteva sui volti di tutti, sia dei pescatori che dei soldati.
«Che nostra Signora del Pilar ci protegga,» diceva un vecchio marinaio, bruno come un meticcio e assai barbuto, «ma vi dico, amici miei, che quella nave non è una delle nostre. Chi oserebbe, con una simile tempesta, impegnare la lotta ad una sì grande distanza dai nostri porti, se non fosse montata dai figli del diavolo, da quei briganti della Tortue?»
«Siete ben certo che si diriga verso di noi?» chiese un sergente, che stava in mezzo ad un gruppetto di soldati.
«Sicurissimo, signor Vasco. Guardate! Ha fatto una bordata verso il Capo Bianco ed ora si prepara a tornare sui suoi passi.»
«È un brik, è vero, Alonzo?»
«Sì, signor Vasco. Un bel legno, in fede mia, che lotta vantaggiosamente contro le onde e che fra un’ora sarà dinanzi a Puerto Limon.»
«E che cosa v’induce a credere che non sia una nave dei nostri?»
«Che cosa? Se quel legno fosse spagnuolo, invece di venire a cercare un rifugio nella nostra piccola baia che è poco sicura, sarebbe andato a quella di Chiriqui. Colà le isole fanno argine alla furia delle onde e potrebbe trovare sicuro asilo anche un’intera squadra.»
«Avrete ragione, io però dubito assai che quel legno sia montato dai corsari della Tortue. Puerto Limon non può destare la loro cupidigia.»
«Sapete che cosa penso io, invece, signor Vasco?» disse un giovane marinaio, che erasi staccato dal gruppo dei pescatori.
«Dite pure, Diego.»
«Che quella nave sia la Folgore del Corsaro Nero.»
A quella uscita inattesa, un fremito di terrore passò su tutti i volti. Anche il sergente, quantunque avesse guadagnato i suoi galloni sui campi di battaglia, era diventato pallidissimo.
«Il Corsaro Nero qui!» esclamò, con un tremito molto accentuato. «Tu sei pazzo, giovanotto mio.»
«Ebbene, due giorni or sono, mentre io stavo pescando un lamantino presso le isole di Chiriqui, ho veduto passare una nave a meno d’un tiro d’archibuso dal mio piccolo veliero. Sulla poppa fiammeggiava, a lettere d’oro, un nome: la Folgore.»
«Carramba!» esclamò il sergente, con voce irata. «E tu non ce l’hai detto prima!»
«Non volevo spaventare la popolazione,» rispose il giovane marinaio.
«Se tu ci avessi avvertiti, si sarebbe mandato qualcuno a chiedere soccorsi a San Juan.»
«Per cosa farne?» chiesero i pescatori, con tono beffardo.
«Per respingere quei figli di Satana,» rispose il sergente.
«Uhm!» disse un pescatore, alto come un granatiere e forte come un toro. – Io ho combattuto contro quegli uomini e so cosa valgono. Ero a Gibraltar quando comparve la flotta dell’Olonese e del Corsaro Nero. Carrai! Sono marinai invincibili, ve lo dico io, signor sergente.
Ciò detto il marinaio girò sui talloni e se ne andò. I pescatori che si trovavano sulla spiaggia stavano per seguirne l’esempio, quando un uomo assai attempato, che fino allora era rimasto silenzioso, con un gesto li arrestò. Aveva allora allora staccato dagli occhi un cannocchiale, che aveva puntato verso il mare.
«Rimanete,» diss’egli. «Il Corsaro Nero è un uomo che non fa male a chi non gli resiste.»
«Cosa ne sapete voi?» chiese il sergente.
«Io conosco il Corsaro Nero.»
«E credete che quella nave sia la sua?»
«Sì, quella nave è la Folgore.»
A quell’affermazione furono presi dal terrore. Anche il sergente aveva perduta tutta la sua audacia e si sarebbe detto che le sue gambe si rifiutavano, in quel momento, di funzionare.
Intanto la nave s’appressava sempre, malgrado la furia dell’uragano. Sembrava un immenso uccello marino, volteggiante sul mare tempestoso. Saliva intrepidamente le creste dei marosi, librandosi ad altezze che facevano venire i brividi, poi strapiombava negli avvallamenti, scomparendo quasi tutta, quindi tornava a mostrarsi alla incerta luce del crepuscolo. Le folgori scoppiavano presso i suoi alberi e la livida luce dei lampi si rifletteva sulle sue vele enormemente gonfie. Le onde l’assalivano da ogni parte, lambendo le sue murate e slanciandosi, di quando in quando, perfino in coperta, ma la nave non cedeva. Aveva perfino rinunciato alle bordate e muoveva diritta verso il piccolo porto, come se fosse stata certa di trovarvi un asilo sicuro ed amico.
I pescatori ed i soldati vedendo la nave giungere, dopo un’ultima scorribanda, dinanzi al porticino, s’erano guardati l’un l’altro in viso.
«Sta per arrivare!» aveva esclamato uno di loro. «A bordo preparano le àncore!»
«Fuggiamo!» gridarono gli altri. «Sono i corsari della Tortue.»
I pescatori, senza aspettare altro, partirono di corsa, scomparendo in mezzo alle viuzze della piccola città o meglio della borgata, poichè in quell’epoca Puerto Limon era ancora meno popolata di quella d’oggidì. Il sergente ed i suoi soldati, dopo una breve esitazione, avevano seguito l’esempio, dirigendosi verso il fortino che si trovava all’opposta estremità della gettata, sulla cima di una rupe dominante la baia. A Puerto Limon si trovava una guarnigione di centocinquanta uomini, armati di due soli pezzi, era quindi impossibile impegnare una lotta contro quella nave che doveva possedere numerose e potenti artiglierie. Ai difensori della cittadella non rimaneva altra speranza che quella di rinchiudersi nel fortino e lasciarsi assediare.
La nave intanto, malgrado la furia del vento e le ondate tremende che l’assalivano, era entrata audacemente nel porto ed aveva gettate le àncore a centocinquanta metri dalla gettata. Era uno splendido brik, di forme svelte, dalla carena strettissima, dall’alberatura molto alta, un vero legno da corsa. Dieci sabordi, dai quali uscivano le estremità di altrettanti pezzi d’artiglieria, s’aprivano ai suoi fianchi, cinque a babordo e cinque a tribordo e sul cassero si vedevano due grossi pezzi da caccia. Sul corno di poppa, ondeggiava una bandiera nera, con in mezzo un grande V dorato, sormontato da una corona gentilizia. Sul castello di prora, sulla tolda, sulle murate e sull’altissimo cassero, numerosi marinai si tenevano schierati, mentre a poppa alcuni artiglieri stavano puntando i due pezzi di caccia verso il fortino, pronti a scatenare contro le sue mura uragani di ferro.
Imbrigliate le vele e gettate due altre àncore, una scialuppa venne calata in mare dalla parte di sottovento, dirigendosi subito verso la gettata: la montavano quindici uomini, armati di fucili, di pistole e di sciabole corte e larghe, molto usate dai filibustieri della Tortue.
Nonostante l’urto incessante delle onde, la scialuppa, abilmente guidata dal suo timoniere, si gettò dietro ad un vecchio vascello spagnuolo che finiva di spezzarsi su di un banco di sabbia e che colla sua mole opponeva una buona barriera all’impeto dei flutti; poi, filando lungo alcune piccole scogliere, giunse felicemente sotto la gettata.
Mentre alcuni filibustieri, puntando i remi, tenevano ferma la scialuppa, un uomo, salito sulla prora, con uno slancio straordinario, degno d’una tigre, era balzato sulla gettata. Quell’audace che osava, da solo, sbarcare in mezzo ad una città di duemila abitanti pronti a sollevarsi contro di lui ed a trattarlo come una bestia feroce, era un bell’uomo sui trentacinque anni, di statura piuttosto alta e dal portamento distinto, aristocratico.
I suoi lineamenti erano belli, quantunque la sua pelle fosse d’un pallore cadaverico. Aveva la fronte spaziosa, solcata da una ruga che dava al suo volto un non so che di triste, un bel naso diritto, labbra piccole e rosse come il corallo e gli occhi nerissimi, d’un taglio perfetto e dal lampo fierissimo. Se il volto di quell’uomo aveva un non so che di triste e di funebre, anche il vestito non era più allegro: infatti era vestito di nero da capo a piedi, però con una eleganza piuttosto sconosciuta fra i ruvidi corsari della Tortue. La sua casacca era di seta nera, adorna di pizzi d’egual colore; i calzoni, la larga fascia sostenente la spada, gli stivali e perfino il cappello erano pure neri. Anche la grande piuma che gli scendeva fino sulle spalle era nera, e del pari lo erano le sue armi.
Quello strano personaggio, appena a terra, si fermò guardando attentamente le case della cittaduzza, le cui finestre erano chiuse, poi si volse verso gli uomini rimasti nella scialuppa e disse:
«Carmaux, Wan Stiller, Moko! Seguitemi!»
Moko, un negro di statura gigantesca, un vero ercole, armato d’una scure e d’un paio di pistole, balzò a terra; dietro di lui scesero Carmaux e Wan Stiller due uomini bianchi, entrambi sulla quarantina, piuttosto tarchiati, colla pelle abbronzata, i lineamenti angolosi, duri, resi più arditi da folte barbe: erano armati di moschetti e di corte sciabole e vestiti di semplici camicie di lana ed in calzoni corti che mostravano gambe muscolose, coperte di cicatrici.
«Eccoci, capitano,» disse il negro.
«Seguitemi.»
«E la scialuppa?»
«Che ritorni a bordo.»
«Scusate, capitano,» disse uno dei due marinai, «mi pare che non sia prudenza l’avventurarci in così pochi, nel cuore della città!»
«Avresti paura, Carmaux?» chiese il capitano.
«Per l’anima dei miei morti!» esclamò Carmaux. «Voi non potete supporre questo, signore. Parlavo per voi.»
«Il Corsaro Nero non ha mai avuto paura, Carmaux.»
Si volse verso la scialuppa, gridando agli uomini che la montavano:
«Tornate a bordo! Direte a Morgan di tenersi sempre pronto a salpare.»
Quando vide la scialuppa riprendere il largo, lottando contro le onde che si precipitavano, muggendo, attraverso la piccola baia, si volse verso i suoi tre compagni, dicendo:
«Andiamo a trovare l’amministratore del duca.»
«Mi permettete una parola, signor cavaliere?» chiese colui che abbiamo udito chiamare Carmaux.
«Parla e spicciati.»
«Noi non sappiamo dove abiti quell’eccellente amministratore, capitano.»
«E che cosa importa? Lo cercheremo.»
«Non vedo anima viva in questa borgata. Si direbbe che gli abitanti, scorgendo la nostra Folgore, siano stati presi dalla tremarella e abbiano lavorato di gambe.»
«Ho veduto laggiù un fortino,» rispose il Corsaro Nero. «Se nessuno ci dirà dove potremo trovare l’amministratore, andremo a chiederlo alla guarnigione.»
«Per le corna di Belzebù!… Andarlo a chiedere alla guarnigione? Non siamo che in quattro, signore.»
«Ed i dodici cannoni della Folgore, non li conti? Andiamo innanzi a tutto a esplorare queste viuzze. «Non lo credo, capitano.»
«Armate i moschetti e seguitemi.
Mentre i suoi marinai ubbidivano, il Corsaro Nero doppiò il mantello nero che teneva su di un braccio, si calò il feltro sugli occhi, poi snudò, con un gesto risoluto, la spada che pendevagli al fianco, dicendo:
«Avanti, uomini del mare! Io vi guido!
La notte era calata e l’uragano, anzichè calmarsi, pareva che aumentasse. Il ventaccio s’ingolfava nelle strette viuzze della borgata con mille ululati, cacciando innanzi a sè nembi di polvere, mentre fra le nubi, nere come l’inchiostro, guizzavano lampi abbaglianti seguiti da tremendi scrosci.
La cittadella pareva sempre deserta. Nessun lume brillava nelle vie e nemmeno attraverso le stuoie che coprivano le finestre.
Anche le porte erano tutte chiuse e probabilmente sbarrate.
La notizia che i terribili corsari della Tortue erano sbarcati doveva essersi sparsa fra gli abitanti e tutti si erano affrettati a rinchiudersi nelle proprie case.
Il Corsaro Nero, dopo una breve esitazione, si cacciò in una via che pareva la più larga della città.
Di quando in quando delle pietre, smosse dal vento, precipitavano nella via, sfracellandosi, e qualche camino, poco saldo, rovinava, ma i quattro uomini non se ne davano pensiero. Erano già giunti a metà della via, quando il Corsaro s’arrestò bruscamente, gridando:
«Chi vive?»
Una forma umana era comparsa sull’angolo di una viuzza e, vedendo quei quattro uomini, si era gettata prontamente dietro un carro di fieno abbandonato in quel luogo.
«Un’imboscata?» chiese Carmaux, avvicinandosi al capitano.
«Od una spia?»disse questi.
«Forse l’avanguardia di qualche drappello di nemici. Io credo, capitano, che abbiate fatto male a cacciarvi in mezzo a queste case in così scarsa compagnia.»
«Va’ a prendere quell’uomo e conducilo qui.»
«M’incarico io della faccenda,»disse il negro, impugnando la sua pesantissima scure. Con tre salti attraversò la via e piombò sull’uomo che si era nascosto dietro al carro.
Afferrarlo pel colletto ed alzarlo, come se fosse un semplice fantoccio, fu l’affare d’un solo momento.
«Aiuto!… Mi ammazzano!» urlò il disgraziato, dibattendosi disperatamente. Il negro, senza curarsi di quelle grida, lo portò dinanzi al Corsaro, lasciandolo cadere al suolo.
Era un povero borghese, alquanto attempato, con un gran naso ed una gobba mostruosa piantata fra le due spalle. Quel disgraziato era livido per lo spavento e tremava così forte da temere che da un istante all’altro svenisse.
«Un gobbo!» esclamò Wan Stiller che l’aveva osservato alla luce d’un lampo. «Ci porterà fortuna!»
Il Corsaro Nero aveva posato una mano sulle spalle dello spagnuolo, chiedendogli:
«Dove andavi?»
«Sono un povero diavolo che non ha mai fatto male ad alcuno,» piagnucolò il gobbo.
«Ti domando dove andavi,» disse il Corsaro.
«Questo granchio di mare correva al forte per farci prendere dalla guarnigione,» disse Carmaux.
«No, eccellenza!» gridò il gobbo. «Ve lo giuro!»
«Per centomila rospi!» esclamò Carmaux. «Questo gobbo mi prende per qualche governatore!»
«Silenzio, chiacchierone!» tuonò il Corsaro. «Orsù, dove andavi?»
«In cerca d’un medico, signore,» balbettò il gobbo. «Mia moglie è ammalata.»
«Bada che se tu m’inganni ti faccio appiccare al pennone più alto della mia nave.»
«Vi giuro…»
«Lascia i giuramenti e rispondimi. Conosci don Pablo de Ribeira?»
«Sì, signore.»
«Amministratore del duca Wan Guld?»
«L’ex governatore di Maracaibo?»
«Sì.»
«Conosco personalmente don Pablo.»
«Ebbene, conducimi da lui.»
«Ma… signore…»
«Conducimi da lui!» tuonò il Corsaro, con voce minacciosa. «Dove abita?»
«Qui vicino, signore, eccellenza…»
«Silenzio! Avanti se ti preme la pelle.» Moko, prendi quest’uomo e bada che non ti sfugga. -
Il negro afferrò lo spagnuolo fra le robuste braccia e, malgrado le sue proteste, lo portò con sè, dicendogli:
«Dove?»
«All’estremità della via.»
«Ti risparmierò la fatica.»
Il piccolo drappello si mise in cammino. Procedeva però con certe precauzioni, arrestandosi sovente sugli angoli delle viuzze trasversali per tema di cadere in qualche imboscata o di ricevere qualche scarica a bruciapelo.
Wan Stiller sorvegliava le finestre, pronto a scaricare il suo moschetto contro la prima persiana che si fosse aperta o contro la prima stuoia che si fosse alzata; Carmaux invece non perdeva di vista le porte.
Giunti all’estremità della via, il gobbo si volse verso il Corsaro e additandogli una casa di bell’aspetto, costruita in muratura, a più piani e sormontata da una torretta, gli disse:
«Sta qui, signore.»
«Va bene,» rispose il Corsaro.
Guardò attentamente la casa, si spinse verso i due angoli per accertarsi che nelle due viuzze vicine non si nascondevano dei nemici, poi si avvicinò alla porta ed alzò un pesante battente di bronzo, lasciandolo cadere con impeto.
Il rimbombo prodotto da quell’urto non era ancora cessato, quando si udì aprirsi una persiana, poi una voce scese dall’ultimo piano, chiedendo:
«Chi siete?»
«Il Corsaro Nero; aprite o daremo fuoco alla casa!» gridò il capitano, facendo scintillare alla livida luce d’un lampo la lama della sua spada.
«Chi cercate?»
«Don Pablo de Ribeira, amministratore del duca Wan Guld!»
Nell’interno della casa si udirono dei passi precipitosi, delle grida che parevano di spavento, poi più nulla.
«Carmaux,» disse il Corsaro. «Hai la bomba?»
«Sì, capitano.»
«Collocala vicino alla porta. Se non obbediscono, daremo fuoco e l’apriremo noi il passaggio.»
Si sedette su di un paracarro che si trovava a breve distanza e attese, tormentando la guardia della sua spada.
CAPITOLO II. PARLARE O MORIRE
Poco dopo si videro degli sprazzi di luce sfuggire attraverso le persiane del primo piano e riflettersi sulle pareti della casa che si trovava di fronte. Una o più persone stavano per scendere, anzi si udivano dei passi rimbombare al di là della porta massiccia, ripercossi dall’eco di qualche corridoio. Il Corsaro si era vivamente alzato, stringendo la spada colla destra ed una pistola colla sinistra: i suoi uomini si erano collocati ai lati della porta, il negro colla scure alzata ed i due filibustieri coi moschetti in mano.
In quel momento l’uragano raddoppiava la sua furia. Il vento ruggiva tremendamente attraverso le viuzze della borgata, facendo volare in aria le tegole e sbatacchiando con gran fracasso le persiane, mentre lividi lampi rompevano le cupe tenebre e fra le nubi rombava, con un fragore assordante, il tuono. Alcuni goccioloni cominciavano già a cadere e con tale violenza da parer chicchi di grandine.
«Qualcuno si avanza,» disse Wan Stiller, che aveva accostato un occhio al buco della serratura. «Vedo degli sprazzi di luce brillar dietro la porta.»
Il Corsaro Nero, che cominciava già a perdere la pazienza, alzò il pesante battente e lo lasciò ricadere. Il colpo si ripercosse nel corridoio interno come lo scoppio d’una folgore.
Una voce tremante, rispose subito:
«Vengo, signori!»
Si udì un fragore di catenacci e di chiavistelli, poi la massiccia porta si aperse lentamente.
Il Corsaro aveva alzata la spada, pronto a colpire, mentre i due filibustieri avevano puntati i moschetti.
Un uomo attempato, seguito da due paggi di razza indiana che portavano delle torce, era apparso. Era un bel vecchio che doveva aver varcata di già la sessantina, ma ancora robustissimo e ritto come un giovanotto. Una lunga barba bianca gli copriva il mento scendendogli fino alla metà del petto e i capelli, pure canuti, lunghissimi e ancora assai fitti, gli cadevano sulle spalle. Indossava un vestito di seta oscura adorno di merletti e calzava alti stivali di pelle gialla con speroni d’argento, metallo che in quell’epoca valeva quasi meno dell’acciaio nelle ricchissime colonie spagnuole del Golfo del Messico.
Gli pendeva dal fianco una spada e nella cintura portava uno di quei pugnali spagnuoli chiamati misericordie, armi terribili in una mano robusta.
«Che cosa volete da me?» chiese il vecchio, con un tremito assai marcato.
Invece di rispondere, il Corsaro Nero fece cenno ai suoi uomini di entrare e di chiudere la porta.
Il gobbo, diventato ormai inutile, era stato lasciato al di fuori.
«Attendo la vostra risposta,» disse il vecchio.
«Il cavaliere di Ventimiglia non è abituato a parlare nei corridoi,» disse il Corsaro Nero, con voce recisa.
«Seguitemi,» disse il vecchio, dopo una breve esitazione.
Preceduti dai due paggi, salirono una spaziosa scala di legno rosso ed entrarono in un salotto ammobiliato con eleganza e adorno di vecchi arazzi importati dalla Spagna.
Un doppiere d’argento, sostenente quattro candele, era situato su di una tavola intarsiata di madreperla e di laminette d’argento. Il Corsaro Nero con uno sguardo si assicurò se non vi erano altre porte poi, volgendosi verso i suoi uomini, disse:
«Tu, Moko, ti metterai a guardia della scala e porrai la bomba presso la porta; voi, Carmaux e Wan Stiller, rimarrete nel corridoio attiguo.»
Poi guardando fisso il vecchio, il quale era diventato pallidissimo, gli disse:
«Ed ora a noi due, signor Pablo de Ribeira, intendente del duca Wan Guld.»
Prese una sedia e si sedette dinanzi al tavolo, mettendosi la spada, ancora sguainata, sulle ginocchia.
Il vecchio era rimasto in piedi, guardando con terrore ed inquietudine il formidabile Corsaro.
«Voi sapete chi sono io, è vero? – chiese il filibustiere.
«Il cavaliere Emilio di Roccabruna, signore di Valpenta e di Ventimiglia,» disse il vecchio.
«Ho piacere che voi mi conosciate così bene.»
Il vecchio ebbe un pallido sorriso.
«Signor de Ribeira,» continuò il Corsaro, «sapete per quale motivo io ho osato, colla mia sola nave, avventurarmi su queste coste?»
«Lo ignoro, ma suppongo che debba essere ben grave per commettere una simile imprudenza. Voi non dovete ignorare, cavaliere, che su queste coste incrocia la squadra di Vera-Cruz.»
«Lo so,» rispose il Corsaro.
«E che qui vi è una guarnigione non molto numerosa, è vero, però superiore al vostro equipaggio.»
«Anche questo lo sapevo.»
«Ed avete osato venire qui, quasi solo?»
Un sorriso sdegnoso sfiorò le labbra del Corsaro.
«Io non ho paura,» disse con fierezza.
«Nessuno può mettere in dubbio il valore del Corsaro Nero,» disse don Pablo de Ribeira. «Vi ascolto, cavaliere.»
Il filibustiere rimase alcuni istanti silenzioso, poi disse con voce alterata:
«M’hanno detto che voi conoscete qualche cosa di Honorata Wan Guld.» In quella voce, in quel momento, vi era qualche cosa di straziante. Pareva che un singhiozzo si fosse spezzato nel petto del fiero uomo di mare.
Il vecchio era rimasto muto, guardando con occhi tetri il Corsaro. Fra quei due uomini vi furono alcuni istanti di silenzio angoscioso. Pareva che entrambi avessero paura di romperlo.
«Parlate,» disse ad un tratto il Corsaro con voce sibilante. «È vero che un pescatore del Mare dei Caraibi vi ha detto d’aver veduta una scialuppa, trasportata dalle onde, montata da una giovane donna?»
«Sì,» rispose il vecchio con una voce così debole che parve un soffio.
«Dove si trovava quella scialuppa?»
«Molto lontana dalle coste della Venezuela.»
«In quale luogo?»
«Al sud delle coste di Cuba, a cinquanta o sessanta miglia dalla punta di S. Antonio, nel canale del Yucatan.»
«Ad una così grande distanza dalla Venezuela!» esclamò il Corsaro, balzando vivamente in piedi. «Quando fu incontrata quella scialuppa?»
«Due giorni dopo la partenza delle navi filibustiere dalle spiagge di Maracaibo.»
«E la donna era viva ancora?…»
«Sì, cavaliere.»
«E quel miserabile non l’ha raccolta?»
«La tempesta infuriava e la sua nave non era più in grado di resistere agli assalti delle onde.»
Un grido strozzato era uscito dalle labbra del Corsaro. Egli si prese il capo fra le mani e per qualche istante il vecchio udì dei sordi singhiozzi.
«Voi l’avete uccisa,» disse il signor de Ribeira con voce cupa. «Quale tremenda vendetta avete commessa, cavaliere. Dio vi punirà.»
Udendo quelle parole, il Corsaro Nero aveva alzata vivamente la testa. Ogni traccia di dolore era scomparsa per lasciare posto ad una alterazione spaventosa. La sua tinta pallida era diventata livida, mentre un lampo terribile animava i suoi occhi. Un flusso di sangue gli montò sul viso arrossando per alcuni istanti quella pelle diafana, poi tornò più livida di prima.
«Dio mi punirà!» esclamò egli con voce stridula. «Io l’ho forse uccisa, quella donna che tanto ho amata, ma di chi la colpa? Voi dunque ignorate le infamie commesse dal duca vostro signore?… Dei miei fratelli, uno dorme laggiù, sulle sponde della Schelda, gli altri due riposano nei baratri del Mare dei Caraibi. Sapete chi li ha uccisi? Il padre della fanciulla che amavo!
Il vecchio era rimasto silenzioso, e non staccava i suoi sguardi dal Corsaro.
«Io avevo giurato odio eterno contro quell’uomo che aveva spenti i miei fratelli nel fior degli anni, che aveva tradita l’amicizia, la bandiera della sua patria adottiva, che per dell’oro aveva venduta la sua anima e la sua nobiltà, che aveva macchiato infamemente il suo blasone ed ho voluto mantenere la mia parola.»
«Dannando a morte una fanciulla che non poteva farvi alcun male.»
«Io avevo giurato, la notte in cui abbandonavo alle onde il cadavere del Corsaro Rosso, di sterminare tutta la sua famiglia, come egli aveva distrutta la mia e non ho potuto infrangere la parola data. Se io non l’avessi fatto, i miei fratelli sarebbero saliti dal fondo del mare per maledirmi!… Ed il traditore vive ancora!… – riprese egli dopo alcuni istanti con uno scoppio d’ira spaventevole. – L’assassino non è spento e i miei fratelli mi chiedono vendetta: l’avranno!…
«I morti nulla possono chiedere.»
«V’ingannate!… Quando il mare scintilla, io vedo il Corsaro Rosso ed il Verde risalire dagli abissi del mare e fuggire dinanzi la prora della mia Folgore e quando il vento fischia fra le corde della mia nave odo la voce di mio fratello spento sulle terre della Fiandra. Mi capite voi?»
«Follie!»
«No!» gridò il Corsaro. «Anche i miei uomini, per molte notti, hanno veduto apparire, fra un fiotto di spuma, gli scheletri del Corsaro Rosso e del Verde. Essi mi chiedono ancora vendetta. La morte della fanciulla che io amavo non è stata sufficiente a calmarli e la loro anima tormentata non si quieterà finchè non avrò punito il loro assassino. Ditemi, dov’è Wan Guld?
«Voi pensate ancora a lui?» chiese l’intendente. «Non vi bastava la figlia?»
«No! Vi ho detto che i fratelli miei non si sono ancora placati.»
«Il duca è lontano.»
«Fosse anche all’inferno, il Corsaro Nero andrà a trovarlo.»
«Andate a cercarlo adunque.»
«Dove?»
«Io non so dove precisamente si trovi. Si dice però che sia nel Messico.»
«Si… dice? Voi, che siete il suo intendente, l’amministratore dei suoi beni, lo ignorate? Non sarò certamente io che lo crederò.»
«Eppure io non so dove si trovi.»
«Voi me lo direte,» gridò il Corsaro con accento terribile. «La vita di quell’uomo mi è necessaria. Egli mi è sfuggito a Maracaibo ed a Gibraltar, ma ora sono risoluto a scovarlo, dovessi affrontare, colla mia sola nave, anche l’intera squadra del vicerè del Messico.»
A un tratto cessò di parlare, si alzò e si accostò rapidamente ad una finestra.
«Cosa avete?» chiese don Pablo, con stupore.
Il cavaliere non rispose. Curvo verso la finestra, ascoltava attentamente. La tempesta infuriava al di fuori. Tuoni assordanti rombavano in cielo ed il vento ululava per le viuzze facendo strage di tegole e di camini. L’acqua cadeva a torrenti e scrosciava contro i muri della casa e sul lastricato, scorrendo fragorosamente per le vie, ormai convertite in torrenti.
«Avete udito?» chiese ad un tratto il Corsaro con voce alterata.
«Nulla, signore,» rispose il vecchio con accento inquieto.
«Si direbbe che questo vento ha portato fino qui le grida dei miei fratelli!…»
«Quali sinistre follie, cavaliere!…»
«No, follie!… Le onde del Mare dei Caraibi trastullano a quest’ora le salme del Corsaro Rosso e del Verde, le vittime del vostro signore.»
Il vecchio, involontariamente, rabbrividì e guardò il Corsaro con spavento. Era coraggioso ma come quasi tutti gli uomini di quell’epoca era anche superstizioso e perciò cominciava a credere alle strane fantasie del funebre filibustiere.
«Avete finito, cavaliere?» chiese, scuotendosi. «Voi finirete col farmi vedere dei morti.»
Il Corsaro si sedette nuovamente dinanzi al tavolo. Pareva che non avesse nemmeno udite le parole dello spagnuolo.
«Eravamo quattro fratelli,» cominciò egli con voce lenta e triste. «Ben pochi erano valorosi come i signori di Roccabruna, Valpenta e Ventimiglia e pochi erano così devoti ai duchi di Savoia come lo eravamo noi. Terribile era scoppiata la guerra nelle Fiandre. In Francia e nella Savoia combattevamo con estremo furore contro il sanguinario duca d’Alba, per la libertà dei generosi fiamminghi.
Il duca di Wan Guld, vostro signore, tagliato fuori dal grosso delle truppe franco-savoiarde, si era trincerato in una rocca situata presso una delle bocche della Schelda. Noi eravamo con lui guardiani fedeli della gloriosa bandiera dell’eroico duca Amedeo II. Tremila spagnuoli, con poderose artiglierie, avevano stretta la rocca d’assedio, decisi ad espugnarla. Assalti disperati, mine, bombardamenti, scalate notturne, tutto avevano tentato, e sempre invano. Lo stendardo di Savoia non era stato mai ammainato. I signori di Roccabruna difendevano la fortezza e si sarebbero fatti uccidere sui loro pezzi, anzichè cederla.