Kitobni o'qish: «La città del re lebbroso»
Capitolo I. La morte del S’hen-mheng
Un rombo metallico, che si ripercosse lungamente, con una vibrazione argentina, nell’ampia sala sorretta da venti colonne di legno dipinte a vivaci colori e cogli zoccoli coperti da lamine d’oro, fece bruscamente sussultare Lakon-tay.
L’invidiato ministro, preposto alla sorveglianza dei S’hen-mheng, i sacri elefanti bianchi del re, dinanzi a cui piccoli e grandi s’inchinavano, udendo quel colpo di gong sentì un fremito corrergli per tutto il corpo, mentre la sua fronte leggermente abbronzata si imperlava di grosse stille di sudore.
Con una mossa lenta, si alzò dal largo cuscino di seta azzurra a frange e ricami d’oro che gli serviva da sedile, mormorando con voce semispenta:
«M’annuncerà questo colpo la vita o la morte? La maledizione eterna di Sommona Kodom o la felicità? L’odio del re e del popolo, o nuovi onori e nuove grandezze? Oh mia Len-Pra, mia povera figlia!»
A quel nome, un’angoscia inesprimibile alterò il viso del ministro.
«O mia Len-Pra,» ripeté con voce tremante.
Poi con una mossa risoluta, che denotava l’uomo audace, fece alcuni passi innanzi, dirigendosi verso una porta di legno di tek, adorna di dorature, e dicendo a se stesso con voce energica:
«Lakon-tay non deve aver paura e saprà sfidare il castigo, pur sapendosi vittima dell’odio feroce d’un nemico sconosciuto.»
Posò la destra sulla maniglia d’argento e aperse la porta, scostando le ricche cortine di seta gialla a grandi fiori azzurri che pendevano lungo gli stipiti.
Un uomo entrò, curvandosi fino al suolo con profondo rispetto.
Era un giovane di venticinque anni, dal portamento ardito e non cascante e molle come quello dei veri Siamesi, col naso affilato, gli zigomi sporgenti, gli occhi neri e lampeggianti, le labbra sanguigne ed i denti nerissimi pel continuo uso del betel.
Dal costume che indossava, una lunga camicia di seta bianca, con maniche larghissime come quelle dei Cinesi, si riconosceva in lui un mahatlek, ossia un paggio di corte.
«Che cosa vuoi, Feng?» chiese il ministro, con voce tremante. «Mi porti la speranza o la morte?»
«Disgrazia, mio signore,» gemette il paggio, tornando a curvarsi fino a terra. «Anche l’ultimo S’hen-mheng muore.»
Lakon-tay fece un gesto disperato e si coperse la faccia con ambo le mani.
«Sommona Kodom mi ha maledetto!» esclamò.
Stette alcuni istanti immobile, ritto in mezzo all’ampia sala dorata, scintillante agli ultimi raggi di sole penetranti fra i vetri variopinti delle vaste finestre dentellate, poi si scosse dicendo con voce quasi calma:
«Parla.»
«Il S’hen-mheng ha rifiutato il suo cibo ordinario, perfino le canne da zucchero ed i pasticcini di riso preparati dalle principesse reali e di cui era sempre stato ghiottissimo, poi con un colpo di proboscide ha ucciso il capo dei guardiani.»
«Ed ora?» chiese Lakon-tay, con un sordo gemito.
«Si è coricato sulle ginocchia e soffia come se avesse del fuoco in corpo.»
«E i suoi occhi?»
«Sono smorti e piangono.»
«È stato avvertito il re?»
«Nessuno osa.»
«Quei vili hanno paura!»
«Dicono che spetta a voi, che siete il ministro dei S’hen-mheng.»
«E quello che dovrà pagare per tutti,» disse Lakon-tay con voce cupa, facendo un gesto di minaccia.
Prese ruvidamente il paggio per un braccio, andò a chiudere la porta, poi lo trasse verso l’opposta estremità della sala, chiedendogli a bruciapelo:
«Credi tu naturale la morte di sette elefanti bianchi nello spazio d’un solo mese?»
«Perché mi fai questa domanda, mio signore?» chiese il paggio guardandolo con stupore.
«Rispondi!» gridò il ministro, torcendogli il braccio.
«Mio signore, chi avrebbe osato alzare la mano su quei sacri animali, che racchiudono nel loro corpo l’anima di Sommona Kodom, il dio venerato da tutti i sudditi e dal re?»
«Chi?… Chi?… Qualcuno che ha giurato la mia perdita,» disse il ministro con voce furente. «Qualcuno che non teme la vendetta del nostro dio, pur di raggiungere il suo scopo. Tu che hai sempre dormito nel palazzo degli elefanti bianchi, hai mai notato alcunché di straordinario?»
«Mai, signore, te lo giuro.»
«Nessuno si è avvicinato a loro durante la notte?»
«Non mi parve.»
«Hai sempre assaggiato i cibi che si davano ai S’hen-mheng?»
«Sempre.»
«Eppure qualcuno deve averli uccisi.»
«E chi?» chiese il paggio. «Tu non hai nemici, sei amato da tutti per la tua generosità e la tua onestà. Chi potrebbe desiderare la perdita del più valoroso generale del Siam, vincitore dei Birmani, dei Cambogiani e degli Stienghi?»
«Che ne so io?» disse il ministro. «Oggi forse lo ignoro, ma può darsi che un giorno, se sarò ancora vivo, riesca a scoprirlo. Vivo!… La morte dell’ultimo S’hen-mheng segnerà anche la mia e fors’anche quella di Len-Pra.»
«Di tua figlia!» esclamò il paggio con orrore.
In quel momento si fece udire un lontano barrito, che si ripercosse perfino dentro la sala.
«Sono barriti d’agonizzante,» disse Lakon-tay piegando la fronte. «Sommona Kodom lo chiama a sé.»
Si diresse verso la porta, che aperse impetuosamente. Uno scalone superbo, coperto di tappeti meravigliosi, con balaustrate di legno di sandalo, conduceva nei giardini reali, in mezzo ai quali s’alzava il padiglione destinato ai S’hen-mheng.
Il ministro, che camminava velocemente, percorse parecchi viali fiancheggiati da banani colossali che spandevano un’ombra deliziosa, senza badare se la sua ricca camicia di seta cinese si lacerava contro le spine degli arbusti, e giunse in un vasto cortile, dove s’alzava un palazzo costruito tutto in legno, sormontato da una infinità di campanili dai tetti arcuati ed irti di punte dorate.
Una viva agitazione regnava nei dintorni del palazzo.
Numerosi talapoini, ossia sacerdoti e monaci buddisti, coi volti rasati, la testa e le ciglia pure rasate, i piedi nudi e il corpo infagottato in tre pezze di stoffa di cotone giallo, il colore reale, si aggiravano presso le numerose ed ampie porte, discutendo a bassa voce.
Più lontano, degli oya e degli oc-pra, ossia dei nobili, riconoscibili per le loro scatole d’oro contenenti la loro provvista di betel e pel cerchio d’oro che ornava i loro berretti conici; dei kang-may, ossia dei consiglieri reali; dei mandarini che avevano i fianchi cinti fino alle ginocchia di larghe fasce di seta, orlate di ricami d’oro e d’argento, chiacchieravano sommessamente, mostrando tutti dei visi scuri e preoccupati.
Vedendo comparire il ministro, tutti cessarono di parlare e i loro sguardi inquieti si fissarono su di lui, come per chiedergli se avesse finalmente potuto trovare un rimedio così potente da trattenere ancora nel corpo dell’ultimo S’hen-mheng l’anima di Sommona Kodom, che pareva ormai decisa a tornare nel nirupan, il paradiso o luogo di riposo eterno dei Siamesi.
Lakon-tay, tutto assorto nei suoi pensieri e nelle sue angosce, pareva non essersi nemmeno accorto della presenza di tutti quei grandi dignitari, accorsi ad assistere all’agonia del sacro elefante bianco. Egli non ascoltava d’altronde altro che i rauchi barriti del S’hen-mheng, che gli annunciavano una imminente catastrofe.
Passò in mezzo ai talapoini e ai paggi della corte del Signor elefante bianco, senza rispondere ai loro profondi inchini, ed entrò nel palazzo.
In un angolo d’una sala immensa, che aveva le pareti di marmo bianco e la volta sostenuta da parecchie file di colonne pure di marmo con incrostazioni d’oro, sopra un folto tappeto di Persia scintillante d’argento, stava sdraiato il S’hen-mheng.
Era un colossale elefante, alto quasi quattro metri, con zanne lunghissime, la pelle quasi biancastra, chiazzata di macchie grigie, e assai più rugosa di quella degli altri pachidermi, anzi quasi squamosa.
Era adorno come nei giorni solenni dei ricevimenti, giacché quei fortunati animali hanno i loro giorni di visita come i re e le principesse. Ricchissimi anelli d’oro massiccio, con rubini e smeraldi di valore inestimabile, gli ornavano le lunghissime zanne; fra i due occhi aveva la mezzaluna pure d’oro massiccio con diamanti e perle, sostenente nove cerchi d’oro destinati ad allontanare i malefici; agli orecchi, degli enormi pendenti sfolgoranti di pietre preziose, e sul dorso una magnifica gualdrappa di seta, intessuta con oro e tempestata di zaffiri, di rubini, di smeraldi e di diamanti.
Accanto aveva il driving-hook, l’uncino di cui si serviva il suo mahut, ossia conduttore favorito, per guidarlo, un capolavoro di ricchezza e di buon gusto, con cesellature meravigliose, il manico di cristallo di rocca e la punta d’oro ornata di pietre di gran valore.
Con tutte quelle ricchezze che portava indosso e che sarebbero state più che sufficienti a rendere felice ed orgoglioso il più esigente monarca dell’Indocina, il S’hen-mheng non sembrava affatto contento. Doveva essere ben ammalato il Signor elefante bianco, per non apprezzare più quelle ricchezze!…
E lo era davvero ammalato, quel colossale pachiderma.
Colla gigantesca testa appoggiata su una zampa, la proboscide stesa al suolo come gli fosse diventata ormai troppo pesante, gemeva dolorosamente, mentre grosse lagrime gli cadevano dagli occhi.
Il suo immenso corpaccio tremava tutto, il suo respiro era rauco ed affannoso e dalla sua epidermide si staccavano in gran numero delle squame, che i paggi della sua corte ed i mahut s’affrettavano a raccogliere religiosamente ed a collocare in un’urna d’oro.
Di quando in quando, il colosso con uno sforzo sollevava la testa, spazzava il tappeto colla tromba e mandava un lungo barrito, che si ripercuoteva lungamente sotto le volte dell’immensa sala di marmo.
Poi un impeto di furore improvvisamente lo assaliva, e con un violento colpo di proboscide scagliava lontano le canne da zucchero e i dolci pasticcini che le principesse di sangue reale avevano manipolato espressamente per lui.
Lakon-tay si avvicinò al colosso, accompagnato dal mahut favorito, il solo che il Signor elefante bianco ancora rispettasse, poiché tutti gli altri dovevano tenersi lontani se non volevano finire come il capo dei guardiani, che era stato appena allora portato via, il cranio ridotto in una poltiglia di ossa e di carne.
L’elefante, vedendolo, fissò su di lui uno sguardo che non era punto benevolo e alzò minacciosamente la proboscide, come se si preparasse a colpire.
Lakon-tay, vedendo quella mossa, diventò pallidissimo e un doloroso sospiro gli uscì dalle labbra. Gli pareva che il Signor elefante bianco lo accusasse, con quell’atto, della propria morte che ormai pareva imminente.
Il mahut favorito fu pronto a trarre indietro il ministro, temendo giustamente una nuova disgrazia.
«Sta per morire, vero?» chiese Lakon-tay con voce semispenta.
«Non ho più speranze, mio signore,» rispose il mahut.
«Non sono riusciti a indovinare la causa della sua malattia?»
«Nessuno capisce niente, signore. Anche mezz’ora fa è stato visitato da un medico che gode grande fama in tutta la città.»
«Che cosa ha detto?»
«Che pel Signor elefante bianco, ormai non vi è più rimedio.»
«Beve sempre?»
«E avidamente, come se avesse nel suo sacro corpo un fuoco che gli brucia le viscere.»
«Ed è il settimo che muore così,» disse Lakon-tay, facendo un gesto di disperazione. «Quali disastri piomberanno sul nostro paese, quando anche l’ultimo S’hen-mheng sarà spirato? E non se ne trovano più!…»
«Anche gli ultimi cacciatori spediti nei dintorni del lago di Nonhang sono tornati a mani vuote, dichiarando che non ne esiste alcuno in quelle foreste,» disse il mahut.
«Sventura su noi,» balbettò Lakon-tay. «Sommona Kodom ci abbandona, eppure i nostri talapoini hanno innalzato nuove pagode e raddoppiato le offerte. Perché il nostro dio è in collera con noi?»
«Non lo so, signore.»
«E se invece che a Sommona Kodom queste disgrazie fossero da attribuire a una mano sacrilega?» chiese ad un tratto il ministro, che pareva fosse perseguitato da un sospetto.
Il mahut lo guardò con terrore, mentre il suo viso diventava improvvisamente smorto e un tremito scuoteva le sue membra.
«Signore, che cosa dite?» chiese con voce alterata.
«Che la morte dei sette S’hen-mheng non mi sembra naturale,» rispose Lakon-tay. «Questo fuoco misterioso che divora le loro viscere può essere stato prodotto da un maleficio.»
«Che il re della Birmania, geloso dei nostri S’hen-mheng, li abbia fatti maledire dai suoi talapoini?»
Lakon-tay stava per rispondere, quando un barrito spaventevole, che fece accorrere precipitosamente tutti i sacerdoti, i nobili, i paggi ed i guardiani, fece tremare la sala. Il S’hen-mheng si era rizzato sulle ginocchia, agitando furiosamente la proboscide e le larghe orecchie. I suoi occhi mandavano fiamme e un tremito fortissimo scuoteva l’enorme corpo.
Un grido sfuggì da cento bocche:
«Il S’hen-mheng muore!»
Con uno sforzo disperato l’elefante riuscì ad alzarsi in piedi. Era spaventevole: barriva orribilmente e pareva che fosse lì lì per scagliarsi su tutta quella gente e polverizzarla.
Stette un momento così ritto, colla proboscide tesa, poi rovinò al suolo con fracasso orribile, schiantandosi una zanna e spezzando la gran placca d’oro che gli ornava la fronte.
Dalla proboscide gli uscì un getto di sangue nero.
«Morto!» gridarono i talapoini, i paggi ed i guardiani, cadendo in ginocchio.
Il favorito del S’hen-mheng si avvicinò a Lakon-tay, che pareva pietrificato dal terrore.
«Signore,» gli disse, mentre i suoi occhi si empivano di lagrime.
«Avvertite il re della sventura che è piombata sulla sua casa.»
Capitolo II. Il re del Siam
La dolce Parvati, la sposa del dio Sivah, così venerato dagl’indiani, trovandosi un giorno nel bagno, si divertiva a raccogliere le bianche pellicole che si staccavano dal suo grazioso corpo.
Le preziose particelle di quell’essere divino vennero modellate dalle sue dita, come l’argilla dalle mani di uno scultore. Tosto delle forme umane cominciarono a delinearsi, ed una statuetta di bimbo uscì dalla vasca di diaspro, entro cui la bellissima dea si bagnava.
La dea – narra sempre la leggenda indiana – le soffiò allora nella bocca, un vagito s’udì: era un essere umano che apriva gli occhi alla luce.
Era trascorso quasi un anno, quando il terribile Sivah, tornando dalla guerra contro i giganti maligni che volevano bruciare il mondo, con sua sorpresa e collera, trovò nel palazzo reale un nuovo rampollo di cui non s’aspettava l’esistenza. Colto da un tremendo accesso di furore, trasse la scimitarra tinta mille volte nel sangue dei nemici e tagliò netto il collo a quel fanciullo.
La dolce Parvati raccontò allora con quale innocente artificio aveva animato quella statua, di cui aveva ad un tempo fornito la materia prima e la manifattura, e siccome vi sono dei casi in cui gli stessi dèi accettano volentieri le ipotesi più favorevoli, Sivah non sollevò alcun dubbio sull’innocenza della diletta sposa.
«Sono stato un po’ vivace,» le disse. «Ho l’abitudine di agire troppo precipitosamente in tutte le cose mie, ma conosco un mezzo per riparare al mal fatto.»
Appena pronunciate quelle parole, con un colpo della sua formidabile scimitarra fece saltare la testa del suo elefante da guerra e la posò sulle spalle del bimbo decapitato.
Grazie a quel miracolo di chirurgia, solo possibile ad un dio, il maestoso Ganesha, la cui testa d’elefante si dondola sul suo corpo d’uomo, fu annoverato fra gli dei dell’India.
Protetto da una tale divinità, l’elefante non doveva mancare di essere considerato come un animale superiore allo stesso uomo, sia per la sua mole, sia per la sua straordinaria intelligenza, sia per la sua forza prodigiosa.
Dovevano i popoli confinanti o quasi confinanti coll’India rimanere insensibili ad un tale avvenimento? Assolutamente no, e l’elefante fu senz’altro accettato dai Birmani prima e dai Siamesi poi, come una divinità protettrice di quegli stati.
Fecero però delle eccezioni. Possedendo quei paesi fortunati degli elefanti bianchi, quantunque rarissimi, invece di innalzare agli onori gli elefanti più o meno grigi, diedero la preferenza a quelli… ammalati!… Ormai è noto che i famosi elefanti bianchi non sono altro che degli albini, anzi peggio che peggio, dei… lebbrosi, sfuggiti dai loro stessi compagni come appestati! Ma la scelta degli elefanti bianchi o quasi bianchi o macchiati di bianco come oggetti di ammirazione e di venerazione aveva un’origine religiosa.
Sia i Birmani che i Siamesi sono tutti adoratori di Budda, dio che i primi venerano sotto il nome di Gautama ed i secondi sotto quello di Sommona Kodom.
Ora le antiche leggende narrano che questo Sommona era nato dio per sua propria virtù, che, perfettamente istruito in tutte le scienze, era penetrato fino dal primo istante della sua nascita nei segreti più reconditi della natura, e che la sua divinità si era manifestata con una lunga serie di prodigi e di miracoli stupefacenti.
Un giorno il dio, essendosi seduto all’ombra d’una pianta chiamata tampo, salì in cielo su un trono sfolgorante d’oro e di pietre preziose, e si dice che gli spiriti celesti, abbagliati da tanto splendore, abbandonarono il loro divino soggiorno e gli si prostrarono dinanzi per adorarlo.
Tanta gloria avrebbe eccitato la gelosia e il furore del fratello Thevetat, che doveva essere una specie di Caino; quell’invidioso, sostenuto da un potente partito, cospirò contro il dio, fondando un nuovo culto che fu abbracciato dai re e dai principi.
Il mondo si divise allora in due grandi fazioni, l’una delle quali seguiva Sommona Kodom come modello di virtù, e l’altra lo scellerato Thevetat che colle sue massime ree istigava gli uomini al vizio.
Arse la guerra, ed il malvagio fu precipitato, al pari di Satana, in un abisso fiammeggiante.
Narrano ancora le antiche leggende Siamesi e birmane che il dio, per perfezionare meglio la sua anima, passò nel corso di cinquecento anni per i corpi di vani animali, fra cui quello d’un elefante bianco.
Era dunque naturale che quei popoli venerassero un simile animale e supponessero che nel suo corpo rivivesse l’anima del dio.
Ecco spiegato il motivo per cui Siamesi e Birmani hanno, anche oggidì, tanta venerazione per quei rari animali, che per i primi rappresentano Sommona Kodom, e per gli altri Gautama ossia Budda.
Perciò la morte dell’ultimo S’hen-mheng non doveva mancare di produrre una disastrosa impressione non solo sull’animo del re, bensì dell’intera popolazione; ed era il settimo che spirava nello spazio di poche settimane!…
Quali catastrofi, quali tremendi disastri si preparavano per quel regno, privo della protezione del suo dio?
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Lakon-tay uscì dal palazzo dei S’hen-mheng colla morte nel cuore, pallido, disfatto, per recarsi dal re a dargli il terribile annuncio. Non era uomo che avesse paura della morte il ministro degli elefanti bianchi, oh no!
Prima di essere innalzato a quella carica, da tutti i grandi della corte ardentemente agognata, Lakon-tay era stato uno dei più famosi generali del regno, ed aveva combattuto valorosamente contro i Cambogiani, gli Stienghi e i Birmani che avevano violato le frontiere.
Quello che tormentava il suo animo era la triste sorte che forse era serbata alla dolce Len-Pra, la sua unica figlia che egli adorava pazzamente e che certo doveva venire travolta nella disgrazia che colpiva il padre.
Era certo che il re non avrebbe mancato di accusarlo della misteriosa morte dei sette S’hen-mheng e che si sarebbe mostrato implacabile contro di lui, quantunque egli avesse speso puntualmente, fino all’ultimo tical, le rendite della provincia di Ubon destinate al mantenimento di quei sacri pachidermi, e nulla avesse dimenticato per soddisfare il loro insaziabile appetito.
Uscì solo, senza guardare in viso nessuno, come un delinquente ormai condannato, cupo e affranto, a testa bassa, le unghie conficcate nel petto, e cominciò a percorrere, camminando quasi a zig-zag, i viali che conducevano ai palazzi reali, le cui cupole scintillavano agli ultimi raggi del sole morente, sullo sfondo di un cielo fiammeggiante.
Nessuno aveva osato seguirlo, nemmeno il mahut favorito dal povero S’hen-mheng, perché tutti temevano d’essere coinvolti nella disgrazia che aveva colpito il ministro.
Dopo aver percorso parecchi viali che costeggiavano dei graziosi laghetti, dove si cullavano dolcemente eleganti barchette ricche di dorature e coi cuscini di seta, e dove si bagnavano in gran numero le gru coronate dalle lunghe gambe e bande di aironi, Lakon-tay, sempre assorto nei suoi tetri pensieri, si trovò, quasi senza saperlo, dinanzi al palazzo abitato dal re.
Nel 1865 – epoca in cui comincia questa storia – il palazzo reale di Bangkok era ancora annoverato fra le meraviglie del reame.
Era cinto tutto da muraglie altissime, che si prolungavano per parecchi chilometri, rivestite internamente da lastre di marmo bianco.
Nel centro di quell’immenso recinto sorgeva il mahapregat, ossia la gran sala dove il re usava ricevere gli ambasciatori delle potenze occidentali ed orientali, e dove si conservavano per un anno, racchiuse in un’urna d’oro, le ceneri dei defunti re; sala ricca di dorature meravigliose, eseguite dai più valenti artisti non solo del Siam bensì anche della Cina.
Più oltre si trovava un altro ampio salone, a cui si accedeva per una gradinata di marmo fiancheggiata da gigantesche statue Cinesi, e nel quale si trovava il trono a forma di altare, ricco di pietre preziose e coperto da un baldacchino diviso in sette scompartimenti, sotto cui il re riceveva i grandi della corte.
Lakon-tay si diresse verso quella sala, che era attigua alle stanze reali del monarca e della regina.
Era sicuro di trovare il re senza dover troppo attendere.
Salì col cuore trepidante la scala di marmo, appoggiandosi due volte alle enormi statue che gli pareva lo guardassero sogghignando; poi, facendo uno sforzo disperato, varcò la soglia senza rispondere al saluto del soldato di guardia che gli aveva presentato l’archibugio, e forse senza nemmeno vederlo.
Un ciambellano di corte, che indossava un magnifico vestito di seta rossa a fiori gialli, e aveva ai polsi numerosi braccialetti d’oro e ai piedi babbucce a punta rialzata con perle e ricami d’argento, vedendo entrare Lakon-tay si affrettò a muovergli incontro, accompagnato da due paggi pure sfarzosamente vestiti.
«Il re?» gli chiese brevemente il ministro degli elefanti bianchi, facendo uno sforzo supremo.
«È appena tornato nelle sue stanze, mio signore,» rispose il ciambellano. «Ha finito or ora il ricevimento della missione francese e credo che non abbia avuto nemmeno il tempo di spogliarsi.»
«Va’ a dirgli che mi urge vederlo.»
«Lakon-tay è sempre gradito a Sua Maestà… Ma che cosa hai, mio signore? Tu tremi e sei trasfigurato.»
«Disgrazia, disgrazia,» gemette il generale.
«Il S’hen-mheng?…»
«Morto…»
Il ciambellano fece rapidamente alcuni passi indietro, come se temesse al pari degli altri di venir coinvolto nella disgrazia che stava per piombare sul povero ministro.
Fece un inchino meno profondo del solito e scomparve per una delle porte laterali che metteva negli appartamenti riservati al re.
«Tutti mi abbandonano e mi sfuggono come un lebbroso,» mormorò Lakon-tay. «Ieri erano vili servi, ora che sto per perdere la mia carica e forse la vita, sono tanti principi.»
S’appoggiò a una delle colonne, fissando le lastre di marmo bianco che coprivano il pavimento della vasta sala.
Lo strepito d’una porta che s’apriva lo trasse bruscamente dai suoi tristi pensieri. Alzò gli occhi e trasalì.
Ritto sul primo gradino che conduceva alla piattaforma del trono e ancora vestito del grande costume di gala, stava ritto il re, collo sguardo cupo e la fronte aggrottata.
Phra-Bard-Somdh-Pra-Phara-Mendr-Maha-Monghut, re del Siam, era ancora un bell’uomo, quantunque di età già matura, dalla pelle un po’ abbronzata e dal portamento dignitoso, come si addiceva ad un monarca potente, anzi il più potente di tutti gli stati dell’Indocina.
Indossava ancora, come abbiamo detto, l’abito di gran gala, avendo appena terminato allora di ricevere un’ambasciata straordinaria inviatagli dal governo francese.
Sandet-Pra-Paramindr-Maha, suo figlio, che gli successe sul trono nel 1868, adottò, anche nei grandi ricevimenti, il costume dei generali inglesi; ma i suoi avi ci tenevano invece a fare pompa dell’abito regale siamese, il quale, se non era troppo comodo, faceva colpo sugli stranieri per la sua straordinaria ricchezza e per la sua strana forma.
Phra-Bard aveva dunque sul capo la famosa corona reale, una specie di piramide d’oro massiccio, alta più d’un piede, ornata all’intorno di diamanti e di rubini, che doveva ben pesargli sul cranio; indossava una giubba di tessuto pesante, a lamine d’oro, che s’incrociava sotto la cintura, tutta adorna di perle e di pietre preziose di valore inestimabile; calzoni larghi, pure cosparsi di lamine e di pietre; e ai piedi aveva delle babbucce… che avrebbero potuto far felice una sultana, tanto erano ricche di rubini e di smeraldi.
Il re doveva già essere stato informato dal ciambellano della morte dell’ultimo dei sette S’hen-mheng, poiché la sua faccia tradiva una profonda preoccupazione, e i suoi occhi erano animati da una fiamma sinistra.
Lakon-tay, facendo uno sforzo supremo, attraversò rapidamente la sala e si lasciò cadere in ginocchio dinanzi al re, dicendogli:
«Se mi credi colpevole, o mio re, uccidimi: sei nel tuo diritto.»
Phra-Bard rimase silenzioso, dardeggiando però sul disgraziato ministro uno sguardo che non prometteva nulla di buono.
Ad un tratto la collera, a malapena frenata, scoppiò con violenza inaudita.
«Sei un miserabile!» gridò il re. «Io avevo affidato a te i miei elefanti bianchi, perché ti credevo l’uomo più atto a coprire quella carica, e tu me li hai fatti morire tutti. Tu hai nel tuo vile corpo la maledizione di Sommona Kodom!»
«Giacché tu, o mio re, mi credi colpevole, uccidimi,» ripeté il disgraziato ministro, senza osar alzare gli sguardi verso il monarca. «Però ti giuro che la mia coscienza nulla ha da rimproverarsi; io ho speso regolarmente, fino all’ultimo tical, la rendita della provincia che tu avevi destinato alla corte dei S’hen-mheng, ed ho fatto il possibile perché a loro nulla mancasse.
Che colpa ho io se qualcuno, che non teme la punizione di Sommona Kodom, che sfida la giusta collera del suo re e che si nasconde nelle tenebre, ha osato gettare il maleficio sugli elefanti bianchi?»
«Credi, con questa stolta accusa, di stornare da te la mia collera?» chiese il re.
«Lakon-tay ti ha mostrato, allorché combatteva contro i Cambogiani e contro i Birmani, come non avesse paura della morte. Perché dovrei temerla ora che non sono più giovane?»
Phra-Bard, colpito da quelle parole, si rasserenò leggermente. La fiamma minacciosa che gli brillava poco prima negli occhi si dileguò, e anche le rughe della fronte a poco a poco si spianarono.
«Tu hai un sospetto, generale?» chiese, dopo qualche istante di silenzio.
«La morte dei S’hen-mheng, in così breve tempo, non mi pare naturale, o mio signore,» rispose il ministro.
«E chi avrebbe osato gettare un maleficio sui S’hen-mheng? Dove trovare nel mio regno un uomo che abbia tanto coraggio da sfidare l’ira di Sommona Kodom?»
«E se quell’uomo fosse uno straniero, uno che non credesse al nostro dio?» disse Lakon-tay, che s’aggrappava a tutto per ritardare la sua perdita.
«Uno straniero!» esclamò Phra-Bard, che per la seconda volta era stato colpito dalle risposte del suo ministro.
«Tu sai, o mio signore, che molti t’invidiano la tua potenza e la protezione che godi da parte di Sommona Kodom.»
«E i miei S’hen-mheng,» si lasciò sfuggire, forse involontariamente, il monarca.» Il mio vicino, il re di Birmania, che possiede un solo elefante bianco e già molto vecchio, mi aveva proposto, or non è molto, una somma favolosa perché gli cedessi uno dei miei S’hen-mheng.»
Ma subito dopo, quasi si fosse pentito di aver pronunciato quelle parole, aggiunse con un cattivo sorriso:
«No, non può essere possibile, il re di Birmania è buddista al pari di noi, e non avrebbe osato sfidare la collera di Sommona Kodom, che protegge pure il suo regno e che il suo popolo adora al pari del mio. Se ciò fosse avvenuto, Sommona ci avrebbe fatto ritrovare altri elefanti bianchi, mentre tutte le spedizioni, da me organizzate con immense spese, sono tornate a mani vuote.
Tu solo sei colpevole di aver causato la morte dei S’hen-mheng per inesperienza o per altre cause che io ancora ignoro; grandi e popolo ti accusano, e domani chiederanno giustizia.»
«Allora fammi uccidere,» rispose Lakon-tay. «Un generale che ha sfidato la morte sui campi di battaglia, per la gloria e la grandezza della nazione, non ha paura.»
Phra-Bard, in preda ad una viva eccitazione, si mise a passeggiare per l’ampia sala, senza rispondere al ministro. Aveva la fronte tempestosa ed il cupo lampo era tornato a brillare nei suoi occhi, indizi certi d’una collera violentissima.
Ad un tratto si fermò dinanzi a Lakon-tay, che era rimasto sempre in ginocchio sul primo gradino del trono, dicendogli con voce aspra:
«Che cosa accadrà ora del mio regno, privo della protezione degli elefanti bianchi, che racchiudevano l’anima di Sommona Kodom? Quali tremende sventure piomberanno sul Siam? Carestie, epidemie, invasioni di nemici, disastri inenarrabili, inondazioni e terremoti; e forse suonerà l’ultima ora per la mia dinastia.
E tutto ciò lo dovremo a te, miserabile, che non hai saputo curare la salute dei nostri S’hen-mheng ed hai irritato il nostro dio.
Levati dalla mia presenza e torna a casa tua, dove attenderai i miei ordini. Il popolo ed i grandi vorranno giustizia e l’avranno.»
«Grazia per Len-Pra,» gemette il disgraziato ministro.
«Tua figlia diverrà schiava, a meno che…»
«Prosegui, mio signore,» disse Lakon-tay, nei cui sguardi brillò lampo di speranza.
«…a meno che tu non trovi il modo di procurarmi almeno un S’hen-mheng.»
«Se colla mia vita potessi trovarlo, non esiterei a sacrificarla, mio signore.»
«Tu sei maledetto da Sommona Kodom e la tua vita non vale, oggi, quella del mio ultimo servo. Vattene e attendi a casa tua il mio castigo.»
Ciò detto Phra-Bard, che pareva in preda ad una collera furiosa, si diresse verso una delle porte di ebano, incrostate d’avorio e di madreperla, che mettevano negli appartamenti reali, e l’aperse violentemente.