Kitobni o'qish: «La caduta di un impero»
CAPITOLO PRIMO. LA FUGA DEGLI ELEFANTI E DEI RAJAPUTI
Anche l’Assam, come tante altre parti dell’India, è ricchissimo di pagode, abbandonate da secoli e secoli in mezzo alle foreste dai loro sacerdoti, per cause sconosciute.
Ne possiede poi specialmente una, ormai stretta da tutte le parti dagli alberi, che ben poco doveva aver da invidiare alla grande sciultre di Maduré, una delle più magnifiche che si trovino nell’India, e che si dice avesse costato ventidue anni di lavoro.
Era appunto quella di Kalikò, che avrebbe potuto, per le sue dimensioni enormi, per la magnificenza delle sue sculture, per l’altezza dei suoi tetti, far impallidire anche quelle famose di Benares.
Un tempo doveva aver servito a numerosi pellegrinaggi, poi forse la guerra, i banditi, i thugs, che non risparmiavano nemmeno i sacerdoti, l’avevano costretta a sospendere le sue feste sacre e lasciarsi prendere dalle piante parassite che sono le più tremende nemiche dei monumenti indostani, ed i rotangs, e le liane, coi calamus interminabili si erano aggrovigliate alle sue maestose colonne, stringendosi intorno ai giganteschi animali, per 1o più elefanti di pietra, di statura gigantesca, separati dalle più strane incarnazioni di Visnù, e poi erano salite, alte, alte, non più fermate da alcun tarwar, ed avevano invasi gli altissimi tetti piramidali, tutto avvolgendo, tutto coprendo.
La marcia delle male piante indiane è qualche cosa di spaventoso, d’impossibile a descriversi.
Una radura prima coltivata viene, per una causa qualsiasi, abbandonata, e dopo un mese non se ne trova quasi più traccia: le maligne erbe tutto hanno invaso. Una città, dopo un assalto, viene abbandonata dai suoi abitanti? Ecco le erbe maligne muovere a loro volta all’attacco, coprendo case, templi, piazze, monumenti, bastioni, fortezze, e tutto lentamente sgretolando.
Occorreranno degli anni, tuttavia a poco a poco quelle salde costruzioni cederanno e lasceranno cadere i massi. Cercate poi la città? Ma che!… Non ritroverete che immense rovine.
Ceylon, la grande isola indostana, conta centinaia e centinaia di città, un tempo rigogliose, tutte coperte di piante, e così fitte, che gli esploratori rinunciano quasi sempre a soddisfare la loro curiosità, anche per paura delle tigri che si trovano dei comodi covi intorno alle rovine.
Yanez, segnalata la pagoda, come abbiamo detto, si era avanzato subito, in silenzio, alla testa di cento rajaputi e dei suoi fedelissimi sikkari. Conduceva con sé il vecchio paria ed anche il giovane avvelenatore.
Tremal-Naik guidava l’altra squadra, egualmente grossa ed egualmente agguerrita, per impedire ai congiurati la fuga da ogni parte. Dopo che i rajaputi ebbero tagliata una vera strada fra la muraglia di verzura, il primo gruppo giunse, senza ostacoli, dinanzi a una delle porte della colossale pagoda.
Come quasi tutte quelle dei templi indù, era di bronzo anziché di legno, con molte belle figure di animali e di uomini, e così massiccia, da togliere subito l’idea a Yanez di abbatterla.
«Che cosa ne dici tu?» chiese al paria, mentre i rajaputi si allargavano puntando le carabine contro le numerosissime finestre che si aprivano sopra dei giganteschi colonnati, di forma quadrata, ed anche quelli tutti abbelliti da sculture. «Saresti tu capace di gettarla giù?»
«Non mi ci proverei nemmeno, Altezza» rispose il prigioniero. «Non sono figlio d’un gigante indiano».
«Lo vedo dalla tua statura. E senza chiavi noi non potremo certamente entrare».
«Vi sono altre porte, assai più piccole, poiché questa è la principale, e chissà che qualcuna sia stata lasciata aperta dai congiurati».
«Cerchiamo di ricongiungerci con Tremal-Naik» disse Yanez, dopo aver riflettuto qualche momento. «I rajaputi sono a posto, quindi il nemico non potrà sfuggirci. Andiamo a vedere se ha trovato qualche passaggio».
Chiamò i suoi sikkari, diede al comandante della piccola truppa alcuni ordini, poi si allontanò, sempre seguito dai due prigionieri. Le piante rendevano l’avanzata abbastanza difficile, ma gli sikkari lavoravano con lena coi loro coltellacci ricurvi, recidendo un numero infinito di liane e di rotangs, che si erano strettamente legati fra di loro, formando dei padiglioni immensi.
Dopo un buon quarto d’ora, Yanez udì il «chi va là» dell’altro drappello il quale si era appostato dietro il tempio, allargando le sue file in modo da occupare parecchie centinaia di metri. «Non fate fuoco!» disse il maharajah. «Siamo noi».
Tremal-Naik, avendo subito riconosciuta la voce, si fece rapidamente innanzi seguito da un paio d’uomini. «Non si assalta dunque?» chiese l’indiano.
«Già!… Si fa presto a gettare giù questo castello di carta che si sorregge da chissà quanti secoli. Ci vorrebbero dei grossi mortai ed in gran numero. Hai trovato nessuna porta, tu?» «Sì, quattro, tutte piccole e di bronzo massiccio, assolutamente inattaccabili». «Ed anche quella che ho scoperta io non si può assolutamente forzare». «Che cosa conti di fare?»
«Di entrare egualmente» rispose Yanez. «Scalare quelle finestre, con tutte queste colonne, è un giuoco da ragazzi. Hai veduto brillare nessuna luce?» «No, nessun lume è comparso alle finestre». «E non hai udito rumori?» «Nemmeno».
«Eppure i congiurati devono essere qui dentro, e si troveranno probabilmente in buon numero; è vero tu, vecchio?» «Io credo, Altezza» rispose il paria, «Da dove entrava quella gente?» «Dalla porta principale, quella che abbiamo visitata». Yanez cavò l’orologio mentre Tremal-Naik accendeva una candela.
«Già mezzanotte ed un quarto» disse. «Sarebbe il buon momento per sorprenderli nel primo sonno. La pagoda è circondata ormai, nessuno potrà fuggire senza cadere nelle mani dei nostri rajaputi, quindi possiamo agire senza perdere altro tempo. Vieni con me, ora che i tuoi uomini sono a posto, e andiamo a provare la scalata a qualche finestra». «Abbiamo corde?»
«Finché vuoi, e tutte armate d’arpioni d’acciaio. Dieci dei miei rajaputi ne portano un vero carico».
Ritornarono tutti insieme dinanzi alla porta principale della pagoda, più chiusa che mai, e cercarono il punto per la scalata. Fu scelta una finestra, di dimensioni più vaste delle altre e che si apriva ad un’altezza di circa quindici piedi, al di sopra di due teste di elefante di dimensioni enormi, e che erano sorrette da una colonna di bellissimo marmo verde. Una corda, armata di un gancio, fu gettata destramente da un sikkaro fra una delle due trombe e ben fissata.
«Tu prima, poi il ragazzo» disse Yanez al paria. «Non dimenticatevi che noi teniamo gli occhi su di voi, e che abbiamo le pistole già armate». «Non ho alcun desiderio di fare un capitombolo, Altezza» rispose il vecchio. «Ma potresti fuggirmi nell’interno della pagoda». «Per farmi uccidere?» «Non hai delle conoscenze fra i congiurati che si radunano qui?»
«Sì, ed è appunto per questo, Altezza, che non mi sento affatto tranquillo. Io ho tradito la causa di Sindhia e si farà il possibile ora per sopprimermi». «Ci saremo noi, mio caro, e siamo uomini da farne di grosse. Orsù, sali».
Intanto altre tre corde erano state fermate sulle trombe degli elefanti, per rendere la salita più spedita e più agevole. Uno dopo l’altro i due prigionieri, Yanez, Tremal-Naik e gli sikkari, raggiunsero il finestrone che aveva perduto tutti i suoi vetri chissà da quanti anni. Le due teste di elefante erano così enormi da poter reggere anche cinquanta persone.
«Ecco una piccola piazza forte» disse Yanez. «Dietro queste proboscidi potremo sfidare il fuoco…»
Si era bruscamente interrotto precipitandosi verso il finestrone con una pistola in mano.
«Hai veduto la dea che protegge la pagoda?» gli chiese Tremal-Naik, il quale si era affrettato a raggiungerlo. «Una testa, ed una testa umana che è subito scomparsa» rispose Yanez. «Che siamo stati già scoperti?» «Voi indiani avete l’udito troppo acuto».
«Eppure gli elefanti sono rimasti silenziosi. Che non fosse una testa, amico Yanez?»
«I miei occhi vedono abbastanza bene anche attraverso la semioscurità, e quassù veramente, ora che ci troviamo fuori dalle piante, qualunque persona potrebbe vedere una testa».
«Non importa: la pagoda è circondata e non potranno scapparci, se non tenteranno qualche disperato combattimento. Ti pare?»
Yanez non rispose. Aveva introdotto le braccia nel finestrone e pareva che cercasse un po’ più sotto, verso l’interno della pagoda, qualche cosa.
«Ah, ecco!…» esclamò ad un tratto. «Vi è una scala di ferro che conduce quassù». «La scorgi?» «La sento». «Vuoi che accenda una candela?»
«Pel momento no. E poi noi non abbiamo nessuna fretta, e potremo stringere anche d’assedio la pagoda».
«E ti prepari a discendere?» chiese Tremal-Naik, vedendolo allungare le gambe verso la scala che aveva scoperto.
«Per Giove!… Dobbiamo ben entrare in qualche modo in questo tempio se le porte sono tutte chiuse, ed a prova di cannoni». «Bada che non siamo che in dieci, e su due non dobbiamo affatto contare».
«Come vedi, i prigionieri non hanno armi, quindi non potrebbero esserci di nessun aiuto. Siamo dunque in otto, e ne abbiamo duecento fuori. Con simili forze io scendo anche all’inferno e vado a prendere pel naso compare diavolo». Stava per posare i piedi sui gradini, quando un sibilo leggerissimo si udì.
Pareva che qualche cosa, probabilmente una freccia, avesse attraversata l’aria, dall’interno della pagoda. Yanez era prontamente risalito rimettendosi a cavalcioni del largo davanzale.
«Facevo un bell’affare io» disse, armando la sua grossa carabina. «Se quel dardo mi prendeva, avrei anch’io in corpo, a quest’ora, un po’ di quella terribile bava del bis cobra. Fortunatamente hanno fallito il bersaglio». «Lo falliranno sempre?»
«È per questo, mio caro Tremal-Naik, che mi sono affrettato a mettermi al sicuro. Vorrei però cercare quella freccia che deve essere passata assai vicina a me, e che deve essersi piantata in qualche luogo». «Che cosa te ne importa, Yanez?»
«Molto» rispose il portoghese. «Voglio vedere di quali armi dispongono gli assediati».
«Preferirei le armi da fuoco ai dardi. Ti ricordi quelli dei selvaggi del Borneo? Ammazzavano molti dei nostri con una semplice puntura».
Yanez stava per piegarsi ancora sul finestrone, quando il capo degli sikkari lo trattenne. «Altezza» disse. «Voi volete cercare la freccia?» «Sì, Mahor, e ci terrei assai a vederla».
«La mia vita non vale quella d’un maharajah, quindi posso gettarla. Nessuno piangerà». «Bada che il veleno del bis cobra non perdona» disse Yanez.
«Lo so, Altezza; ma le frecce si avvertono prima pel loro sibilo, e si può talvolta scansarle. Lasciatemi vedere».
Il coraggioso capo dei cacciatori della corte stette alcuni istanti curvo sul largo davanzale del finestrone, ascoltando attentamente, poi allungò le gambe verso la scala di ferro, girando intorno ora l’una ed ora l’altra mano. Ad un tratto trasalì: qualche cosa si era spezzato sotto le sue dita. «Ah!… Eccola!…» esclamò, stringendo subito.
Un lontano sibilo che si avvicinava rapidamente lo fece avvertito che un altro dardo era stato lanciato, uno di quelli forse che per poco non avevano spento il maharajah. Balzò, lesto come una giovane tigre, sul davanzale, stringendo in una mano un leggero cannello di bambù che portava all’estremità un fiocco di cotone.
«Ecco la freccia che avrebbe dovuto uccidervi, Altezza» disse a Yanez. «La punta però si è spezzata».
«Non m’importa» rispose il maharajah. «Volevo solamente sapere se questo dardo era stato lanciato con un arco o con una cerbottana».
«Il fiocco di cotone lo ha tradito» disse Tremal-Naik. «I paria sono armati di gravatane, armi che non fanno fracasso e che se toccano uccidono quasi sempre».
«È per questo che ci penso poco a calarmi nel tempio» rispose Yanez. «Quante sono quelle canaglie? Venti, o cento o duecento? Che cosa dici tu, vecchio?»
«Devono essere in buon numero» rispose il prigioniero. «Non vi consiglierei di assalirli dall’alto. La pagoda è immensa, ha vasti corridoi, mille rifugi che possono sfidare il fuoco anche di duecento carabine, quindi perdereste gran gente senza forse alcun successo».
«Non siamo venuti qui a vedere il tempio, suppongo. Voglio espugnarlo, mio caro, e vedere se fra i congiurati, per caso, si trova Sindhia». «Rovesciate la porta principale ed entrate coi vostri rajaputi». «Gettarla giù a calci? Deve ben pesare quel bronzo».
«Signore, voi avete venti elefanti» disse il paria. «Quelle masse enormi spinte indietro, finiranno per sgangherare la porta, ed allora i vostri uomini potranno entrare intimando la resa. Io credo che non vi sarà una vera battaglia».
«Per Giove!…» esclamò Yanez. «Avevo sottomano una forza enorme e l’avevo trascurata. Faremo crollare anche la pagoda se noi vorremo».
In quel momento un altro sibilo leggerissimo salì, ed un cannello passò sopra le teste degli uomini, piantandosi in un orecchio di uno dei due elefanti di pietra.
«Ah!… Canaglie!…» gridò Yanez. «Ci tirano frecce da vicino ora. A me, sikkari!… Scarichiamo una bordata di palle dentro quel covo di cospiratori. Ormai siamo stati scoperti, quindi è inutile prendere delle precauzioni per non farci vedere. Si può provare. Se non si arrendono, metteremo al lavoro i nostri venti elefanti».
Si accostò con precauzione al finestrone, tenendosi ben stretto contro il davanzale, e con voce poderosa gridò:
«Uomini di Sindhia, il nuovo maharajah vi ha scoperti. O vi arrendete, o noi prenderemo la pagoda d’assalto».
Nessuno rispose. Pareva che il gigantesco tempio non fosse abitato che da quell’arciere che aveva scagliate due frecce per poi scappare chi sa dove.
«Non avete orecchi?» urlò Yanez, il quale cominciava ad impazientirsi. «Rispondete o comando il fuoco».
Anche questa volta silenzio assoluto. Nemmeno il lanciatore di dardi si era fatto vivo. «Che siano già scappati?» chiese Yanez, guardando il vecchio paria.
«Che io sappia non vi sono uscite sotterranee, signore» rispose l’indiano. «Sono lì dentro, ve lo dico io, e devono trovarsi in buon numero». «Spara un colpo di carabina, Yanez» disse Tremal-Naik.
«Ero già deciso, ma vedrai che quei conigli non si faranno vedere. Contano certamente sulla robustezza delle porte di bronzo, e noi conteremo poi sui nostri elefanti».
Si avanzò di qualche passo ancora e scaricò, dentro la pagoda, la sua grossa carabina, provocando un fracasso assordante.
«Al bagliore della polvere hai veduto nessuno?» chiese Tremal-Naik, il quale si preparava pure a far fuoco.
«Non ho veduto che delle statue di dimensioni gigantesche» rispose il portoghese. «Devono essere le solite incarnazioni di Visnù accompagnate forse da tre o quattro cateri». «Non hai veduto nemmeno l’uomo che ha lanciate le due frecce?»
«Chissà dove si sarà nascosto quel brigante. In questa pagoda vi devono essere degli immensi corridoi, è vero, vecchio paria?»
«Sì, Altezza» rispose il prigioniero. «Vi sono delle gallerie interne che possono servire d’asilo anche a mezzo migliaio d’uomini».
«Speriamo che i congiurati non siano tanti, quantunque io abbia la massima fiducia sui miei valorosi rajaputi». «E che cosa facciamo, Yanez, quassù? Non siamo dei marabù».
«Aspettavo la risposta dei congiurati, mio caro Tremal-Naik» rispose il maharajah.
«Te la daranno quando noi avremo rovesciate le porte di bronzo» rispose il famoso cacciatore. «E noi le getteremo giù. Prova però prima a fare fuoco anche tu». «Per decapitare qualche statua?» «Nessuno di noi piangerà, te lo assicuro». «Proviamo» disse Tremal-Naik. «Non sono le munizioni che ci mancano».
Come Yanez, era armato d’una grossa carabina, la cui canna era di purissimo acciaio, di quell’acciaio che viene dal Borneo, dove si trova allo stato naturale. Allungò l’arma, tenendo la testa ben indietro per paura di prendersi qualche freccia avvelenata nella gola, e fece fuoco. Fu un secondo colpo di cannone che si ripercosse lungamente dentro le immense gallerie del tempio, ma anche questa volta nessuno si fece vivo.
«Corpo di Giove!…» esclamò Yanez, il quale incominciava a perdere la sua flemma ordinaria. «Quei birbanti devono essere scappati tutti».
«Io credo invece che fingano di non trovarsi raccolti lì dentro» disse Tremal-Naik.
«Ed allora chiamiamo a raccolta i nostri venti elefanti e facciamo rovesciare da loro la gran porta di bronzo. Non resisterà a lungo all’urto di quelle poderose masse».
Ricaricarono le loro carabine, poi a due, a tre, tenendo sempre bene gli occhi addosso ai due prigionieri, si lasciarono scivolare fino a terra. Gli elefanti erano stati fermati un migliaio di metri dal tempio, non credendo Yanez di averne bisogno, quindi il drappello doveva riattraversare un lembo della foltissima foresta.
A cinquecento passi però dovevano trovarsi i rajaputi, quindi non vi era alcun pericolo da correre.
Lo stupore di Yanez e dei suoi compagni non ebbe più limiti, quando percorsa una distanza quasi doppia, non scorsero un solo guerriero indù.
«Come va questa faccenda?» si chiese il portoghese, tormentando il grilletto della carabina. «Io non posso ammettere che abbiano avuto paura e che siano scappati».
«Eppure non vi sono più» disse Tremal-Naik, con voce angosciata. «Che qui, quasi sotto ai nostri occhi, sia stato commesso qualche nuovo tradimento da parte dei congiurati?» Yanez lo guardò con ispavento. «Che cosa vorresti dire tu?»
«Che anche i nostri creduti fedeli rajaputi sono stati corrotti e condotti chissà dove a rinforzare le schiere di Sindhia». «Ma se siamo stati assenti appena un’ora!…» «In un’ora certe volte si fanno delle cose straordinarie». «Che abbiano portati via anche i nostri elefanti?» «È questo ora che pavento» disse Tremal-Naik.
«Non mancherebbe altro!… Là, là, non perdiamo il nostro sangue freddo, e prepariamoci a rispondere se si tenta di attaccarci. La foresta è fitta d’altronde, e non si presta troppo per un grosso attacco. Mettiamoci su due file, coi prigionieri in mezzo, ed andiamo a vedere che cos’ha saputo fare quel cane di Sindhia. Altro che pazzo!… È un gran furbo che vale quanto noi, ora me ne accorgo! Orsù, avanti».
Ripresero la marcia tenendosi in mezzo ai cespugli più folti, e dovettero purtroppo convincersi che i rajaputi si erano allontanati.
«Ecco qui le loro tracce» disse Tremal-Naik, arrestando il drappello. «Qui quattro dei nostri sono passati e non da molto tempo». «Quattro» disse Yanez. «E tutti gli altri? Erano duecento». «Il loro comandante ti aveva mai dato alcun motivo per diffidare di lui?» «Mai, Tremal-Naik».
«Allora non capisco più nulla. Uccisi non sono stati, perché avremmo trovato almeno qualche cadavere, e poi non abbiamo udito nessun sparo. Come siamo stati giuocati, mio caro Yanez. Non mi aspettavo un simile colpo».
«È la corona della rhani che comincia a sgretolarsi» rispose il portoghese, sospirando. «Bah, non creda Sindhia d’aver vinta così presto la partita. Se non possiamo contare più sulla fedeltà dei rajaputi, faremo accorrere i montanari di Sadhja, e quelli non ci tradiranno perché odiano troppo Sindhia». «E poi giungeranno i nostri dalla Malesia». «Purché facciano presto!…»
Si erano nuovamente fermati per osservare le tracce lasciate dai fuggiaschi e per trovare un nuovo passaggio. Erano tutti inquieti, nervosi, temendo di subire, da un momento all’altro, qualche scarica di fucili.
Trovato uno stretto sentiero, aperto probabilmente dai nilgò, vi si cacciarono dentro camminando curvi curvi, e cercando di non far rumore. Di quando in quando si arrestavano per ascoltare, ma non udivano né voci d’uomini, né barriti d’elefanti.
Solamente delle scimmie ungko gridavano a squarciagola sulla cima delle più alte piante, divertendosi a spiccare dei salti immensi, superiori perfino ai dieci metri.
Il drappello, tenendosi sempre nascosto, percorse altri tre o quattrocento passi e sbucò finalmente in una piccola radura. Era là che si erano fermati gli elefanti.
«Spariti!…» aveva gridato Yanez, facendo un gesto di disperazione. «Ah!… I traditori!… Nemmeno sui cornac potevo contare».
«V’ingannate, maharajah» disse un uomo sorgendo bruscamente fra un gruppo di bassi cespugli. «Io sono il cornac di Sahur, e come vedete vi sono rimasto fedele».
Tutti si erano precipitati incontro al conduttore, il quale pareva in preda ad una viva agitazione. «Dov’è Sahur?» gli chiese Yanez. «Ve l’hanno portato via anche quello». «Ma chi?… Chi?…» «I rajaputi». «Possibile?»
«Sì, mio signore. Tutti quegli uomini dovevano essere stati già arruolati dall’ex rajah ancora prima che lasciassero la vostra capitale».
«E la mia polizia non si è accorta di nulla!… Ah!… Canaglie!… Siamo in mezzo ad un vero esercito di traditori».
«Narra che cos’è accaduto» disse Tremal-Naik rivolgendosi al cornac, il quale non si era ancora rimesso dalla sua grande agitazione.
«Eravate partiti da forse venti minuti quando abbiamo veduto i rajaputi giungere di gran corsa, seguiti da un elefante nella cui cassa si trovava un fakiro, se non m’inganno. Intimarono a noi di arrenderci, dicendoci che ormai era il rajah Sindhia che regnava sull’Assam e non più il maharajah né la rhani. Ho Ho avuto appena il tempo, approfittando della confusione, di gettarmi in mezzo ai cespugli abbandonando al suo destino il mio elefante che ormai non potevo difendere. Io ho veduto il fakiro consegnare ai traditori molti sacchetti pieni certamente d’oro, poi tutta la banda si allontanò montando i vostri elefanti».
«Si sono diretti verso la capitale, i rajaputi?» chiese Yanez, con estrema ansietà. «No, mio signore, si sono internati nel bosco dirigendosi verso il sud». «Sei ben sicuro che siano partiti tutti?»
«Non ne deve essere rimasto uno solo qui. Erano tutti sulle haudah degli elefanti». «Chi li guidava?» «Il fakiro». «E Sahur ti ha abbandonato?»
«Io spero, mio signore, di riaverlo ben presto» rispose il cornac. «Appena udrà il mio fischio accorrerà a gran galoppo e mi raccoglierà. Non aspetto altro che i rajaputi facciano una fermata».
«Ma rimarrai troppo indietro» disse Tremal-Naik. «Dovresti essere già partito».
«Corro come un cavallo, e poi la boscaglia è folta e gli elefanti non potranno avanzare che al passo. Avrei già lasciato questo posto ma mi premeva avvertirvi di quello che era succeduto durante la vostra assenza».
«Ed hai fatto bene» disse Yanez. «Ora puoi partire, e se sei capace di ricondurci almeno Sahur la tua fortuna sarà fatta. Noi ti aspettiamo dinanzi alla pagoda».
«Vedrete, mio signore, che il mio elefante al mio primo richiamo scapperà e verrà a me».
Yanez gli fece dare un paio di pistole, non avendo egli altre armi che l’arpione del mestiere, poi gli fece cenno di partire. Il cornac parve che si orientasse rapidamente, poi si allontanò a corsa sfrenata. Non aveva detto una vanteria affermando di correre come un cavallo.
Yanez e Tremal-Naik erano rimasti silenziosi, guardandosi l’un l’altro, mentre gli sikkari, dopo aver legato le braccia ai due prigionieri, eseguivano una rapida battuta per accertarsi se tutti i rajaputi si erano veramente allontanati.
«Ci capisci tu qualche cosa?» disse finalmente il portoghese, tergendosi il copioso sudore che gli bagnava la fronte. «Ho capito che ci hanno portati via duecento uomini» rispose Tremal-Naik.
«Corpo di Giove!… Lo so anch’io, ma io vorrei ora sapere perché quei traditori non si sono slanciati su di noi per farci prigionieri e consegnarci al rajah».
«Non l’avranno osato. Tu sei ancora il maharajah dell’Assam, mentre il pazzo ora rinsavito non è ancora nulla. Potrà forse un giorno riconquistare la corona che tu gli hai tolta, ma finora non è che uno spodestato».
«Che abbiano avuto paura di noi? Duecento contro otto, poiché i due prigionieri non ci avrebbero certamente aiutati».
«In fondo i rajaputi sono cavallereschi, tu già lo sai. Avranno accettato di arruolarsi e avranno invece rifiutato di spingere il tradimento fino ad impadronirsi delle nostre persone».
«Di ciò non serberò loro nessuna riconoscenza» disse Yanez, che appariva furioso. «Io non mi aspettavo un colpo così grosso. Mi hanno dato una coltellata in mezzo al cuore privandomi dei miei venti elefanti per venderli a Sindhia. Ladri!… Ladri!…»
«Càlmati, amico, la partita fra te ed il rajah non è, si può dire, ancora impegnata, ed i montanari di Sadhja non mancano di buoni elefanti e bene montati».
«Ed armati anche di spingarde» disse Yanez. «Appena torneremo nella capitale manderemo subito dei messi al vecchio Khampur». «Se ci torneremo» disse Tremal-Naik. «Ne dubiteresti tu?»
«Io penso che quello che non hanno osato tentare i rajaputi per un certo riguardo verso le nostre persone, lo potranno fare i paria nascosti nella pagoda. Non dimentichiamo quelle canaglie le quali possono trovarsi in buon numero e fors’anche ben armati».
«Per Giove!…» esclamò Yanez, facendo un soprassalto. «Non mi ricordavo più di loro. Non ci mancherebbe ora che dovessimo subire un assalto da parte di quei congiurati. E non siamo che in otto, valorosi finché si vuole, ma sempre otto, con due seccature da guardare. Non ci fossero almeno questi prigionieri». «Lasciamoli andare».
«Mai più, mio caro Tremal-Naik. Il vecchio e anche il giovane sono persone troppo preziose».
In quel momento i sei sikkari tornarono dalla loro breve e rapidissima escursione, camminando in gruppo serrato, senza produrre il menomo rumore. Abituati a sorprendere i grossi animali delle foreste e delle jungle, avevano il passo così leggero da non poterli udire passare a pochi metri di distanza. «E dunque?» interrogò ansiosamente Yanez.
«Sono fuggiti tutti, Altezza» rispose il capo dei cacciatori. «In queste foreste non vi è più un rajaputo». «Avete udito barrire i nostri elefanti?» «Sì, ma a grande distanza».
«Molte miglia?» chiese Tremal-Naik, il quale in quel momento pensava al cornac di Sahur.
«Oh, no, a ben poche. Quelle grosse bestie non possono procedere al galoppo fra tutti questi vegetali».
Yanez guardò in viso i suoi fedeli cacciatori, i soli forse veramente fedeli, e chiese loro: «Avreste paura a ricondurci alla pagoda?»
«Siamo sempre a disposizione del maharajah e del sahib suo amico» rispose il capo degli sikkari. «Noi non abbiamo paura né delle tigri, né dei rajaputi, né dei paria. Sappiamo già che il nostro destino è di morire entro qualche selva, dilaniati dalle belve feroci o strozzati dai thugs, e siamo sempre decisi a tutto. Che Vostra Altezza comandi». «Ritorniamo alla pagoda». «Vorreste entrare?»
«Ora che non abbiamo più gli elefanti per rovesciare la porta di
bronzo, ci sarà impossibile». «Potreste ingannarvi, Altezza». «Spiègati meglio».
«Durante la nostra esplorazione abbiamo raccolto una scatola di latta che deve aver contenuto dei biscotti o qualche cosa di simile, e di latta assai spessa, ed abbiamo preparata una bomba». «Tu!…» esclamò Yanez un po’ sorpreso. «La polvere non ci mancava come non ci mancava qualche miccia». «Fa’ vedere».
Un sikkaro si avanzò portando una scatola capace di contenere due chilogrammi di polvere e che era stata tutta bene stretta colle cinghie delle carabine.
«Voi siete meravigliosi» disse il portoghese. «Se questa specie di bomba scoppierà, anche la porta, per quanto salda, crollerà. Toh!… Fra tante disgrazie abbiamo ancora un lampo di fortuna, è vero, Tremal-Naik?»
«Comincio a crederlo anch’io» rispose il famoso «Cacciatore della Jungla Nera». «Non saranno già tutte cannonate che ci giungeranno in pieno petto. L’aver ritrovato il cornac di Sahur è già qualche cosa».
«E sarà più di qualche cosa se lo vedremo giungere piantato fra gli orecchi del suo bestione».
«Io non dubito che possa portarlo via ai rajaputi. Tu sai quanto sono affezionati gli elefanti ai loro conduttori».
«Orsù» disse Yanez, dopo di aver ascoltato a lungo. «La foresta è silenziosa, quindi possiamo rifare il cammino percorso e tornare alla pagoda. Quella maledetta porta voglio vederla rovesciata per misurarmi coi paria di Sindhia. Almeno conoscerò la resistenza ed il coraggio dei miei futuri nemici». «E se quelle canaglie fossero uscite e ci avessero preparato un agguato?»
«No, sahib», disse il capo degli sikkari, «nessuna imboscata. Io odo gli sciacalli urlare verso la pagoda, e ciò vuol dire che da quella parte non si trovano esseri umani, almeno per ora. Hanno troppa paura dei fucili e fuggono subito, appena vedono luccicare un’arma. Altezza, possiamo partire».
I dieci uomini si incolonnarono, ascoltarono un’ultima volta, poi si ricacciarono nel sentiero aperto dai nilgò, procedendo colle carabine puntate. Yanez era sempre dinanzi, col capo degli sikkari.