Kitobni o'qish: «Jolanda, la figlia del Corsaro Nero»
Emilio Salgari
JOLANDA, LA FIGLIA DEL CORSARO NERO
Capitolo primo. La taverna «El Toro»
Quella sera la taverna El Toro, contrariamente al solito, brulicava di persone, come se qualche importante avvenimento fosse avvenuto o stesse per succedere.
Quantunque non fosse una delle migliori di Maracaybo, frammiste a marinai, a facchini del porto, a meticci e ad indiani caraibi, si vedevano – cosa piuttosto insolita – delle persone appartenenti alla migliore società di quella ricca ed importante colonia spagnola: grossi piantatori, proprietari di raffinerie di zuccheri, armatori di navi, ufficiali della guarnigione e perfino qualche membro del governo.
La sala, piuttosto ampia, coi muri affumicati, dall’ampio camino, malamente illuminata da quelle incomode e famose lampade usate sul finire del sedicesimo secolo, ne era piena. Nessuno però beveva ed i tavolini, addossati alle pareti, alla rinfusa, erano deserti. Invece la grande tavola centrale di vecchio noce, lunga più di dieci metri, era circondata da una quadrupla fila di personaggi, che parevano in preda ad una vivissima agitazione e che scommettevano con un furore, che avrebbe meravigliato anche un moderno americano degli Stati dell’Unione.
«Venti piastre per Zambo!»
«Trenta per Valiente!»
«Valiente si prenderà una tale speronata che cadrà al primo colpo!»
«Sarà Zambo a cadere!»
«E voi, don Raffaele?»
«Punterò su Plata, è più robusto dell’uno e dell’altro e avrà la vittoria finale!»
«Canarios! Un poltrone quel Plata».
«Come vorrete, don Alonzo, ma io aspetto il suo turno!»
«Basta!»
«Avanti i combattenti!»
«Chiusura! Chiusura!»
Un tocco di campana annunciò che le scommesse erano terminate, e ai clamori assordanti di prima successe un profondo silenzio.
Due uomini erano entrati nella sala per due porte diverse e si erano collocati alle due estremità del tavolo. Portavano fra le braccia due splendidi galli, uno tutto nero colle penne a riflessi azzurro-dorati; l’altro rosso a striature bianche e nere.
Erano due careadores ossia allevatori di galli combattenti, professione anche oggidì assai lucrosa e molto apprezzata nelle antiche colonie spagnole dell’America Meridionale.
In quell’epoca la passione per quello sport barbaro, aveva raggiunto un vero fanatismo e si può dire che non passava giorno senza che vi avvenissero combattimenti di galli. E non mancavano perfino i giudici di campo, il cui giudizio era inappellabile.
L’educazione dei galli battaglieri richiedeva però cure minuziose, quanto quelle dei bulldog destinati ad affrontare i tori, se non di più. Essi venivano abituati a misurarsi ancora quand’erano pulcini. Avevano un nutrimento speciale, composto per lo più di granoturco, il cui numero di granelli era stabilito per ogni pasto. Per dare agli speroni maggior forza ed impedire che potessero guastarsi, si proteggevano con guaine di cuoio foderate di lana.
Alla comparsa dei due galli, un entusiastico evviva era scoppiato fra gli spettatori:
«Bravo, Zambo!»
«Forza, Valiente!»
Il giudice di campo, un grosso raffinatore di zucchero, che doveva conoscere le regole complicate di quel turf, pesò minuziosamente i due volatili, misurò la loro alatura e la lunghezza degli speroni onde eguagliare le condizioni di combattimento, quindi una voce forte dichiarò che l’eguaglianza era perfetta e che tutto andava benissimo.
I due galli furono subito lasciati liberi, collocandoli alle due estremità della tavola.
Come abbiamo detto, erano entrambi bellissimi e di razza andalusa, la migliore e la più battagliera.
Zambo era più alto di qualche pollice del suo avversario, con un becco robusto, un po’ arquato alla sua estremità come quello dei falconi, cogli artigli piuttosto corti ed invece assai acuminati. El Valiente appariva più robusto, più tozzo, con gambe più grosse e speroni più lunghi, il becco era invece più corto, ma più largo e aveva sulla testa una bella cresta d’un rosso quasi violaceo e gli occhi più brillanti, anzi più provocanti.
Appena messi in libertà, i due galli si rizzarono in tutta la loro altezza, starnazzando le ali ed arruffando le penne del collo e lanciarono quasi simultaneamente il loro grido di guerra e di sfida.
«Assisteremo ad una bella lotta» disse un ufficiale della guarnigione.
«Io ritengo invece che sarà breve» disse don Raffaele «e che la vittoria la deciderà Plata».
«Silenzio!» gridarono tutti.
I due galli stavano per accostarsi, tenendo la testa bassa, quasi rasente alla superficie del tavolo, quando due passi pesanti ed uno strascinare di spadoni, li fece arrestare.
«Chi disturba la lotta?» chiede il giudice di campo, con stizza.
Tutti si erano voltati corrugando la fronte e brontolando.
Due uomini erano entrati nella taverna, aprendo fragorosamente la porta, non immaginandosi certo di disturbare quelle brave persone e tanto meno i due galli combattenti.
Erano due tipi di bravacci o di avventurieri, personaggi che si trovavano allora di frequente nelle colonie spagnole d’oltre Atlantico. D’aspetto piuttosto brigantesco, portavano vesti un po’ sgualcite, cappellacci di feltro dalle tese ampie con piume di struzzo quasi senza barbe, alti stivali di cuoio giallo, a tromba molto larga, e posavano fieramente la sinistra su certi spadoni, che dovevano mettere i brividi indosso a più d’un tranquillo borghese di Maracaybo.
Uno era di statura molto alta, coi lineamenti piuttosto angolosi, coi capelli d’un biondo rossastro; l’altro invece più basso e più membruto, con barba nera ispida.
Tanto l’uno che l’altro poi avevano la pelle assai abbronzata, arsa dal sole e dai venti del mare.
Udendo gli spettatori a mormorare e vedendosi addosso tutti quegli sguardi un po’ crucciati, i due avventurieri alzarono i loro spadoni e s’avviarono in punta dei piedi verso un tavolo situato nell’angolo più oscuro, ordinando ad un garzone, che era prontamente accorso, un boccale di Alicante.
«C’è numerosa compagnia qui» disse l’uomo più basso a mezza voce. «Troveremo forse in questa taverna quanto ci occorre».
«Sii prudente, Carmaux».
«Non temere, amburghese».
«Toh!… Ecco un bellissimo spettacolo! Un combattimento di galli! Da un pezzo non ne vedevo».
«Bisognerebbe abbordare qualcuno di quegli spettatori».
«Basta che non sia un ufficiale».
«Prenderò un borghese, Wan Stiller» disse Carmaux. «Al capitano poco importa, purché sia un maracaybino».
«Guarda là quell’uomo panciuto, che mi ha l’aria di essere un qualche ricco piantatore o qualche raffinatore di zuccheri».
«Che possa saperne qualche cosa, quell’uomo?»
«Tutti questi grossi piantatori e commercianti sono in relazione col governatore. E poi, chi non ricorda il Corsaro Nero qui? Ne abbiamo fatte di belle con quel valoroso gentiluomo».
«Maledette guerre!» esclamò Carmaux «Se invece di tornare nel suo Piemonte, fosse rimasto qui, forse sarebbe ancora vivo».
«Taci, Carmaux» disse l’amburghese. «Tu mi rattristi troppo. Mi sembra impossibile che sia morto. E se il capitano Morgan fosse stato male informato?»
«Egli lo ha saputo da un compatriota del Corsaro Nero, che ha assistito alla sua fine».
«Dove l’hanno ucciso?»
«Sulle Alpi, mentre combatteva valorosamente contro i francesi che minacciavano d’invadere il Piemonte. Si dice però che quel prode la cercasse la morte».
«Perché, Carmaux? Tu non me lo hai mai detto prima d’ora».
«Non lo seppi che ieri dal signor Morgan».
«Quale motivo lo spingeva a giuocare pazzamente la vita?» chiese l’amburghese.
«Il dolore d’aver perduta la moglie, la duchessa di Wan Guld, morta nel dare alla luce la bambina».
«Povero signor di Ventimiglia! Così valoroso, così leale, così generoso… Verranno altri filibustieri, ma come lui no, mai».
Uno scoppio fragoroso di grida li fece alzare entrambi. Gli spettatori che circondavano il tavolo parevano in preda ad una vera frenesia. Alcuni acclamavano, altri imprecavano, tutti si agitavano, sbracciandosi e pestando i piedi.
Carmaux e l’amburghese, vuotate d’un fiato le tazze, si erano accostati agli spettatori, mettendosi specialmente dietro al grasso piantatore o raffinatore di zucchero, che era quel señor Raffaele che voleva riservare le sue scommesse per il Plata.
I due galli, dopo una serie di finte e di salti, si erano attaccati con furore e Zambo aveva ricevuto un colpo di sperone sulla testa perdendo parte della sua bella cresta e anche un occhio.
«Bel colpo!» mormorò Carmaux, che pareva se n’intendesse.
Il careador si era subito impadronito del vinto, bagnandogli le ferite coll’acquavite, onde arrestarne almeno per qualche istante il sangue.
El Valiente, tronfio della vittoria riportata, cantava a piena gola, pavoneggiandosi e starnazzando le sue belle ali.
La lotta non era però che cominciata, perché Zambo non si poteva ancora considerare fuori combattimento. Anzi, malgrado fosse cieco di un occhio, poteva disputare a lungo la vittoria ed anche riuscire a strapparla all’avversario.
Si capisce che ormai il favorito era El Valiente che aveva dato un così bel saggio della sua bravura.
Perfino don Raffaele si era sentito tentare. Dopo un po’ di esitazione aveva gridato:
«Cinquanta piastre sul Valiente. Chi tiene? chi…»
Un colpetto sulla spalla destra gl’interruppe la frase e lo fece voltare indietro.
Carmaux non aveva ancora alzata la mano.
«Che cosa volete, señor?» chiese il raffinatore o piantatore che fosse, aggrottando la fronte e mostrandosi un po’ offeso per quella familiarità.
«Volete un consiglio?» disse Carmaux. «Puntate sul gallo ferito».
«Siete forse un careador?»
«A voi poco deve importare se lo sia o no. Se volete, punto duecento piastre su quello…»
«Su Zambo?» chiese il piantatore, facendo un gesto di sorpresa. «Avete del denaro che vi pesa troppo nelle tasche?»
«Niente affatto, anzi sono venuto qui per guadagnarne».
«E puntate su Zambo?»
«Sì, e vedrete come, fra poco, concerà l’altro. Scommettete con me, señor».
«Sia» disse il grasso piantatore, dopo qualche esitazione «Se perdo mi rifarò con Plata».
«Scommettiamo insieme?»
«Accetto».
«Trecento piastre per Zambo!» gridò Carmaux.
Tutti gli sguardi si erano fissati su quell’avventuriero, che scommetteva una somma relativamente grossa su un gallo ormai semi-sconfitto.
«Tengo io!» gridò il giudice di campo. «Avanti i combattenti».
Un momento dopo i due campioni si ritrovavano l’uno di fronte all’altro.
Zambo, quantunque così mal conciato e sanguinante, assalì per primo, saltando molto in alto, ma anche questa volta sbagliò il colpo e fu respinto.
El valiente che si teneva pronto, s’alzò in tutta la sua altezza, poi con uno slancio improvviso si precipitò sull’avversario tentando di cadergli sul cranio per spaccarglielo con un buon colpo d’artiglio.
Zambo però, si era prontamente rimesso, si teneva in guardia colle ali pronte alla parata e la testa ritirata, e gli rispose con un colpo di becco così bene assestato, da strappargli di colpo uno dei due barbigli della gola.
«Bravo gallo! Gallo fino!» gridò il piantatore.
Aveva appena pronunciate queste parole, quando El Valiente che perdeva sangue in abbondanza, si precipitò sul rivale colla velocità e l’impeto del falcone.
I due volatili si videro per alcuni istanti dibattersi, uniti strettamente, poi rotolarsi sulla tavola, poi diventare immobili come se si fossero uccisi reciprocamente. Zambo era rimasto sotto l’avversario e non si scorgeva quasi più.
Don Raffaele si era voltato verso Carmaux, dicendogli con accento secco:
«Abbiamo perduto».
«Chi ve lo dice?» chiese l’avventuriero. «Ah! Guardate! Trecento piastre sono già nelle nostre tasche, señor».
Zambo non era affatto morto, anzi tutt’altro. Quando gli spettatori cominciavano a disperarsi, con una mossa improvvisa era sfuggito di sotto all’avversario e si era alzato, cantando a piena gola e piantando gli speroni nel corpo del vinto.
El Valiente era morto e giaceva inerte col cranio spaccato.
«Ebbene señor, che cosa ne dite?» chiese Carmaux, mentre attorno alla tavola scoppiava una salva d’imprecazioni all’indirizzo del vinto.
«Dico che voi avete avuto un colpo d’occhio ammirabile» rispose il piantatore, con accento lieto.
Carmaux ritirò le trecento piastre e ne fece due mucchi eguali, dicendo:
«Centocinquanta per ciascuno, señor. La partita non è stata cattiva».
«No, v’ingannate» disse don Raffaele.
«E perché?»
«Non ho scommesso che cinquanta piastre».
«Perdonate, ma noi abbiamo giuocato in società. Raccogliete le vostre piastre che sono state guadagnate lealmente contro il giudice di campo che ha puntato sul morto».
«Siete molto ricco voi per essere così generoso?» chiese il piantatore guardandolo con molto stupore.
«Non ci tengo al denaro: ecco tutto» rispose Carmaux.
«Voglio farvi guadagnare anch’io, señor. Puntate sul gallo che porteranno ora».
«Vedremo».
Un altro careador era in quel momento entrato, deponendo sulla tavola un gallo di forme splendide, più alto di Zambo, con una coda magnifica e le penne tutte bianche a riflessi argentei.
Era El Plata.
«Che ne dite señor?» disse fon Raffaele, volgendosi verso Carmaux.
«Bellissimo senza dubbio» rispose l’avventuriero, che lo guardava attentamente.
«Puntate?»
«Sì, cinquecento piastre su Zambo».
«Sul Plata volete dire».
«Señor, cinquecento piastre per Zambo. Chi ci tiene?» gridò.
«È una follìa».
«Scommettete con me?»
«Che sia invincibile quel Zambo?»
«Questa sera sì!»
«Siete il diavolo, voi?»
«Se non sono veramente Belzebù, sarò un suo prossimo parente» rispose Carmaux, ironicamente. «Orsù, ci tenete con me?»
«Sì, per la metà. El Plata, che era il mio favorito, a mare».
Le scommesse erano finite ed il silenzio era tornato nell’ampia sala.
I due galli, appena trovatisi di fronte, si erano assaliti con furore, sbattendo le ali e strappandosi mazzetti di penne.
Parevano entrambi della stessa forza e Zambo, quantunque semi-cieco, non accordava tregua all’avversario.
Ben presto il sangue cominciò a macchiare la tavola. I due combattenti si erano già trafitti parecchie volte cogli speroni ed El Plata aveva la bella cresta violacea a brandelli.
Di tanto in tanto, come di comune accordo, s’arrestavano per riprendere lena e scuotere i grumi di sangue che li acciecavano, poi tornavano alla carica con maggior furia di prima. Al quinto attacco El Plata rimase sotto a Zambo.
Un coro d’imprecazioni rimbombò nella sala, giacché i più avevano scommesso per il nuovo gallo. El Plata però, con una scossa improvvisa riuscì a liberarsi dalla stretta, ma non riuscì a parare un colpo di becco dell’avversario che gli strappò un occhio.
«Così almeno sono pari» disse Carmaux. «L’uno e l’altro ne hanno perduto uno».
Il careador si era precipitato verso El Plata. Gli fece ingoiare un sorso d’acquavite, gli lavò la testa colla spugna per sbarazzarlo dai grumi di sangue, gli sprizzò nell’orbita vuota un po’ di succo di limone, poi tornò a lanciarlo sulla tavola, dicendo:
«Su, mio bravo».
Aveva avuto troppa fretta. Il povero gallo, ancora stordito, non poté far fronte al fulmineo attacco del prode Zambo e cadde quasi subito colla testa spaccata da un furioso colpo di becco.
«Che cosa vi avevo detto, señor?» disse Carmaux, volgendosi verso don Raffaele.
«Che voi siete uno stregone, od il migliore careador dell’America».
«Con tutte queste piastre che abbiamo guadagnato, possiamo permetterci il lusso di vuotare una bottiglia di Xeres. Ve l’offro io, se non vi rincresce».
«Lasciate a me questo onore».
«Come volete, señor».
Capitolo secondo. Il rapimento del piantatore
Mentre venivano portati due altri galli, durando quei combattimenti delle notti intere talvolta, Carmaux, Wan Stiller ed il grasso don Raffaele, seduti intorno ad un tavolo collocato in un angolo della sala, trincavano allegramente, come vecchi amici, dell’eccellente Xeres a due piastre la bottiglia.
Lo spagnolo, messo in buon umore dalle vincite fatte e da alcuni bicchieri, chiacchierava come una gazza, vantando le sue piantagioni, le sue raffinerie di zucchero, e facendo comprendere ai due avventurieri come egli fosse uno dei pezzi grossi della colonia.
Ad un tratto s’interruppe, chiedendo a bruciapelo a Carmaux, che continuava a riempirgli il bicchiere:
«Ma… señor mio, non siete della colonia voi?»
«No, anzi siamo giunti solamente questa sera».
«Da dove?»
«Da Panama».
«Siete venuti per cercare qui da occuparvi? Ho qualche posto sempre disponibile».
«Siamo gente di mare, signore, noi e poi non abbiamo intenzione di fermarci a lungo qui».
«Cercate qualche carico di zucchero?»
«No» disse Carmaux, abbassando la voce. «Siamo incaricati di una missione segreta per conto dell’illustrissimo signor presidente dell’Udienza reale di Panama».
Don Raffaele sgranò tanto d’occhi e divenne leggermente pallido per l’emozione.
«Signori» balbettò. «Perché non me lo avete detto prima?»
«Silenzio e parlate a voce bassa. Noi dobbiamo fingerci avventurieri e nessuno deve sapere chi ci ha qui mandati» disse Carmaux con voce grave.
«Siete incaricati di qualche inchiesta sull’amministrazione della colonia?»
«No, di appurare una notizia che interessa assai l’illustrissimo signor presidente. Ah! Ora che ci penso, voi potreste dirci qualche cosa. Frequentate la casa del governatore?»
«Prendo parte a tutte le feste ed a tutti i ricevimenti signor…»
«Chiamatemi semplicemente Manco» disse Carmaux. «Dicevo che voi, che frequentate la casa del governatore, potreste darci qualche preziosa informazione».
«Sono tutto a vostra disposizione. Chiedetemi».
«Questo non è veramente il luogo» disse Carmaux, sbirciando gli spettatori. «Si tratta di cosa molto grave».
«Venite a casa mia, señor Manco».
«Le pareti talvolta hanno delle orecchie. Preferisco l’aria libera».
«Le vie sono deserte a quest’ora».
«Andiamo sulla calata, così noi saremo vicini alla nostra nave. Vi spiacerebbe, señor?»
«Sono ai vostri ordini per far piacere all’illustrissimo presidente. Gli parlerete di me?»
«Oh! Non dubitatene».
Vuotarono la seconda bottiglia, pagarono il conto e uscirono, mentre un quarto gallo cadeva sulla tavola, colla testa traforata da uno degli speroni dell’avversario.
Carmaux e l’amburghese, quantunque avessero vuotato nientemeno che sei bottiglie, pareva che avessero mandato giù dell’acqua; il piantatore invece aveva le gambe malferme e si sentiva girare la testa.
«Sii pronto quando io ti darò il segnale» mormorò Carmaux agli orecchi dell’amburghese. «Sarà una buona presa».
Wan Stiller fece col capo un cenno di assentimento.
Carmaux passò familiarmente un braccio sotto quello del grasso piantatore, per impedirgli di camminare a sghimbescio, e tutti e tre si diressero verso la spiaggia, attraversando viuzze strette e oscurissime, non sentendosi in quei tempi il bisogno dell’illuminazione delle strade.
Quando sboccarono sul largo viale di palme, che conduceva al porto, Carmaux che fino allora era rimasto silenzioso, scosse il piantatore che pareva fosse lì lì per addormentarsi, dicendogli:
«Possiamo parlare; non v’è nessuno qui».
«Ah! Già… il presidente… il segreto…» borbottò don Raffaele aprendo gli occhi. «Eccellente quell’Alicante… un altro bicchiere, señor Manco».
«Non siamo più nella taverna, mio caro signore» disse Carmaux. «Se vorrete vi torneremo e vuoteremo altre due o tre bottiglie».
«Eccellente… squisito…»
«Basta, lo sappiamo, veniamo al fatto. Voi mi avete promesso di darmi le informazioni che desideravo e badate che vi è di mezzo l’illustrissimo signor presidente dell’Udienza reale di Panama e vi avverto che quell’uomo non ischerza».
«Sono un suddito fedele».
«Bene, bene, señor».
«Parlate, che cosa desiderate? Io sono amico del governatore… molto amico…»
«Un amicone, lo sappiamo. Ditemi, e aprite bene gli orecchi, e pensate bene quello che dite. È vera la voce corsa che qui si trovi la figlia del cavaliere di Ventimiglia, il famoso Corsaro Nero? È vera? Il signor presidente dell’Udienza vorrebbe saperlo».
«Che cosa può importargliene?» chiese don Raffaele, con stupore.
«Né io né voi dobbiamo saperlo. È vero o no?»
«È vero».
«Quando è giunta?»
«Saranno quindici giorni. L’hanno catturata su una nave olandese, caduta in potere d’una nostra fregata, dopo un sanguinoso combattimento».
«Che cosa veniva a fare qui, in America?»
«Si dice che venisse a raccogliere l’eredità di suo nonno, Wan Guld. Il duca possedeva vaste tenute qui e anche a Costarica, che non sono mai state vendute».
«È vero che è prigioniera?»
«Sì».
«Perché?» «Voi vi scordate, sembra, quanto male abbia fatto a Maracaybo ed a Gibraltar suo padre, il Corsaro Nero».
«Per vendicarsi, dunque».
«E per impedirle di entrare in possesso dei beni del duca. Rappresentano dei bei milioni, che il governatore conta di far passare nelle casse proprie ed in quelle del governo».
«E se il Piemonte o l’Olanda reclamassero la sua libertà? Voi sapete che non è suddita spagnola».
«Vengano a prenderla, se l’osano».
«Dove si trova ora?»
«Questo lo ignoro» disse don Raffaele dopo un po’ di esitazione.
«Voi non lo volete dire».
«Non voglio compromettermi col governatore, señor Manco».
«Diffidereste di noi?»
Don Raffaele si era fermato, poi aveva fatto un passo indietro, guardando con spavento quei due avventurieri e maledicendo in cuor suo i galli, le bottiglie e la sua imprudenza.
«Voi non mi avete ancora data alcuna prova di essere veramente quelli che mi avete detto».
«Ve le daremo le prove quanto prima, quando sarete a bordo del nostro legno. Venite con noi, non abbiate timore».
«Sia, purché passiamo sull’altro viale».
«Vi sono i doganieri colà e non desideriamo di essere veduti da nessuno. Venite o…» disse Carmaux con accento minaccioso, mettendo la destra sull’impugnatura dello spadone.
Il povero piantatore impallidì orribilmente, poi, tutto d’un tratto si slanciò, con un’agilità che non si sarebbe mai supposta in quel corpo così grosso e rotondo, fra le aiuole che dividevano i due viali, gridando con quanta voce aveva in gola:
«Aiuto doganieri! M’assassinano!»
«Carmaux aveva mandato una rauca imprecazione.
«Birbante! Ci fa prendere! Addosso amburghese!»
In due salti furono alle spalle del fuggiasco. Bastò un pugno di Wan Stiller per farlo cadere mezzo intontito.
«Presto il bavaglio!»
Carmaux si slacciò d’un colpo la fascia di lana rossa che gli stringeva i fianchi, e ravvolse intorno al viso del piantatore, non lasciandogli scoperto che il naso onde non morisse asfissiato.
«Prendilo per le braccia, amburghese, e lesti alla scialuppa. Per satanasso! I doganieri!»
«Buttiamolo in mezzo alle aiuole, Carmaux» disse l’amburghese.
Afferrarono il disgraziato piantatore e lo lasciarono cadere in mezzo ad un cespuglio di macupi le cui larghe foglie erano più che sufficienti per nasconderlo.
Si erano appena allontanati di pochi passi, quando una voce imperiosa gridò:
«Alt o facciamo fuoco».
Due uomini, due doganieri, erano balzati sul viale, dirigendosi velocemente verso i due avventurieri..
Uno era armato d’un archibugio, l’altro invece teneva in pugno un’alabarda.
«Siamo persone oneste» rispose Carmaux. «Dove andiamo? A prendere una boccata d’aria. Questo maledetto lago è così pieno di zanzare che non si può dormire».
«Chi ha gridato: Aiuto doganieri?»
«Un uomo che fuggiva, inseguito da un altro».
«Da quale parte?»
«Da quella».
«Voi mentite; veniamo appunto di là e non abbiamo veduto nessuno a fuggire».
«Mi sarò ingannato» rispose Carmaux, placidamente.
«M’avete un’aria sospetta, miei signori. Seguiteci al posto e consegnate, innanzi tutto, le vostre spade».
«Signor doganiere» disse Carmaux, con accento d’uomo offeso. «Non si arrestano due tranquilli cittadini che possono essere dei gentiluomini. Noi contrabbandieri! Per la morte di Belzebù volete scherzare?»
«Al posto di dogana e fuori le spade» ripeté il doganiere, alzando l’archibugio. «Si vedrà poi chi siete. Presto o faccio fuoco: è l’ordine».
«Folgore» disse Carmaux volgendosi verso l’amburghese e levando la spada come se si preparasse a consegnarla.
Appena l’ebbe in pugno, con una mossa fulminea si gettò da un lato, per non ricevere la scarica in pieno petto e vibrò al doganiere una puntata così terribile in mezzo al ventre, da passarlo da parte a parte.
Quasi nello stesso momento Wan Stiller, il quale certo si era messo in guardia per la parola pronunciata dal compagno che doveva avere un significato, si precipitava sul secondo doganiere, che era ben lungi dall’attendersi quell’improvviso attacco.
Con un rovescione spezzò netto il manico dell’alabarda, poi colla guardia della spada lo percosse tremendamente sul cranio, facendolo stramazzare al suolo mezzo accoppato.
I due spagnoli erano caduti l’uno sull’altro, senza aver avuto il tempo di mandare un grido.
«Bel colpo, Carmaux» disse l’amburghese.
«E di corsa. La fortuna non protegge due volte di seguito».
Volsero uno sguardo all’intorno e non vedendo nessuno, balzarono fra le aiuole e presero il piantatore per le gambe e le braccia, correndo poi verso la riva.
Don Raffaele, mezzo soffocato e anche mezzo morto di spavento, non aveva opposta alcuna resistenza, anzi non aveva nemmeno approfittato dell’intervento dei due doganieri per cercare di fuggire.
Presso la riva si trovava una di quelle scialuppe strettissime, chiamate baleniere, fornita d’un piccolo albero con un’antenna e di timone.
Carmaux e Wan Stiller vi salirono, deposero il piantatore fra i due banchi di mezzo, gli legarono le gambe e le braccia, lo copersero con un pezzo di vela, poi presero i remi e sciolsero l’ormeggio.
«È mezzanotte» disse Carmaux, dando uno sguardo alle stelle, «e la via è lunga. Non vi giungeremo prima di domani sera».
«Teniamoci sotto la riva: vi è la caravella che veglia al largo».
«Passeremo egualmente» rispose Carmaux. «Non inquietarti».
«Alziamo la vela?»
«Più tardi. Avanti e non fare troppo rumore».
La baleniera partì velocissima e silenziosa, rasentando la gettata, per tenersi all’ombra che proiettavano i filari delle altissime palme che si prolungavano per un buon tratto.
Nel porto tutto era silenzio. Le navi, ancorate qua e là, colle antenne e le vele calate sul ponte, erano deserte.
Gli spagnoli si credevano troppo sicuri in Maracaybo, per prendersi la briga di tenere uomini di guardia. Dopo l’ultima scorreria dei filibustieri della Tortue, guidati dall’Olonese, dal Corsaro Nero e dal Basco, avvenuta molti anni prima, avevano innalzati forti, che si credevano inespugnabili ed un gran numero di formidabili batterie, che collegavano i loro tiri fra la costa e le isolette davanti alla città.
I due avventurieri s’avanzavano con prudenza, non essendo permesso di notte di entrare nel porto e nemmeno di uscirne. Sapevano che al di là delle isolette una grossa caravella incrociava per impedire entrate sospette o fughe.
Quando la scialuppa raggiunse l’estremità della gettata, Carmaux e Wan Stiller deposero i remi ed issarono una piccola vela latina che era tinta in nero, affinché non la si potesse scorgere fra le tenebre.
Il vento era favorevole, soffiando dal lago e poi anche al di là sulla gettata, l’ombra continuava essendo la costa coperta da paletuvieri foltissimi e da palme mauritie assai alte.
«Sempre sotto?» chiese Wan Stiller, che si era collocato a poppa, alla barra del timone mentre Carmaux teneva la scotta.
«Sì, per ora».
«Vedi la caravella?»
«Sto cercandola».
«Che navighi coi fanali spenti?»
«Senza dubbio».
«Sarebbe un guaio se la trovassimo sulla nostra rotta».
«Ah! Eccola laggiù che sta girando la punta di quell’isoletta. Governa diritto. Non ci scorgeranno».
La baleniera, messasi al vento, cominciò a filare colla velocità di uno squalo, radendo sempre la spiaggia.
In quindici minuti raggiunse il promontorio che chiudeva verso settentrione il piccolo porto e che era guardato da un fortino costruito sulla cima d’una rupe, vi girò intorno senza che le sentinelle l’avessero scorta e si diresse verso il nord per attraversare lo stretto formato fra la penisoletta di Sinamaica da un lato e le isole di Tablazo e di Zapara dall’altro, onde raggiungere il golfo di Maracaybo.
Ormai non avevano più nulla da temere, potendo spacciarsi per pescatori o per canottieri.
«Gettiamo le nostre vesti e diventiamo marinai» disse Carmaux. «Nessuno sospetterà di noi».
Aprì una cassa che si trovava sotto la prora ed estrasse delle grosse casacche di panno grigio, delle fascie di lana e dei berretti terminanti a punta con grosso fiocco azzurro.
Legato il timone e la scotta, in pochi istanti si trasformarono, poi gettarono lungo i bordi alcune reti, lasciando cadere in acqua i sugheri.
«Vediamo come sta ora l’amico» disse Carmaux, quand’ebbe finito.
Levò la tela che copriva il disgraziato piantatore, poi lo sbarazzò della sciarpa che gli chiudeva la bocca.
Don Raffaele respirò a lungo, senza però aprire gli occhi.
«Il sonno è stato più forte della paura» disse l’avventuriero ridendo. «Quello Xeres e quell’Alicante erano proprio di prima qualità. Il capitano Morgan sarà ben lieto di questa cattura e penserà lui a far sciogliere la lingua al nostro prigioniero».
«Purché non muoia sul colpo, risvegliandosi nelle mani dei filibustieri» disse Wan Stiller.
«Prenderemo le nostre precauzioni onde non spaventarlo tutto d’un tratto».
«Avrebbe fatto meglio a spiattellare tutto ciò che sapeva intorno alla figlia del cavaliere di Ventimiglia».
«L’avrei rapito egualmente».
«Che cosa vuol farne Morgan di un abitante di Maracaybo?»
«Mio caro, potrà avere da questo imbecille delle preziose informazioni sul numero dei soldati che occupano i forti e dei cannoni che li armano».
«Dunque è risoluto ad assalire la piazza?»
«Ora più che mai!»
«Avremo un osso duro da rodere, mio caro Carmaux. Hai veduto che opere imponenti hanno innalzato gli spagnoli? Maracaybo non è più quella che era quando l’espugnammo col Corsaro Nero e con quel diavolo di Olonese».
«Siamo in buon numero e non ci mancano le artiglierie. I milioni di piastre che ricaveremo compenseranno largamente i rischi d’una simile impresa».
«Purché la flotta non venga scoperta».
«La baia di Amnay è ben coperta e nessuno scorgerà le nostre navi. D’altronde i nostri stanno in guardia e non si lasceranno sfuggire i curiosi e gli spioni».
Essendo il vento sempre favorevole e tendendo anzi a rinfrescare sempre più, avvicinandosi l’alba, la baleniera guadagnava via con crescente rapidità.
Graziosamente piegata sul tribordo, coll’estremità del pennone inferiore quasi a fior d’acqua, scivolava senza far rumore sulle tranquille acque dell’ampia laguna, lasciandosi a poppa una striscia di spuma fosforescente.