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Kitobni o'qish: «Il re del mare»

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Emilio Salgari
IL RE DEL MARE

PARTE PRIMA. La Malesia in fiamme

1. L’assalto della Marianna

– Dunque, si va avanti sì o no? Corpo di Giove! È impossibile che noi siamo caduti come tanti stupidi su un banco.

– È impossibile avanzare, signor Yanez.

– Che cos’è dunque che ci ha fermati?

– Non lo sappiamo ancora.

– Per Giove! Era ubriaco il pilota? Bella fama che si acquistano i malesi! Ed io che li avevo creduti, fino a stamane, i migliori marinai dei due mondi!

Sambigliong, fa’ spiegare dell’altra tela. Il vento è buono e chissà che non riusciamo a passare.

– Non faremo nulla, signor Yanez, perchè la marea cala rapidamente.

– Che il diavolo si porti all’inferno quell’imbecille di pilota!

L’uomo che così parlava, si era voltato bruscamente verso la poppa colla fronte aggrottata e il viso alterato da una collera violentissima. Quantunque avesse varcata, e forse di qualche anno, la cinquantina, era ancora un bell’uomo, aitante, con lunghi baffi grigiastri accuratamente arricciati, la pelle leggermente abbronzata, con lunghi capelli che gli sfuggivano al di sotto di un ampio cappello di paglia di Manilla, somigliante ad un sombrero messicano, adorno d’un gallone di velluto azzurro con nappine.

Vestiva con molta eleganza, di flanella bianca, con bottoni d’oro e portava alla cintura una larga fascia di velluto rosso, reggente un paio di pistole dalla canna lunga e rabescata ed il calcio con intarsi d’argento e di madreperla, armi senza dubbio di fabbrica indiana, e calzava alti stivali di mare, di pelle gialla, colla punta un po’ rialzata.

– Pilota! – gridò.

Un malese, dalla pelle quasi fuligginosa, con riflessi color del mattone, gli occhi un po’ obliqui che avevano un lampo giallastro che produceva uno strano effetto su chi lo vedeva, a quella chiamata, aveva abbandonata la ribolla del timone che fino allora aveva tenuta e si era accostato a Yanez con un fare sospettoso che tradiva una coscienza poco tranquilla.

– Padada, – disse l’europeo con voce secca, mentre appoggiava la destra sul calcio d’una delle due pistole. – Come va questa faccenda? Parmi avessi detto che conoscevi tutti i passi della costa bornese ed è solo per ciò che io ti ho imbarcato.

– Ma, signore… – balbettò il malese con aria imbarazzata.

– Che cosa vuoi dire? – chiese Yanez che forse, per la prima volta in vita sua, pareva avesse perduta la sua flemma abituale.

– Questo banco non esisteva prima.

– Briccone, vuoi tu che sia sorto stamane dal fondo del mare? Sei un imbecille! Tu hai dato un colpo falso di barra per arrestare la Marianna.

– A quale scopo, signore?

– Che ne so io? Potrebbe darsi che tu fossi d’accordo con quei misteriosi nemici che hanno sollevato i dayaki.

– Non ho avuto altri rapporti che coi miei compatriotti, signore.

– Credi che ci potremo disincagliare?

– Sì, all’alta marea.

– Vi sono molti dayaki sul fiume?

– Non credo.

– Sai che abbiano buone armi?

– Non ho veduto presso di loro che qualche fucile.

– Chi può essere stato a sollevarli? – borbottò Yanez. – Vi è un mistero qui sotto che io non riesco a spiegare, quantunque la Tigre della Malesia si ostini a vedere in tutto ciò la mano degli inglesi. Speriamo di giungere in tempo e di ricondurre Tremal-Naik e Darma a Mompracem, prima che i ribelli invadano le loro piantagioni e distruggano le loro fattorie. Vediamo se possiamo lasciare questo banco prima che la marea abbia raggiunto la sua massima altezza.

Volse le spalle al malese e si diresse verso prora, curvandosi sulla murata del castello.

La nave che aveva dato in secco, probabilmente in causa d’una falsa manovra, era uno splendido veliero a due alberi, costruito di certo da poco tempo a giudicarlo dalle sue linee ancora perfette, con due immense vele simili a quelle che portano i grossi prahos malesi. Doveva stazzare non meno di duecento tonnellate ed aveva un armamento da renderlo temuto anche a qualche piccolo incrociatore.

Infatti, aveva sul cassero due pezzi da caccia di buon calibro, protetti da una barricata mobile formata da due grosse lastre di acciaio congiunte ad angolo e sul castello di prora quattro lunghe e grosse spingarde, armi eccellenti per mitragliare i nemici, quantunque di corta portata.

Inoltre aveva un equipaggio numeroso, fin troppo per un legno così piccolo, formato da una quarantina di persone, malesi e dayaki, per la maggior parte attempati ma ancora solidi, dai visi fierissimi e con non poche cicatrici, ciò che indicava come quegli uomini fossero gente di mare e anche di guerra.

La nave si era arrestata all’entrata d’una vasta baia, entro cui sboccava un fiume che pareva abbondante d’acqua.

Numerose isole, fra cui una grandissima, riparavano la baia dai venti di ponente, tutte cinte di scogliere corallifere e di banchi e coperte da una vegetazione foltissima d’un bel verde intenso.

La Marianna si era arenata su uno di quei banchi che le acque nascondevano e che, in quel momento, cominciava ad apparire, continuando la marea ad abbassarsi.

La ruota di prora aveva toccato molto profondamente, in modo da rendere impossibile lo scagliamento col solo mezzo delle àncore gettate a poppavia e alate all’argano.

– Cane d’un pilota! – esclamò Yanez, dopo d’aver osservato attentamente il banco. – Non ce la caveremo prima di mezzanotte. Che cosa ne dici, Sambigliong?

Un malese che aveva il viso assai rugoso ed i capelli biancastri, e che tuttavia sembrava ancora robustissimo, si era accostato all’europeo:

– Dico, signor Yanez, che nessuna manovra riuscirebbe a toglierci di qui senza l’aiuto dell’alta marea.

– Hai fiducia in quel pilota?

– Non so, capitano, – rispose il malese, – non avendolo mai veduto prima d’ora. Nondimeno…

– Continua, – disse Yanez.

– Quello d’averlo trovato solo, così lontano da Gaya, in un canotto incapace di resistere ad un’ondata e di essersi subito offerto di guidarci, non mi pare chiaro.

– Che abbia commesso una imprudenza ad affidargli il timone? – si chiese Yanez, che era diventato pensieroso.

Poi, scuotendo il capo come se avesse voluto scacciare lungi da sè un pensiero importuno, aggiunse:

– Per quale scopo quell’uomo, che appartiene alla vostra razza, avrebbe cercato di perdere il migliore e più poderoso praho della Tigre della Malesia? Forse che noi non abbiamo sempre protetti gli indigeni bornesi contro le vessazioni degli inglesi? Forse che non abbiamo rovesciato James Brooke per ridare l’indipendenza ai dayaki di Sarawak?

– E perchè mai, signor Yanez, – disse Sambigliong – i dayaki della costa si sono messi in armi improvvisamente, contro i nostri amici? Eppure Tremal-Naik, creando fattorie su queste spiagge, che prima erano quasi deserte, ha dato loro il mezzo di guadagnarsi da vivere comodamente, senza correre i rischi della pirateria che li decimava.

– È un mistero questo, mio caro Sambigliong, che nè io nè Sandokan siamo ancora riusciti a spiegare. Questo improvviso scoppio d’ira contro Tremal-Naik deve avere una causa che per ora ci sfugge, ma certo qualcuno ha soffiato sul fuoco.

– Che Tremal-Naik e sua figlia Darma corrano un vero pericolo?

– Il messo che ci ha mandato a Mompracem ha detto che tutti i dayaki sono in armi e sembrano presi da una improvvisa pazzia, che tre delle fattorie sono state saccheggiate e poi incendiate e parlavano di massacrare Tremal-Naik.

– Eppure non c’è un uomo migliore di lui in tutta l’isola, – disse Sambigliong. – Non comprendo come quei furfanti guastino e saccheggino le sue proprietà.

– Ne sapremo qualche cosa quando giungeremo al kampong di Pangutaran. La comparsa della Marianna sul fiume calmerà un po’ i dayaki e se non deporranno le armi, li mitraglieremo come si meritano.

– E conosceremo le cause che li hanno indotti a sollevarsi.

– Oh! – esclamò ad un tratto Yanez, che aveva volti gli sguardi verso la foce del fiume. – Vi è qualcuno che pare voglia dirigersi verso di noi.

Un piccolo canotto, munito d’una vela, era sbucato dietro gli isolotti che ingombravano la foce del fiume ed aveva puntato la prora verso la Marianna.

Un solo uomo lo montava, ma era così lontano ancora da non poter distinguere se era un malese o un dayako.

– Chi può essere costui? – si chiese Yanez, che non lo perdeva di vista. – Guarda, Sambigliong, non ti sembra indeciso sulla sua manovra? Ora si dirige verso gli isolotti, ora se ne allontana per gettarsi verso le scogliere corallifere.

– Si direbbe che cerchi d’ingannare qualcuno sulla sua vera rotta, signor Yanez, – rispose Sambigliong. – Che sia sorvegliato e che cerchi d’ingannarli?

– Pare anche a me, – rispose l’europeo. – Va’a prendermi un cannocchiale e fa’ caricare una spingarda a palla. Se si cercherà d’intralciare la manovra di quell’uomo, il quale evidentemente mira a raggiungerci, faremo fuoco.

Un momento dopo puntava l’istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna.

Ad un tratto gli sfuggì un grido:

– Tangusa!

– Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sè da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore?

– Sì, Sambigliong.

– Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui, – disse il dayako.

– Non m’inganno: lo vedo benissimo. Oh!

– Che cosa avete, signore?

– Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l’ultima isola: la vedi?

Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un’imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati.

– Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik, – disse.

– Hai fatto caricare una spingarda?

– Tutte e quattro.

– Benissimo: aspettiamo un momento.

Il piccolo canotto che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L’uomo che la montava, accortosi di essere seguìto, aveva legata la barra del timone ed aveva preso due remi per accelerare maggiormente la corsa.

Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s’alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna.

– Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez, – disse Sambigliong.

– Ebbene mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi, – rispose l’europeo colla sua solita calma.

Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s’accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa.

La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, nonostante gli sforzi disperati dell’uomo che lo montava, perdeva via.

Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l’alzo.

Yanez, calmo, impassibile mirava sempre.

– È sulla linea, – mormorò dopo qualche minuto.

Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna s’infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia.

Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d’acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose.

– Presa, signor Yanez! – gridò Sambigliong.

– E fra poco affonderà, – rispose il portoghese.

I dayaki avevano interrotto l’inseguimento ed arrancavano disperatamente per raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse.

Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d’una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa.

Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall’isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d’acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo.

Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, perchè passano la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero.

– Salvatevi pure, – disse Yanez. – Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi.

Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercè quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque.

L’uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue.

– Che l’abbiano ferito? – si chiese Yanez. – Quel meticcio mi sembra assai sofferente. Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale.

Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un’ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero.

– Sali presto! – gridò Yanez.

Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione a una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda.

Un grido di sorpresa ed insieme d’orrore era sfuggito al portoghese.

Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue.

– Per Giove! – esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo.

– Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa?

– Le formiche bianche, signor Yanez, – rispose il malese con voce strozzata facendo un’orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava.

– Le formiche bianche! – esclamò il portoghese. – Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne?

– I dayaki, signor Yanez.

– Ah! Miserabili! Passa nell’infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente.

– Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki.

– Va bene, mettiti nelle mani di Kickatany che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Ora ho altro da fare.

Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolto la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi lilà, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo.

– Oh diavolo! – mormorò il portoghese. – Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche.

– Purchè non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez, – disse Sambigliong.

– Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l’audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse.

– Palle d’acciaio armate di punte? Sì, capitano Yanez.

– Falle portare in coperta e da’ ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati?

– Anche quelli.

– Falli gettare sulle impagliature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all’assalto li udremo a urlare come belve feroci. Pilota!

Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente.

– Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche?

– Non ne ho vedute che pochissime sul fiume, – rispose il malese.

– Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità?

– Non credo, padrone.

– Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale.

– Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po’ risentito:

– Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone.

– Vedremo in seguito, – rispose Yanez. – E ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.

2. Il pellegrino della Mecca

Se quel veliero appariva bellissimo all’esterno, tale da poter gareggiare coi più splendidi yachts di quell’epoca, l’interno, specialmente il quadro di poppa, era addirittura sfarzoso.

La sala centrale sopratutto, che serviva da pranzo e da ricevimento insieme, era ricchissima, con scaffali, tavola e sedie in mogano con intarsi di madreperla e filettature d’oro, con tappeti persiani in terra e arazzi indiani alle pareti e tende di seta rosa con frangie d’argento alle piccole finestre.

Una grande lampada, che pareva di Venezia, pendeva dal soffitto e tutto all’intorno, negli spazi nudi, si vedevano splendide collezioni d’armi di tutti i paesi.

Coricato su un divano di velluto verde, fasciato dal capo alle piante e avvolto in una grossa coperta di lana bianca, stava l’intendente di Tremal-Naik già medicato e rinforzato da qualche buon cordiale.

– Sono cessati i dolori, mio bravo Tangusa? – gli rispose Yanez.

– Kickatany possiede degli unguenti miracolosi, – rispose il ferito. – Mi ha spalmato tutto il corpo e ora mi sento molto meglio di prima.

– Raccontami come è successa la cosa. Innanzi tutto, è sempre al kampong di Pangutaran, l’amico Tremal-Naik?

– Sì, signor Yanez, e quando l’ho lasciato stava fortificandosi per resistere ai dayaki fino al vostro arrivo. Quando è giunto a Mompracem il messo che vi abbiamo spedito?

– Tre giorni or sono e come vedi noi non abbiamo perduto tempo ad accorrere col nostro miglior legno.

– Che cosa pensa la Tigre della Malesia di questa improvvisa insurrezione dei dayaki, che fino a tre settimane or sono guardavano il mio padrone come il loro buon genio?

– Abbiamo fatto insieme tante congetture e forse non abbiamo indovinato il vero motivo che ha deciso i dayaki a prendere le armi e a distruggere le fattorie che erano costate tante fatiche a Tremal-Naik. Sei anni di lavoro e più di centomila rupie spese forse inutilmente! Avete qualche sospetto?

– Ecco, signore, quanto abbiamo potuto sapere. Un mese fa e probabilmente anche prima, è sbarcato su queste coste un uomo che non sembra appartenere nè alla razza malese, nè a quella bornese, che si diceva fervente mussulmano e portava in testa il turbante verde come tutti coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca. Voi sapete, signore, che i dayaki di questa parte dell’isola non adorano i geni dei boschi, nè gli spiriti buoni e cattivi come i loro confratelli del sud e che sono invece mussulmani, a loro modo s’intende e non meno fanatici di quelli dell’India centrale. Che cosa abbia dato ad intendere quell’uomo a questi selvaggi, nè io nè il mio padrone siamo riusciti a saperlo. Il fatto è che riuscì a fanatizzarli ed indurli a distruggere le fattorie ed a ribellarsi all’autorità del signor Tremal-Naik.

– Ma che istoria mi racconti tu! – esclamò Yanez, che era al colmo della sorpresa.

– Una storia tanto vera, signor Yanez, che il mio padrone corre il pericolo di morire abbruciato nel suo kampong assieme alla signorina Darma, se voi non accorrete in suo aiuto.

– L’uomo dal turbante verde ha aizzato quei selvaggi non solo contro le fattorie…

– Anche contro il mio padrone e vogliono la sua testa, signor Yanez.

Il portoghese era diventato pallido.

– Chi potrà essere quel pellegrino? Quale misterioso motivo lo spinge contro Tremal-Naik? L’hai visto tu?

– Sì, mentre scappavo dalle mani dei dayaki.

– È giovane, vecchio…

– Vecchio, signore, alto di statura e magrissimo, un tipo da vero pellegrino che ha fame e sete. E vi è di più ancora che aggrava il mistero, – aggiunse il meticcio. – Mi hanno detto che due settimane or sono è giunta qui una nave a vapore che portava la bandiera inglese e che il pellegrino ha avuto un lungo colloquio con quel comandante.

– È partita subito quella nave?

– La mattina seguente ed ho il sospetto che, durante la notte, abbia sbarcato delle armi, perchè ora non pochi dayaki posseggono dei moschetti e anche delle pistole, mentre prima non avevano che delle cerbottane e delle sciabole.

– Che gli inglesi c’entrino in tutta questa faccenda? – si domandò Yanez, che appariva molto preoccupato.

– Possibile, signor Yanez!

– Sai la voce che corre a Labuan? Che il governo inglese abbia intenzione di occupare la nostra isola di Mompracem col pretesto che noi costituiamo un pericolo costante per la sua colonia e di mandarci a occupare qualche altra terra più lontana.

– Gli inglesi che devono a voi tanta riconoscenza, per averli sbarazzati dei thugs che infestavano l’India!

– Mio caro, credi tu che un leopardo possa avere della riconoscenza verso una scimmia, supponiamo, che l’ha sbarazzato degli insetti che lo tormentavano?

– No, signore, quei carnivori non hanno quel sentimento.

– E non ne avrà nemmeno il governo inglese che viene chiamato il leopardo dell’Europa.

– E voi vi lascerete cacciare da Mompracem?

Un sorriso comparve sulle labbra di Yanez. Accese una sigaretta, aspirò due o tre boccate di fumo, poi disse con voce calma:

– Non sarebbe già la prima volta che le tigri di Mompracem si mettono in guerra col leopardo inglese. Un giorno hanno tremato e Labuan ha corso il pericolo di vedere i suoi coloni divorati da noi o cacciati in acqua. Non ci lasceremo nè sorprendere, nè sopraffare.

– Sandokan ha mandato dei suoi prahos a Tiga ad arruolare uomini? – chiese il meticcio.

– Che non varranno meno per coraggio, delle ultime tigri di Mompracem – rispose Yanez. – L’Inghilterra ci vuole scacciare dalla nostra isola, che da trent’anni occupiamo? Si provi e noi metteremo la Malesia intera in fiamme e daremo battaglia, senza quartiere, all’insaziabile leopardo inglese. Vedremo se sarà la Tigre della Malesia che soccomberà nella lotta.

In quel momento si udì la voce di Sambigliong, il mastro della Marianna, a gridare:

– In coperta, capitano!

– Giungi in buon punto, malese mio, – rispose Yanez. – Ho appena terminato ora il mio colloquio con Tangusa. Che cosa c’è di nuovo?

– S’avanzano.

– I dayaki?

– Sì, capitano.

– Va bene.

Il portoghese uscì dal quadro, salì la scala e giunse in coperta. Il sole stava allora per tramontare in mezzo ad una nuvola d’oro, tingendo di rosso il mare, che la brezza lievemente corrugava.

La Marianna era sempre immobile, anzi essendo quello il momento della massima marea bassa, si era un po’ coricata sul fianco di babordo, in maniera che la coperta rimaneva sbandata.

Verso le isolette che facevano argine all’irrompere del fiume, una dozzina di grossi canotti, fra cui quattro doppi, s’avanzava lentamente verso il mezzo della baia, preceduta da un piccolo praho che era armato d’un mirim, un pezzo d’artiglieria un po’ più grosso dei lilà, quantunque fuso allo stesso modo, con ottone grossolano, rame e piombo.

– Ah! – fece Yanez, colla sua solita flemma. – Vogliono misurarsi con noi? Benissimo, avremo polvere in abbondanza da regalare, è vero Sambigliong?

– La provvista è copiosa, capitano, – rispose il malese.

– Noto che s’avanzano molto adagio. Pare che non abbiano nessuna fretta, mio caro Sambigliong!

– Aspettano che la notte scenda.

– Prima che la luce se ne fugga vediamo che musi sono. – Prese il cannocchiale e lo puntò sul piccolo praho che precedeva sempre la flottiglia delle scialuppe.

Vi erano quindici o venti uomini a bordo, che indossavano l’abito guerresco; pantaloni stretti, abbottonati all’anca e al collo dei piedi, sarong cortissimo, in testa il tudung, un curioso berretto con lunga visiera e molte piume. Alcuni erano armati di fucile; i più avevano invece dei kampilang, quelle pesanti sciabole a doccia d’un acciaio finissimo, dei pisau-raut, ossia specie di pugnali dalla lama larga e non serpeggiante come i kriss malesi, e avevano dei grandi scudi di pelle di bufalo di forma quadrata.

– Bei tipi, – disse Yanez colla sua solita calma.

– Sono molti, signore.

– Ouff! Un centinaio e mezzo, mio caro Sambigliong.

Si volse guardando la tolda della Marianna.

I suoi quaranta uomini erano tutti ai loro posti di combattimento. Gli artiglieri dietro ai due cannoni da caccia e alle quattro spingarde, i fucilieri dietro alle murate i cui bordi erano coperti di fasci di spine acutissime e gli uomini di manovra, che pel momento non avevano nulla da fare essendo il veliero sempre arenato, sulle coffe muniti di bombe da lanciare a mano e armati di carabine indiane di lunga portata.

– Vengano a trovarci! – mormorò, visibilmente soddisfatto degli ordini impartiti da Sambigliong.

Il sole stava per scomparire, diffondendo i suoi ultimi raggi e bagnando di luce aurea o rossastra le coste dell’immensa isola e le scogliere contro cui si frangevano rumoreggiando le onde che venivano dal largo.

Il grande globo incandescente calava superbamente in acqua, incendiando un gran ventaglio di nubi al di sopra delle quali s’innalzavano grandi zone d’oro e lembi ampi di porpora, smaglianti sull’azzurro chiaro del cielo.

Finalmente s’immerse, quasi bruscamente, infiammando per alcuni istanti tutto l’orizzonte, poi quell’onda di luce si attenuò rapidamente, non essendovi crepuscoli sotto quelle latitudini, la grande fantasmagoria solare si estinse e le tenebre piombarono avvolgendo la baia, le isole e le coste bornesi.

– Buona notte per gli altri e cattiva per noi, – disse Yanez, che non aveva potuto fare a meno di contemplare quello splendido tramonto.

Guardò la flottiglia nemica. Il piccolo praho, le doppie scialuppe e quelle semplici affrettavano la corsa.

– Siamo pronti? – chiese Yanez.

– Sì, – rispose Sambigliong per tutti.

– Allora, Tigrotti di Mompracem, non vi trattengo più.

Il piccolo praho era a buon tiro e copriva le scialuppe che lo seguivano in fila, l’una dietro all’altra, per non esporsi al fuoco delle artiglierie della Marianna.

Sambigliong si curvò su uno dei due pezzi da caccia piazzati sul cassero che erano montati su perni giranti onde potessero far fuoco in tutte le direzioni e, dopo aver mirato per qualche istante, fece fuoco, spezzando netto l’albero di trinchetto, il quale cadde sul ponte assieme all’immensa vela.

A quel colpo veramente meraviglioso, urla furiose s’alzarono sulle scialuppe, poi la prora del legno mutilato a sua volta avvampò.

Il mirim del piccolo veliero aveva risposto al fuoco della Marianna, ma la palla, male diretta, non aveva fatto altro danno che quello di forare il contro fiocco che Yanez non aveva fatto ammainare.

– Quei bricconi tirano come i coscritti del mio paese, – disse Yanez, che continuava a fumare placidamente, appoggiato alla murata di prora.

A quel secondo sparo tenne dietro una serie di detonazioni secche. Erano i lilà delle doppie scialuppe che appoggiavano il fuoco del piccolo praho.

Quei cannoncini non erano fortunatamente ancora a buon tiro e tutto finì in molto baccano e molto fumo senza nessun danno per la Marianna.

– Demolisci il praho, innanzi tutto, Sambigliong, – disse Yanez, – e cerca di smontare il mirim che è il solo che possa danneggiarci. Sei uomini ai due pezzi da caccia e accelerate il fuoco più…

Si era bruscamente interrotto ed aveva lanciato un rapido sguardo verso poppa. Ad un tratto trasalì e fece un gesto di sorpresa.

– Sambigliong! – esclamò, impallidendo.

– Non temete, signor Yanez, il praho fra due minuti sarà fracassato o per lo meno rasato come un pontone.

– È il pilota che non vedo più.

– Il pilota! – esclamò il malese lasciando il pezzo di caccia che era già puntato. – Dov’è quel briccone?

Yanez aveva attraversata rapidamente la tolda, in preda ad una visibile emozione.

– Cerca il pilota! – gridò.

– Capitano, – disse un malese che era al servizio dei due pezzi di poppa, – l’ho veduto or ora scendere nel quadro.

Sambigliong, che forse aveva avuto il medesimo sospetto del portoghese, si era già precipitato giù per la scaletta, impugnando una pistola. Yanez lo aveva subito seguìto mentre i due cannoni da caccia tuonavano contro la flottiglia, con un rimbombo assordante.

– Ah! cane! – udì gridare.

Sambigliong aveva afferrato il pilota che stava per uscire da una cabina, tenendo in mano un pezzo di corda incatramata accesa.

– Che cosa facevi, miserabile? – urlò Yanez precipitandosi a sua volta sul malese che tentava di opporre resistenza al mastro.

Il pilota, vedendo il comandante che aveva pure impugnata una pistola e che pareva pronto a fargli scoppiare la testa, era diventato grigiastro, ossia pallido, pure rispose con una certa calma:

– Signore, sona disceso per cercare una miccia per le spingarde…

– Qui, le micce! – gridò Yanez. – Tu, briccone, cercavi d’incendiarci la nave!

– Io!

– Sambigliong, lega quest’uomo! – comandò il portoghese. – Quando avremo battuto i dayaki avrà da fare con noi.

– Non occorrono corde, signor Yanez, – rispose il mastro. – Lo faremo dormire per una dozzina d’ore, senza che ci dia alcun fastidio.

Afferrò brutalmente per le spalle il pilota che non cercava più di opporre resistenza, e gli compresse coi pollici tesi la nuca, poi gli affondò nel collo, un po’ al disotto degli angoli mascellari, gli indici ed i medi in modo da stringergli le carotidi contro la colonna vertebrale. Allora si vide una cosa assolutamente strana. Padada stralunò gli occhi e spalancò la bocca come se si fosse manifestato un principio d’asfissia, la respirazione gli divenne improvvisamente affannosa, poi rovesciò il capo indietro e s’abbandonò fra le braccia del mastro, come se la morte lo avesse colto.

– L’hai ucciso! – esclamò Yanez.

– No, signore, – rispose Sambigliong. – L’ho addormentato e prima di dodici o quindici ore non si sveglierà.

– Dici davvero?

– Lo vedrete più tardi.

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30 avgust 2016
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