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Kitobni o'qish: «Il Corsaro Nero»

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Emilio Salgari
IL CORSARO NERO

CAPITOLO I. I FILIBUSTIERI DELLA TORTUE

Una voce robusta, che aveva una specie di vibrazione metallica, s’alzò dal mare ed echeggiò fra le tenebre, lanciando queste parole minacciose:

– Uomini del canotto! Alt! o vi mando a picco!…

La piccola imbarcazione, montata da due soli uomini, che avanzava faticosamente sui flutti color inchiostro, fuggendo l’alta sponda che si delineava confusamente sulla linea dell’orizzonte, come se da quella parte temesse un grave pericolo, s’era bruscamente arrestata.

I due marinai, ritirati rapidamente i remi, si erano alzati d’un sol colpo, guardando con inquietudine dinanzi a loro, e fissando gli sguardi su di una grande ombra, che pareva fosse improvvisamente emersa dai flutti.

Erano entrambi sulla quarantina, ma dai lineamenti energici e angolosi, resi piú arditi dalle barbe folte, irte, e che forse mai avevano conosciuto l’uso del pettine e della spazzola.

Due ampi cappelli di feltro, in piú parti bucherellati e con le tese sbrindellate, coprivano le loro teste; camicie di flanella lacerate e scolorite, e prive di maniche, riparavano malamente i loro robusti petti, stretti alla cintura da fasce rosse, del pari ridotte in stato miserando, ma sostenenti un paio di grosse e pesanti pistole che si usavano verso la fine del sedicesimo secolo. Anche i loro corti calzoni erano laceri, e le gambe ed i piedi, privi di scarpe, erano imbrattati di fango nerastro.

Quei due uomini che si sarebbero potuti scambiare per due evasi da qualche penitenziario del Golfo del Messico, se in quel tempo fossero esistiti quelli fondati piú tardi alle Guiane, vedendo quella grande ombra che spiccava nettamente sul fondo azzurro cupo dell’orizzonte, fra lo scintillio delle stelle, si scambiarono uno sguardo inquieto.

– Guarda un po’, Carmaux, – disse colui che pareva il piú giovane. – Guarda bene, tu che hai la vista piú acuta di me. Sai che si tratta di vita o di morte.

– Vedo che è un vascello e sebbene non sia lontano piú di tre tiri di pistola non saprei dire se viene dalla Tortue o dalle colonie spagnole.

– Che siano amici?… Uhm! Osare spingersi fin qui, quasi sotto i cannoni dei forti, col pericolo d’incontrare qualche squadra di navi d’alto bordo scortante qualche galeone pieno d’oro!…

– Comunque sia ci hanno veduti, Wan Stiller, e non ci lasceranno fuggire. Se lo tentassimo, un colpo di mitraglia sarebbe sufficiente a mandarci tutti e due a casa di Belzebú.

La stessa voce di prima, potente e sonora, echeggiò per la seconda volta fra le tenebre, perdendosi lontana sulle acque del golfo:

– Chi vive?

– Il diavolo, – borbottò colui che si chiamava Wan Stiller.

Il compagno invece salí sul banco e con quanta voce aveva gridò:

– Chi è l’audace che vuol sapere da qual paese veniamo noi?… Se la curiosità lo divora, venga da noi e gliela pagheremo a colpi di pistola.

Quella smargiassata, invece di irritare l’uomo che interrogava dal ponte della nave, parve che lo rendesse lieto, poiché rispose:

– I valorosi s’avanzino e vengano ad abbracciare i Fratelli della Costa!…

I due uomini del canotto avevano mandato un grido di gioia.

– I Fratelli della Costa! – avevano esclamato.

Poi colui che si chiamava Carmaux aggiunse:

– Il mare m’inghiotta, se non ho conosciuta la voce che ci ha data questa bella nuova.

– Chi credi che sia? – chiese il compagno, che aveva ripreso il remo manovrandolo con supremo vigore.

– Un uomo solo, fra tutti i valorosi della Tortue, può osare spingersi fino sotto i forti spagnuoli.

– Chi?…

– Il Corsaro Nero.

– Tuoni d’Amburgo!… Lui!… Proprio lui!…

– Che triste notizia per quell’audace marinaio!… – mormorò Carmaux con un sospiro. – Ed è proprio morto!…

– Mentre lui forse sperava di giungere in tempo per strapparlo vivo dalle mani degli spagnuoli, è vero, amico?

– Si, Wan Stiller.

– Ed è il secondo che gli appiccano!…

– Il secondo, sí. Due fratelli, e tutti e due appesi alla forca infame!

– Si vendicherà, Carmaux.

– Lo credo, e noi saremo con lui. Il giorno che vedrò strangolare quel dannato governatore di Maracaibo, sarà il piú bello della mia vita e darò fine ai due smeraldi che tengo cuciti nei miei pantaloni. Saranno almeno mille piastre che mangerò coi camerati.

– Ah!… Ci siamo!… Te lo dicevo io? È la nave del Corsaro Nero!…

Il vascello, che poco prima non si poteva ben discernere in causa della profonda oscurità, non si trovava allora che a mezza gomena dal piccolo canotto.

Era uno di quei legni da corsa che adoperavano i filibustieri della Tortue per dare la caccia ai grossi galeoni spagnuoli, recanti in Europa i tesori dell’America Centrale, del Messico e delle regioni equatoriali.

Buoni velieri, muniti d’alta alberatura per potere approfittare delle brezze piú leggere, colla carena stretta, la prora e la poppa soprattutto altissime come si usavano in quell’epoca, e formidabilmente armati.

Dodici bocche da fuoco, dodici caronade, sporgevano le loro nere gole dai sabordi, minacciando a babordo ed a tribordo, mentre sull’alto cassero si allungavano due grossi cannoni da caccia, destinati a spazzare i ponti a colpi di mitraglia.

Il legno corsaro si era messo in panna per attendere il canotto, ma sulla prora si vedevano, alla luce d’un fanale, dieci o dodici uomini armati di fucili, i quali parevano pronti a far fuoco al minimo sospetto.

I due marinai del canotto, giunti sotto il bordo del veliero, afferrarono una fune che era stata loro gettata insieme ad una scala di corda, assicurarono l’imbarcazione, ritirarono i remi, poi si issarono sulla coperta con un’agilità sorprendente.

Due uomini, entrambi muniti di fucili, puntarono su di essi le armi, mentre un terzo si avvicinava, proiettando sui nuovi arrivati la luce d’una lanterna.

– Chi siete? – fu chiesto loro.

– Per Belzebú, mio patrono!… – esclamò Carmaux. – Non si conoscono piú gli amici?…

– Un pesce-cane mi mangi se questi non è il biscaglino Carmaux!… – gridò l’uomo della lanterna. – Come sei ancora vivo, mentre alla Tortue ti si credeva morto?… Toh!… Un altro risuscitato!… Non sei tu l’amburghese Wan Stiller?…

– In carne ed ossa, – rispose questi.

– Anche tu adunque sei sfuggito al capestro?…

– Eh!… La morte non mi voleva ed io ho pensato che era meglio vivere qualche anno ancora.

– Ed il capo?…

– Silenzio, – disse Carmaux.

– Puoi parlare: è morto?

– Banda di corvi!… Avete finito di gracchiare?… – gridò la voce metallica, che aveva lanciata quella frase minacciosa agli uomini del canotto.

– Tuoni d’Amburgo!… Il Corsaro Nero!… – borbottò Wan Stiller, con un brivido.

Carmaux, alzando la voce, rispose:

– Eccomi comandante.-

Un uomo era sceso allora dal ponte di comando e si dirigeva verso di loro, con una mano appoggiata al calcio d’una pistola che pendevagli dalla cintola.

Era vestito completamente di nero e con una eleganza che non era abituale fra i filibustieri del grande Golfo del Messico, uomini che si accontentavano di un paio di calzoni e d’una camicia, e che curavano piú le loro armi che gli indumenti.

Portava una ricca casacca di seta nera, adorna di pizzi di eguale colore, coi risvolti di pelle egualmente nera; calzoni pure di seta nera, stretti da una larga fascia frangiata; alti stivali alla scudiera e sul capo un grande cappello di feltro, adorno d’una lunga piuma nera che gli scendeva fino alle spalle.

Anche l’aspetto di quell’uomo aveva, come il vestito, qualche cosa di funebre, con quel volto pallido, quasi marmoreo, che spiccava stranamente fra le nere trine del colletto e le larghe tese del cappello, adorno d’una barba corta, nera, tagliata alla nazzarena e un pò arricciata.

Aveva però i lineamenti bellissimi: un naso regolare, due labbra piccole e rosse come il corallo, una fronte ampia solcata da una leggera ruga che dava a quel volto un non so che di malinconico, due occhi poi neri come carbonchi, d’un taglio perfetto, dalle ciglia lunghe, vivide e animate da un lampo tale che in certi momenti doveva sgomentare anche i piú intrepidi filibustieri di tutto il golfo.

La sua statura alta, slanciata, il suo portamento elegante, le sue mani aristocratiche, lo faceva conoscere, anche a prima vista, per un uomo d’alta condizione sociale e soprattutto per un uomo abituato al comando.

I due uomini del canotto, vedendolo avvicinarsi, si erano guardati in viso con una certa inquietudine, mormorando:

– Il Corsaro Nero!

– Chi siete voi e da dove venite? – chiese il Corsaro, fermandosi dinanzi a loro e tenendo sempre la destra sul calcio della pistola.

– Noi siamo due filibustieri della Tortue, due Fratelli della Costa, – rispose Carmaux.

– E venite?

– Da Maracaybo.

– Siete fuggiti dalle mani degli spagnuoli?

– Sí, comandante.

– A qual legno appartenevate?

– A quello del Corsaro Rosso. —

Il Corsaro Nero udendo quelle parole trasalí, poi stette un istante silenzioso, guardando i due filibustieri con due occhi che pareva mandassero fiamme.

– Al legno di mio fratello, – disse poi, con un tremito nella voce.

Afferrò bruscamente Carmaux per un braccio e lo condusse verso poppa, traendolo quasi a forza.

Giunto sotto il ponte di comando, alzò il capo verso un uomo che stava ritto lassú, come se attendesse qualche ordine, e disse:

– Incrocierete sempre al largo, signor Morgan; gli uomini rimangano sotto le armi e gli artiglieri con le micce accese; mi avvertirete di tutto ciò che può succedere.

– Sí, comandante, – rispose l’altro. – Nessuna nave o scialuppa si avvicinerà, senza che ne siate avvertito.

Il Corsaro Nero scese nel quadro, tenendo sempre Carmaux per il braccio, entrò in una piccola cabina ammobiliata con molta eleganza ed illuminata da una lampada dorata, quantunque a bordo delle navi filibustiere fosse proibito, dopo le nove di sera, di tenere acceso qualsiasi lume, quindi indicando una sedia disse brevemente:

– Ora parlerai.

– Sono ai vostri ordini, comandante. -

Invece d’interrogarlo, il Corsaro si era messo a guardarlo fisso, tenendo le braccia incrociate sul petto. Era diventato piú pallido del solito, quasi livido, mentre il petto gli si sollevava sotto frequenti sospiri.

Due volte aveva aperto le labbra come per parlare, e poi le aveva richiuse come se avesse paura di fare una domanda, la cui risposta doveva forse essere terribile.

Finalmente, facendo uno sforzo, chiese con voce sorda:

– Me l’hanno ucciso, è vero?

– Chi?

– Mio fratello, colui che chiamavano il Corsaro Rosso.

– Sí, comandante, – rispose Carmaux, con un sospiro. – Lo hanno ucciso come vi hanno spento l’altro fratello, il Corsaro Verde. —

Un grido rauco che aveva qualche cosa di selvaggio, ma nello stesso tempo straziante, uscí dalle labbra del comandante.

Carmaux lo vide impallidire orribilmente e portarsi una mano sul cuore, e poi lasciarsi cadere su di una sedia, nascondendosi il viso colla larga tesa del cappello.

Il Corsaro rimase in quella posa alcuni minuti, durante i quali il marinaio del canotto lo udí singhiozzare, poi balzò in piedi come se si fosse vergognato di quell’atto di debolezza. La tremenda emozione che lo aveva preso era completamente scomparsa; il viso era tranquillo, la fronte serena, il colorito non piú marmoreo di prima, ma lo sguardo era animato da un lampo cosí tetro che metteva paura.

Fece due volte il giro della cabina come se avesse voluto tranquillarsi interamente prima di continuare il dialogo, poi tornò a sedersi, dicendo:

– Io temevo di giungere troppo tardi, ma mi resta la vendetta. L’hanno fucilato?

– Appiccato, signore.

– Sei certo di questo?

– L’ho veduto coi miei occhi pendere dalla forca eretta sulla Plaza de Granada.

– Quando l’hanno ucciso?

– Quest’oggi, dopo il mezzodí.

– È morto?…

– Da prode, signore. Il Corsaro Rosso non poteva morire diversamente, anzi…

– Continua.

– Quando il laccio stringeva, ebbe ancora la forza d’animo di sputare in faccia al governatore.

– A quel cane di Wan Guld?

– Sí, al duca fiammingo.

– Ancora lui! Sempre lui!… Ha giurato adunque un odio feroce contro di me? Un fratello ucciso a tradimento e due appiccati da lui!

– Erano i due piú audaci corsari del golfo, signore, è quindi naturale che li odiasse.

– Ma mi rimane la vendetta!… – gridò il filibustiere con voce terribile. – No, non morrò se prima non avrò sterminato quel Wan Guld e tutta la sua famiglia e dato alle fiamme la città ch’egli governa. Maracaybo, tu mi sei stata fatale; ma io pure sarò fatale a te!… Dovessi fare appello a tutti i filibustieri della Tortue ed a tutti i bucanieri di San Domingo e di Cuba, non lascerò pietra su pietra di te! Ora parla, amico: narrami ogni cosa. Come vi hanno presi?.

– Non ci hanno presi colla forza delle armi bensí sorpresi a tradimento quando eravamo inermi, comandante.

Come voi sapevate, vostro fratello si era diretto su Maracaybo per vendicare la morte del Corsaro Verde, avendo giurato, al pari di voi, di appiccare il duca fiammingo.Eravamo in ottanta, tutti risoluti e decisi ad ogni evento, anche ad affrontare una squadra, ma avevamo fatto i conti senza il cattivo tempo.All’imboccatura del Golfo di Maracaybo, un uragano tremendo ci sorprende, ci caccia sui bassi fondi e le onde furiose frantumano la nostra nave. Ventisei soli, dopo infinite fatiche, riescono a raggiungere la costa: eravamo tutti in condizioni cosí deplorevoli da non opporre la minima resistenza e sprovvisti di qualsiasi arma.Vostro fratello ci incoraggia e ci guida lentamente attraverso le paludi, per tema che gli spagnuoli ci avessero scorti, e che avessero incominciato ad inseguirci.Credevamo di poter trovare un rifugio sicuro nelle folte foreste, quando cademmo in una imboscata. Trecento spagnuoli, guidati da Wan Guld in persona, ci piombano addosso, ci chiudono in un cerchio di ferro, uccidono quelli che oppongono resistenza e ci conducono prigionieri a Maracaybo.

– E mio fratello era del numero?

– Sí, comandante. Quantunque fosse armato d’un pugnale, si era difeso come un leone, preferendo morire sul campo piuttosto che sulla forca, ma il fiammingo l’aveva riconosciuto ed invece di farlo uccidere con un colpo di fucile o di spada, l’aveva fatto risparmiare. Trascinati a Maracaybo, dopo di essere stati maltrattati da tutti i soldati ed ingiuriati dalla popolazione, fummo condannati alla forca. Ieri mattina però, io ed il mio amico Wan Stiller, piú fortunati dei nostri compagni, siamo riusciti a fuggire strangolando la nostra sentinella. Dalla capanna di un indiano presso il quale ci siamo rifugiati, abbiamo assistito alla morte di vostro fratello e dei suoi coraggiosi filibustieri, poi alla sera aiutati da un negro ci siamo imbarcati su di un canotto, decisi di attraversare il golfo del Messico e giungere alla Tortue. Ecco tutto, comandante.

– E mio fratello è morto!… – disse il Corsaro con una calma terribile.

– L’ho veduto come vedo ora voi.

– E sarà ancora appeso alla forca infame?

– Vi rimarrà tre giorni.

– E poi verrà gettato in qualche fogna.

– Certo comandante.-

Il Corsaro si era bruscamente alzato e si era avvicinato al filibustiere.

– Hai paura tu?… – gli chiese con strano accento.

– Nemmeno di Belzebú, comandante.

– Dunque tu non temi la morte?

– No.

– Mi seguiresti?

– Dove?

– A Maracaybo.

– Quando?

– Questa notte.

– Si va ad assalire la città?

– No, non siamo in numero sufficiente ora, ma piú tardi Wan Guld riceverà mie nuove. Ci andremo noi due ed il tuo compagno.

– Soli? – chiese Carmaux, con stupore.

– Noi soli.

– Ma che volete fare?

– Prendere la salma di mio fratello.

– Badate comandante! Correte il pericolo di farvi prendere.

– Tu sai chi è il Corsaro Nero?

– Lampi e folgori! È il filibustiere piú audace della Tortue.

– Va’ adunque ad aspettarmi sul ponte e fa preparare una scialuppa.

– È inutile, capitano, abbiamo il nostro canotto, una vera barca da corsa.

– Va’!

CAPITOLO II. UNA SPEDIZIONE AUDACE

Carmaux si era affrettato ad obbedire, sapendo che col formidabile Corsaro era pericoloso indugiare.

Wan Stiller lo attendeva dinanzi al boccaporto, in compagnia del mastro d’equipaggio e d’alcuni filibustieri, i quali lo interrogavano sulla disgraziata fine del Corsaro Rosso e del suo equipaggio, manifestando terribili propositi di vendetta contro gli spagnuoli di Maracaybo e soprattutto contro il governatore. Quando l’amburghese apprese che si doveva preparare il canotto per fare ritorno alla costa, dalla quale si erano allontanati precipitosamente per un vero miracolo, non poté nascondere il suo stupore e la sua apprensione.

– Tornare ancora laggiú!… – esclamò. – Ci lasceremo la pelle, Carmaux.

– Bah!… Non ci andremo soli questa volta.

– Chi ci accompagnerà dunque?

– Il Corsaro Nero.

– Allora non ho piú timori. Quel diavolo d’uomo vale cento filibustieri.

– Ma verrà solo.

– Non conta, Carmaux; con lui non vi è da temere. E rientreremo in Maracaybo?…

– Sí, mio caro, e saremo bravi se condurremo a buon fine l’impresa. Ehi, mastro, fà gettare nel canotto tre fucili, delle munizioni, un paio di sciabole d’arrembaggio per noi due, e qualche cosa da mettere sotto i denti. Non si sa mai ciò che può succedere e quando potremo tornare.

– È già fatto, – rispose il mastro. – Non mi sono dimenticato nemmeno il tabacco.

– Grazie, amico. Tu sei la perla dei mastri.

– Eccolo, – disse in quell’istante Wan Stiller.

Il Corsaro era comparso sul ponte. Indossava ancora il suo funebre costume, ma si era appesa al fianco una lunga spada, ed alla cintura un paio di grosse pistole ed uno di quegli acuti pugnali spagnuoli chiamati misericordie. Sul braccio portava un ampio ferraiuolo, nero come il vestito.

S’avvicinò all’uomo che stava sul ponte di comando e che doveva essere il comandante in seconda, scambiò con lui alcune parole, poi disse brevemente ai due filibustieri:

– Partiamo.

– Siamo pronti – rispose Carmaux.

Scesero tutti e tre nel canotto che era stato condotto sotto la poppa e già provvisto d’armi e di viveri. Il Corsaro si avvolse nel suo ferraiuolo e si sedette a prora, mentre i filibustieri, afferrati i remi, ricominciarono con grande lena la faticosa manovra.

La nave filibustiera aveva subito spento i fanali di posizione e, orientate le vele, si era messa a seguire il canotto, correndo bordate, onde non precederlo. Probabilmente il comandante in seconda voleva scortare il suo capo fin presso la costa per proteggerlo nel caso d’una sorpresa.

Il Corsaro, semisdraiato a prora, col capo appoggiato ad un braccio, stava silenzioso, ma il suo sguardo, acuto come quello di un’aquila, percorreva attentamente il fosco orizzonte, come se cercasse discernere la costa americana che le tenebre nascondevano.

Di tratto in tratto volgeva il capo verso la sua nave che sempre lo seguiva, ad una distanza di sette od otto gomene, poi tornava a guardare verso il sud.

Wan Stiller e Carmaux intanto arrancavano di gran lena, facendo volare, sui neri flutti, il sottile e svelto canotto. Né l’uno né l’altro parevano preoccupati di ritornare verso quella costa, popolata dai loro implacabili nemici, tanta era la fiducia che avevano nell’audacia e nella valentia del formidabile Corsaro, il cui solo nome bastava a spargere il terrore in tutte le città marittime del grande golfo messicano. Il mare interno di Maracaybo, essendo liscio come se fosse di olio, permetteva alla veloce imbarcazione di avanzare senza troppo affaticare i due rematori. Non essendovi in quel luogo, racchiuso fra due capi che lo proteggono dalle larghe ondate del Grande Golfo, coste ripide, non vi sono flutti di fondo, sicché è rado che l’acqua là entro si sconvolga.

I due filibustieri arrancavano da un’ora, quando il Corsaro Nero, che fino allora aveva mantenuto una immobilità quasi assoluta, si alzò bruscamente in piedi, come se volesse abbracciare collo sguardo maggiore orizzonte.

Un lume, che non si poteva confondere con una stella, brillava a fior d’acqua, verso il sud-ovest, ad intervalli d’un minuto.

– Maracaybo, – disse il Corsaro, con accento cupo, che tradiva un impeto di sordo furore.

– Sí, – rispose Carmaux, che si era voltato.

– Quanto distiamo?

– Forse tre miglia, capitano.

– Allora a mezzanotte noi vi saremo.

– Sí.

– Vi è qualche crociera?

– Quella dei doganieri.

– È necessario evitarla.

– Conosciamo un posto ove potremo sbarcare tranquilli e nascondere il canotto fra i paletuvieri.

– Avanti.

– Una parola, capitano.

– Parla.

– Sarebbe meglio che la nostra nave non si avvicinasse di piú.

– Ha già virato e ci aspetterà al largo, – rispose il Corsaro.

Stette silenzioso alcuni istanti, poi riprese:

– È vero che vi è una squadra nel lago?

– Sí, comandante, quella dell’ammiraglio Toledo che veglia su Maracaybo e Gibraltar.

– Ah!… Hanno paura? Ma l’Olonese è alla Tortue e fra noi due la manderemo a picco. Pazienza alcuni giorni ancora, poi Wan Guld saprà di che cosa saremo capaci noi. —

Si ravvolse di nuovo nel suo mantello, si calò il feltro sugli occhi, poi tornò a sedersi, tenendo gli sguardi fissi su quel punto luminoso che indicava il faro del porto. Il canotto riprese la corsa; non manteneva però piú la prora verso l’imboccatura di Maracaybo, volendo evitare la crociera delle guardie doganali, le quali non avrebbero mancato di fermarlo e di arrestare le persone che lo montavano.

Mezz’ora dopo, la costa del golfo era perfettamente visibile, non essendo lontana piú di tre o quattro gomene. La spiaggia scendeva in mare dolcemente, tutta ingombra di paletuvieri, piante che crescono per lo piú alla foce dei corsi d’acqua e che producono delle febbri terribili e che sono la causa del vomito prieto ossia della temuta febbre gialla.

Piú oltre si vedeva spiccare, sul fondo stellato del cielo, una cupa vegetazione, la quale lanciava in aria enormi ciuffi di foglie piumate, di dimensioni gigantesche.

Carmaux e Wan Stiller avevano rallentata la vogata e si erano voltati per vedere la costa. Non s’avanzavano che con grandi precauzioni, procurando di non fare rumore e guardando attentamente in tutte le direzioni, come se temessero qualche sorpresa.

Il Corsaro Nero non si era invece mosso, però aveva posto dinanzi a sé i tre fucili imbarcati dal mastro, per salutare, con una scarica, la prima scialuppa che avesse osato avvicinarsi.

Doveva essere la mezzanotte quando il canotto si arenava in mezzo ai paletuvieri, cacciandosi piú di mezzo fra le piante e le contorte radici.

Il Corsaro si era alzato. Ispezionò rapidamente la costa, poi balzò agilmente a terra, legando l’imbarcazione ad un ramo.

– Lasciate i fucili – disse a Wan Stiller ed a Carmaux. – Avete le pistole?

– Sí, capitano, – rispose l’amburghese.

– Sapete dove siamo?

– A dieci o dodici miglia da Maracaybo.

– È situata dietro questo bosco la città?

– Sul margine di questa macchia gigantesca.

– Potremo entrare questa notte?…

– È impossibile capitano. Il bosco è foltissimo e non potremo attraversarlo prima di domani mattina.

– Sicché saremo costretti ad attendere fino a domani sera?

– Se non volete arrischiarvi di entrare in Maracaybo di giorno, bisognerà rassegnarsi ad aspettare.

– Mostrarci in città di giorno sarebbe un’imprudenza, – rispose il Corsaro, come parlando fra sé stesso. – Se avessi qui la mia nave pronta ad appoggiarci ed a raccoglierci, l’oserei, ma la Folgore incrocia ora nelle acque del gran golfo. -

Rimase alcuni istanti immobile e silenzioso, come se fosse immerso in profondi pensieri, quindi riprese:

– E mio fratello, potremo trovarlo ancora?

– Rimarrà esposto sulla Plaza de Granada tre giorni, – disse Carmaux. – Ve lo dissi già.

– Allora abbiamo tempo. Avete conoscenze in Maracaibo?

– Sí, un negro, quello che ci offrí il canotto per fuggire. Abita sul margine di questa foresta in una capanna isolata.

– Non ci tradirà?

– Rispondiamo di lui.

– In cammino.

Salirono la sponda, Carmaux dinanzi, il Corsaro in mezzo e Wan Stiller in coda e si cacciarono in mezzo all’oscura boscaglia procedendo cautamente, cogli orecchi tesi e le mani sui calci delle pistole, potendo cadere da un istante all’altro in un agguato.

La foresta si rizzava dinanzi a loro, tenebrosa come una immensa caverna. Tronchi d’ogni forma e dimensione si ergevano verso l’alto, sostenendo foglie smisurate, le quali impedivano assolutamente di scorgere la volta stellata.

Festoni di liane cadevano dappertutto, intrecciandosi in mille guise, salendo e scendendo dai tronchi delle palme e correndo da destra a sinistra, mentre al suolo strisciavano, attorcigliate le une alle altre, radici smisurate, le quali ostacolavano non poco la marcia dei tre filibustieri, costringendoli a fare dei lunghi giri per trovare un passaggio, o a mettere mano alle sciabole d’arrembaggio per reciderle.

Dei vaghi bagliori, come di grossi punti luminosi, che proiettavano ad intervalli dei veri sprazzi di luce, correvano in mezzo a quelle migliaia di tronchi, danzavano ora a livello del suolo ed ora in mezzo al fogliame. Si spegnevano bruscamente, poi si riaccendevano e formavano delle vere onde luminose di una incomparabile bellezza, che aveva qualche cosa di fantastico.

Erano le grosse lucciole dell’America Meridionale, le vaga lume che tramandano una luce cosí vivida da permettere di leggere le scritture piú minute anche alla distanza di qualche metro e che rinchiuse in un vasetto di cristallo in tre o quattro, bastano ad illuminare una stanza; e le lampyris occidental o perilampo, altri bellissimi insetti fosforescenti che si trovano in grandissimi sciami nelle foreste della Guiana e dell’Equatore.

I tre filibustieri, sempre nel piú profondo silenzio, continuavano la marcia, non lasciando le loro precauzioni, poiché oltre gli uomini, avevano da temere anche gli abitanti delle foreste, i sanguinari giaguari e soprattutto i serpenti, specialmente gli jaracarà, rettili velenosissimi, che sono difficili a scorgersi anche di giorno essendo la loro pelle del colore delle foglie secche.

Dovevano aver percorso due miglia, quando Carmaux, che si trovava sempre dinanzi, essendo il piú pratico dei luoghi, s’arrestò bruscamente armando con precipitazione una delle sue pistole.

– Un giaguaro od un uomo? – chiese il Corsaro, senza la minima apprensione.

– Può essere stato un giaguaro, ma anche una spia, – rispose Carmaux. – In questo paese non si è mai certi di vedere l’indomani.

– Dov’è passato?

– A venti passi da me.

Il Corsaro si curvò verso terra ed ascoltò attentamente, trattenendo il respiro. Un leggero scrosciare di foglie giunse fino a lui; era però cosí debole che solamente un orecchio molto esercitato ed acuto poteva udirlo.

– Può essere un animale, – rispose rialzandosi. – Bah!… Noi non siamo uomini da spaventarci. Impugnate le sciabole e seguitemi.

Girò intorno al tronco di un albero enorme che torreggiava in mezzo alle palme, poi sostò in mezzo ad un gruppo di foglie giganti scrutando le tenebre.

Lo scrosciare delle foglie secche era cessato, tuttavia al suo orecchio giunse un tintinnio metallico e poco dopo un colpo secco come se il cane d’un fucile venisse alzato.

– Fermi! Qui vi è qualcuno che ci spia e che aspetta il momento opportuno per farci fuoco addosso.

– Che ci abbiano veduti sbarcare? – borbottò Carmaux, con inquietudine. – Questi spagnuoli hanno spie dappertutto.

Il Corsaro aveva impugnata colla destra la spada e colla sinistra una pistola e cercava di girare quell’ammasso di foglie, senza produrre il minimo rumore. Ad un tratto Carmaux e Wan Stiller lo videro slanciarsi innanzi e piombare, con un solo salto, addosso ad una forma umana, che si era improvvisamente alzata in mezzo ad un cespuglio.

L’assalto del Corsaro era stato cosi improvviso ed impetuoso che l’uomo che si teneva imboscato era andato a gambe levate, percosso in pieno viso dalla guardia della spada.

Carmaux e Wan Stiller si erano subito precipitati su di lui, e mentre il primo s’affrettava a raccogliere il fucile che l’uomo imboscato aveva lasciato cadere, senza avere avuto il tempo di scaricarlo, l’altro puntava la pistola dicendo:

– Se ti muovi sei un uomo spacciato.

– È uno dei nostri nemici, – disse il Corsaro che si era curvato.

– Un soldato di quel dannato Wan Guld, – rispose Wan Stiller. – Che cosa faceva imboscato in questo luogo? Sarei curioso di saperlo.

Lo spagnuolo, che era stato stordito dalla guardia della spada del Corsaro, cominciava a riaversi, accennando ad alzarsi.

– Carrai! – borbottò con un tremito nella voce. – Che sia caduto tra le mani del diavolo?

– L’hai indovinato, – disse Carmaux. – Giacché a voi piace chiamare cosí noi filibustieri.

Lo spagnuolo provò un brivido cosí forte, che Carmaux se ne accorse.

– Non aver tanta paura, per ora, – gli disse, ridendo. – Risparmiala per piú tardi, per quando danzerai nel vuoto un fandango disordinato con un bel pezzo di solida canapa stretto alla gola.

Poi volgendosi verso il Corsaro, che guardava in silenzio il prigioniero, gli chiese:

– Devo finirlo con un colpo di pistola?

– No, – rispose il capitano.

– Preferite appiccarlo ai rami di quell’albero?

– Nemmeno.

– Forse è uno di quelli che hanno appiccato i Fratelli della Costa ed il Corsaro Rosso, mio capitano.

A quel ricordo un lampo terribile balenò negli occhi del Corsaro Nero, ma subito si spense.

– Non voglio che muoia, – disse con voce sorda. – Può esserci piú utile d’un appiccato.

– Allora leghiamolo per bene, – dissero i due filibustieri.

Si levarono le fasce di lana rossa che portavano ai fianchi e strinsero le braccia del prigioniero, senza che questi osasse fare resistenza.

– Ora vediamo un pò chi sei, – diesse Carmaux.

Accese un pezzo di miccia da cannone che teneva in tasca e l’accostò al viso dello spagnuolo.

Quel povero diavolo, caduto nelle mani dei formidabili corsari della Tortue, era un uomo di appena trent’anni, lungo e magro come il suo compatriota Don Chisciotte, con un viso angoloso, coperto da una barba rossiccia e due occhi grigi, dilatati dallo spavento.

Indossava una casacca di pelle gialla con qualche rabesco, corti e larghi calzoni a righe nere e rosse e calzava lunghi stivali di pelle nera. Sul capo invece portava un elmetto d’acciaio adorno di una vecchia piuma, la quale non aveva piú che rade barbe e dalla cintura gli pendeva una lunga spada, la cui guaina era assai irruginita alle sue estremità.

– Per Belzebú mio patrono!… – esclamò Carmaux, ridendo. – Se il Governatore di Maracaybo ha di questi prodi vuol dire che non li nutre di certo con capponi, poiché è piú magro di un’aringa affumicata. Credo, capitano, che valga la pena d’appiccarlo.

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30 avgust 2016
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