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Kitobni o'qish: «Capitan Tempesta»

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CAPITOLO I. Una partita a «Zara»

– Sette!…

– Cinque!

– Undici!

– Quattro!

– Zara!…

– Corpo di trentamila scimitarre turche! Che fortuna avete voi, signor Perpignano! Sono ottanta zecchini che mi guadagnate in due sere. Ciò non può durare! Preferisco una palla di colubrina in corpo e per di più una palla di quei cani di miscredenti. Almeno non mi scorticherebbero dopo presa Famagosta.

– Se la prenderanno, capitano Laczinki.

– Ne dubitate, signor Perpignano?

– Sì, almeno per ora. Finchè abbiamo gli schiavoni, Famagosta non verrà presa. La Repubblica Veneta sa scegliere i suoi soldati.

– Non sono polacchi.

– Capitano, non offendete i soldati dalmati.

– Non ne ho avuto alcuna intenzione, tuttavia se qui vi fossero dei miei compatrioti…

Un mormorio minaccioso che si levò intorno ai due giuocatori, misto ad un tintinnio di spade nervosamente agitate, indusse il capitano Laczinki ad interrompere la frase.

– Uh! – disse, cambiando tono e abbozzando un sorriso. – Sapete bene, valorosi schiavoni, che io amo scherzare. Sono quattro mesi che combattiamo insieme contro quei cani di miscredenti, che hanno giurato di levarci di dosso la pelle e so quanto valete. Dunque, signor Perpignano, giacchè i turchi ci lasciano un po’ tranquilli, riprendiamo la partita? Ho ancora una ventina di zecchini che passeggiano nelle mie tasche.

Quasi a smentire il capitano, si udì in quel momento rombare cupamente il cannone.

– Ah! Mascalzoni! Nemmeno alla notte ci lasciano tranquilli – riprese il loquace polacco. – Bah! Avrò tempo sufficiente per perdere o vincere ancora qualche decina di zecchini. È vero, signor Perpignano?

– Quando vorrete, capitano.

– Mescolate i dadi.

– Nove! gridò Perpignano, facendo rotolare i dadi sullo sgabello che serviva ai due avversari da tavolo da giuoco.

– Tre!

– Undici!

– Sette!

– Zara!

Una bestemmia sfuggì dalle labbra dello sfortunato capitano, mentre intorno a lui scoppiavano delle risate, subito represse.

– Per la barba di Maometto! esclamò il polacco, gettando sullo sgabello due zecchini. – Avete fatto qualche patto col diavolo, signor Perpignano.

– Niente affatto. Sono troppo buon cristiano.

– Qualcuno deve avervi insegnato un colpo di mano e scommetterei la mia testa contro la barba d’un turco che quel qualcuno è Capitan Tempesta.

– Giuoco sovente con quel valoroso gentiluomo, ma non mi ha mai insegnato alcun colpo di mano.

– Gentiluomo! Hum! – fece il capitano con una certa acredine.

– Non lo credete tale?

– Hum! Hum! Chi sa chi veramente sia?

– È pur sempre un giovane gentile e d’un coraggio straordinario.

– Un giovane!…

– Che cosa vorreste dire, capitano?

– Se non fosse veramente un giovane?

– Non ha certo vent’anni.

– Non mi capite, ma lasciamo andare Capitan Tempesta ed i turchi e riprendiamo il giuoco. Non voglio battermi domani colle tasche vuote. Come potrei pagare Caronte, senza aver in tasca un misero zecchino? Per varcare lo Stige si deve pagare, mio caro signore.

– Sicchè, siete ben certo di andare all’inferno – disse il signor Perpignano, ridendo.

– Può darsi, – rispose il capitano, prendendo quasi con collera il bossolo e agitando i dadi. – Orsù, due zecchini ancora.

Questa scena avveniva sotto una immensa tenda, poco dissimile da quelle che usano oggidì i saltimbanchi e che serviva ad un tempo da caserma e da cantina, a giudicarlo dai numerosi materassi disposti all’ingiro e dai barili accumulati dietro un rozzo banco su cui stava seduto il proprietario della baracca, centellinando una caraffa piena di vino di Cipro.

Sotto una lampada di Murano, che pendeva dal palo centrale reggente la tenda, stavano i due giuocatori intorno ai quali si erano raggruppati una quindicina di schiavoni, soldati mercenari, che la Repubblica Veneta levava dalle sue colonie dalmate, per mandarli a difendere i suoi possessi del levante, minacciati continuamente dalle formidabili scimitarre dei turchi.

Il capitano Laczinki era un omaccio largo e grosso, con braccia muscolose, la capigliatura ispida come quella d’un porcospino e biondastra, con due baffi enormi, che rassomigliavano a denti di morsa, il naso rosso d’un bevitore impenitente e gli occhi piccoli, mobilissimi. Nei tratti del viso, nelle mosse, nel modo di parlare s’indovinava in lui, anche di primo acchito, il capitano di ventura e lo spadaccino di professione.

Il signor Perpignano era invece tutto l’opposto e assai più giovane del polacco, che doveva toccare già la quarantina. Era il vero tipo del veneto, piuttosto alto, un po’ smilzo, pur essendo vigoroso, con capelli e occhi neri e la pelle del viso un po’ pallida.

Mentre il primo indossava una pesante corazza e portava al cinturone uno spadone, il secondo indossava l’elegante costume veneziano usato in quell’epoca: casacca ricamata che gli scendeva fino al di sotto delle anche, calzoni a maglia, a righe di diversi colori e scarpettine ed in testa il tocco azzurro adorno d’una penna di fagiano.

Più che un guerriero sembrava un paggio del doge veneziano anche per l’armamento che consisteva in una leggera spada ed in un pugnaletto.

La partita si era nuovamente impegnata con un certo accanimento d’ambo le parti e con molto interesse dei soldati schiavoni che, come abbiamo detto, avevano formato circolo intorno allo sgabello che serviva da tavolo da giuoco, mentre in lontananza rombava sempre cupamente, ad intervalli, il cannone, facendo vacillare la fiamma della lampada.

Nessuno però sembrava facesse gran caso a quelle detonazioni, nemmeno il taverniere, il quale continuava a centellinare il dolcissimo e delizioso vino di Cipro.

Già il capitano aveva perduto, non senza molte bestemmie, un’altra mezza dozzina di zecchini, quando un lembo della tenda si sollevò ed un nuovo personaggio, che era avvolto in un gran mantello nero e che aveva l’elmetto adorno di tre piume azzurre, entrò, dicendo con voce un po’ ironica:

– Toh! Qui si giuoca mentre i turchi cercano di demolire il bastione di San Marco e le mine scoppiano senza posa. Che i miei uomini prendano le armi e mi seguano. Là sta il pericolo.

Mentre gli schiavoni, udendo quel comando, raccoglievano le alabarde, le mazze di ferro e gli spadoni a due mani, che avevano accumulati in un angolo della tenda, il polacco ch’era già di pessimo umore per la fuga continua dei suoi zecchini, che passavano nelle tasche del suo fortunato avversario, aveva alzato vivamente la testa, fissando con uno sguardo corrucciato il nuovo venuto.

– Ah! Il Capitan Tempesta! – esclamò con un leggero tono beffardo. – Potevate difendere voi solo il bastione di San Marco, senza venire a guastarci la partita. Famagosta non cadrà già questa notte.

Capitan Tempesta, con una mossa rapida si era sbarazzato del mantello, lasciandolo cadere a terra, mettendo una mano sul fianco e l’altra sull’impugnatura della spada che gli pendeva dalla cintura.

Era un giovane bellissimo, anzi troppo bello per essere un guerriero, un po’ alto, snello, di forme eleganti, con due occhi nerissimi che parevano due carbonchi, una bocca da fanciulla con dei dentini superbi, la pelle leggermente bruna che tradiva il tipo meridionale e la capigliatura lunga e corvina. Nell’insieme sembrava più una graziosissima fanciulla che un capitano di ventura. Anche il suo costume era elegantissimo e soprattutto accurato, quantunque i continui assalti dei turchi non dovessero lasciargli troppo tempo per occuparsi della sua toletta.

Indossava una armatura d’acciaio completa, con un piccolo scudo in mezzo al petto, dove si vedevano incise tre stelle sormontate da una corona ducale, aveva speroni dorati alle scarpe, e alla cintura, di seta azzurra, mirabilmente ricamata, una spada sottilissima, coll’impugnatura d’argento, simile a quella usata dai francesi di quell’epoca.

– Che cosa volete dire con quelle parole, capitano Laczinki? chiese, con una voce armoniosa che contrastava stranamente con quella grossa e ruvida del polacco, senza levare la mano dalla guardia della spada.

– Che i turchi potevano aspettare domani rispose l’avventuriero, alzando le spalle. – D’altronde siamo ancora abbastanza forti per ricacciarli a Costantinopoli o nei loro maledetti deserti dell’Arabia.

– Non scambiate le carte in mano, signor Laczinki disse il giovane. – Vivaddio. Alludevate a me, poco fa, e non ai miscredenti.

– Voi od i turchi, per me è tutt’uno rispose brutalmente il polacco che era ancora di cattivo umore, forse in causa della sfortuna che lo aveva perseguitato quella sera con tanta ostinazione.

Il signor Perpignano, che era un caldo ammiratore di Capitan Tempesta, sotto i cui ordini combatteva, mise mano alla spada e fece atto di slanciarsi contro il polacco, quando il giovane, che aveva conservato un ammirabile sangue freddo, con una brusca mossa lo trattenne, dicendogli:

– I difensori di Famagosta sono troppo preziosi per uccidersi fra di loro. Se il capitano Laczinki cerca di attaccare lite con me, per sfogarsi delle perdite subite questa sera o perchè dubiti del mio valore, come ho già udito a raccontare…

– Io! – esclamò il polacco, alzandosi. – Per la barba di Maometto! Quelli che vi hanno narrato ciò sono dei miserabili, che io ucciderò come cani idrofobi, quantunque…

– Continuate – disse Capitan Tempesta, con calma impressionante.

– Io dubiti del vostro coraggio, – rispose il polacco. – Siete troppo giovane, mio caro, per godere la fama di celebre guerriero, e poi…

– Terminate, – disse Capitan Tempesta con un risolino ironico e fermando con un gesto imperioso il signor Perpignano che per la seconda volta aveva messo mano alla spada. – Siete molto divertente, signor mio.

Il polacco percosse lo sgabello, che fino allora gli era servito da tavolo, con tale violenza, da spezzarlo.

– Per San Stanislao protettore della Polonia! gridò, rialzando con un moto nervoso i suoi folti baffi, spioventi come quelli dei cinesi. – Mi burlate, Capitan Tempesta? Ditemelo francamente!

– Eh, dovreste esservene accorto, mi pare rispose il giovane, sempre beffardo.

– Vi credete ben forte e ben abile spadaccino per scherzare con un vecchio orso polacco, fanciullo, se… siete veramente un fanciullo perchè ho su ciò i miei dubbi.

Il giovane era diventato livido ed una cupa fiamma gli era balenata negli occhi profondi e nerissimi.

– Da quattro mesi combatto sulle trincee e sui bastioni, ammirato dai miei guerrieri e da tutti gli assediati; disse dopo un breve silenzio, – e voi mi chiamate e mi trattate da fanciullo? Voi, rodomonte, non avete ucciso tanti turchi quanti ne ho ammazzati io, mi capite, avventuriero?

Fu il polacco che questa volta impallidì.

– Avventuriero al pari di voi! – urlò.

– No, perchè ho una corona ducale sulla mia cotta.

– Ne metterò una reale sulla mia corazza – rispose il polacco, ridendo. – Comunque sia, duca o… duchessa, non avreste il coraggio di affrontare la mia spada.

– Duca, vi ho detto, – gridò il giovane e bellissimo capitano. – Questo lo spiegheremo fra noi.

Gli schiavoni che si erano schierati dietro Capitan Tempesta, avevano dato di piglio alle alabarde ed avevano fatto un passo avanti, come per gettarsi sul polacco e farlo a pezzi.

Perfino il proprietario della baracca era balzato giù dal banco e aveva afferrato un barilotto vuoto, pronto a scagliarlo addosso all’imprudente avventuriero, ma Capitan Tempesta, come aveva poco prima frenato il signor Perpignano, con un gesto che non ammetteva replica aveva fatto deporre le armi ai suoi guerrieri.

– Voi dubitate del mio coraggio? disse col suo accento leggermente ironico. – Tutti i giorni un turco, giovane e senza dubbio valorosissimo, si spinge sotto le mura della nostra città e sfida i più abili spadaccini a misurarsi con lui ad armi bianche. Domani non mancherà di mostrarsi. Vi sentite voi il coraggio di affrontarlo? Io sì!

– Me lo mangerò in un sol boccone rispose il polacco. – Non ho paura dei turchi, io! Non sono nè un veneziano, nè un dalmata. Quelli non valgono i tartari russi.

– A domani.

– Che Belzebù mi porti all’inferno se mancherò.

– Ci sarò anch’io.

– Chi lo affronterà prima?

– Come vorrete.

– Essendo più vecchio sarò io che lo sfiderò; poi vi proverete voi, Capitan Tempesta.

– Sia, se così vi aggrada. Almeno non si dirà che i difensori di Famagosta si uccidono fra di loro.

– E sarà più prudente disse il polacco, sogghignando. – La spada di Laczinki salverà capra e cavoli e toglierà un assediante di più all’esercito di Mustafà.

Capitan Tempesta prese il mantello che uno dei suoi schiavoni gli porgeva, se lo gettò sulle spalle, ed uscì dalla tenda, dicendo ai suoi uomini:

– Al bastione di San Marco. È là che i turchi lavorano colle mine e che il pericolo è maggiore.

Uscì, senza guardare il suo rivale, seguito dal signor Perpignano e dagli schiavoni, che oltre le alabarde erano armati di pesanti fucili a miccia.

Il polacco era rimasto nella tenda e, non sapendo più contro chi sfogare il suo malumore, se la prendeva col disgraziato sgabello fracassandolo interamente a pugni ed a calci, nonostante le proteste del proprietario della baracca.

Il drappello degli schiavoni, comandato da Capitan Tempesta e dal signor Perpignano, che aveva nella compagnia il grado di tenente, si diresse verso i bastioni, passando attraverso stradicciuole strettissime fiancheggiate da case a due piani.

La notte era oscurissima, essendo tutte le finestre chiuse e mancando i fanali. Una pioggerella sottile sottile cadeva insistente e noiosa mentre un vento caldissimo, snervante, proveniente dai deserti della Libia, soffiava ad intervalli, sibilando sinistramente fra le tegole delle abitazioni.

Il cannone rombava con maggior frequenza di prima, e di quando in quando una di quelle grosse e pesantissime palle di pietra, usate in quell’epoca come proiettili, passava sibilando in aria, lasciandosi dietro una striscia di scintille e cadeva con sordo fragore su qualche tetto, sfondandolo e mettendo lo scompiglio fra le persone che occupavano le stanze.

– Brutta notte disse il signor Perpignano, che camminava a fianco di Capitan Tempesta, il quale si era avvolto interamente nel suo ampio ferraiuolo. – I turchi non potevano sceglierne una migliore per tentare l’attacco del bastione di San Marco.

– Sarà uno sforzo inutile, almeno per ora rispose il giovane capitano. – L’ora terribile della caduta di Famagosta non è ancora suonata.

– Ma non tarderà a giungere, signore, se la Repubblica non si affretta a soccorrerci.

– Non contiamo che sul valore delle nostre spade e sarà meglio, signor Perpignano. La Serenissima è troppo occupata in questo momento a difendere le sue colonie della Dalmazia, e le galere turche battono le acque dell’Arcipelago e del Mar Jonio, pronte ad affondare quelle veneziane che muovessero in nostro aiuto.

– Allora verrà il giorno in cui saremo costretti ad arrenderci.

– Ed a lasciarci massacrare, perchè so che il Sultano ha dato ordine di passarci tutti a fil di spada, per punirci della nostra lunga resistenza.

– Canaglia! Noi forse saremo morti e non assisteremo a quell’orrenda strage, capitano disse il signor Perpignano con un sospiro. – Poveri abitanti! Sarebbe meglio che si lasciassero seppellire tutti sotto le rovine della loro disgraziata città.

– Tacete, tenente, – disse Capitan Tempesta. – Sento una profonda angoscia, nel pensare al momento in cui quelle belve, sbucate dai deserti infuocati dell’Arabia, si rovesceranno su Famagosta, assetate di sangue peggio delle tigri.

Il drappello era allora uscito dalle viuzze della città sbucando su una larga strada, chiusa da una parte dalle case e dall’altra da un alto bastione privo quasi del tutto dei merli, e su cui fiammeggiavano parecchie torce.

A quella luce rossastra si scorgevano parecchi uomini coperti di ferro, che s’affaccendavano intorno ad alcune colubrine. Di quando in quando un lampo balenava rompendo bruscamente le tenebre, seguito da una detonazione.

Dietro gli artiglieri, delle lunghe file di donne, alcune riccamente vestite, ed altre stracciate, s’avanzavano silenziosamente reggendo a fatica dei sacchi che vuotavano al di sopra dei merli, sfidando impavide le palle degli assedianti.

Erano le valorose donne di Famagosta che rinforzavano il bastione, incessantemente minato dal nemico, colle macerie delle loro case distrutte dalle bombe degli infedeli.

CAPITOLO II. L’assedio di Famagosta

L’anno 1570 era cominciato nefasto per la Repubblica Veneta, la più grande e formidabile nemica della potenza turca. Già da qualche tempo il ruggito del Leone di San Marco si era affievolito ed a Negroponte prima, in Dalmazia e poi nelle isole dell’Arcipelago greco aveva ricevute le prime ferite, nonostante gli eroici sforzi dei figli della laguna.

Selim II, il potentissimo Sultano di Costantinopoli, assisosi saldamente sul Bosforo, rintuzzate le armi degli ungheresi e degli austriaci, ributtati nella Piccola Russia gli ortodossi, padrone dell’Egitto, di Tripoli, di Tunisi, dell’Algeria e del Marocco e di mezzo Mediterraneo, non attendeva che il momento opportuno per strappare per sempre ai figli del leone di San Marco, i loro ultimi possessi d’oriente.

Sicuro della ferocia e del fanatismo dei suoi guerrieri e fortissimo ormai sul mare, non gli fu difficile trovare un pretesto per romperla coi veneziani, che già cominciavano a dare qualche segno di decadenza.

La cessione dell’isola di Cipro alla Repubblica, fatta da Caterina Cornaro, fu la scintilla che diede fuoco alle polveri.

Il Sultano, temendo pei suoi possessi dell’Asia Minore, forte della sua potenza, impose senz’altro ai veneziani di sgombrare l’isola, incolpandoli di dare ricetto a corsari Ponentani che armavano galere a danno dei fedeli della Mezzaluna.

Come era da prevedersi, il Senato veneziano aveva sdegnosamente respinto il messaggio inviato dal barbaro discendente del Profeta ed aveva raccolte le forze disperse in Oriente ed in Dalmazia, preparandosi animosamente alla guerra.

Cipro non contava in quell’epoca che cinque città: Nicosia, Famagosta, Baffo, Arines e Lamisso; ma solamente le due prime si trovavano in istato di opporre una qualche resistenza, essendo fornite di torri e bastioni.

Furono quindi mandati ordini di rinforzarle il meglio possibile e di formare un vasto campo trincerato a Lamisso per raccogliere le truppe venete, che erano già in viaggio sotto il comando di Girolamo Zane e di richiamare prontamente da Candia la flotta, che era guidata da Marco Quirini, uno dei più abili marinai che avesse in quel tempo la Repubblica.

La guerra era stata appena dichiarata, quando gli aiuti mandati dal Senato sbarcarono sani e salvi a Lamisso, sotto la protezione delle galee del Quirini.

Si componevano quelle forze di ottomila fanti fra veneti e schiavoni, di duemila e cinquecento cavalieri e di molta artiglieria. A difesa dell’isola non vi erano allora che diecimila fanti, fra alabardieri e archibugieri, quattrocento schiavoni dalmati e cinquecento stradioti a cavallo, ma si erano aggiunti numerosi abitanti, fra i quali molti nobili veneziani che non sdegnavano di esercitare il commercio.

Avendo appreso che i turchi erano di già sbarcati in falangi immense, al comando del Gran vizir Mustafà, che godeva fama di essere il più abile ed anche il più crudele dei generalissimi turchi, i veneziani, divise le loro forze in due corpi, si erano affrettati a chiudersi in Nicosia ed in Famagosta, risoluti ad attendere dietro a quei saldi bastioni l’urto poderoso delle orde nemiche.

Nicolò Dandolo, col vescovo Francesco Contarini, aveva assunto la difesa della prima; Astorre Baglione, con Bragadino, Lorenzo Tiepolo, ed il capitano albanese Manoli Spilotto, si erano incaricati di tener duro nella seconda fino all’arrivo di nuovi rinforzi che la Repubblica aveva solennemente promessi.

Mustafà, che aveva forze imponenti, sette od otto volte superiori a quelle dei veneziani, fu ben presto, quasi senza combattimento, sotto le mura di Nicosia, che voleva espugnare per la prima, parendogli che quella piazza dovesse offrire la maggior resistenza.

Un assalto furibondo dato ai bastioni di Podacataro, di Costanzo, di Tripoli e di Davile, andò a vuoto, anzi riuscì disastroso agli infedeli, perchè avendo il tenente Cesare Piovene insieme al conte Roca fatta una improvvisa sortita alla testa di numerose compagnie, inflisse loro gravissime perdite.

Il 9 settembre 1570 Mustafà ritorna però alla carica ed al sorgere dell’alba spinge le sue innumerevoli orde all’assalto del bastione Costanzo, riuscendo ad impadronirsene dopo una mischia ferocissima.

I veneziani, vedendosi ormai perduti, avviarono trattative di resa, alla condizione che si accordasse a tutti salva la vita.

Acconsentì il malfido vizir: invece, non appena le sue orde ebbero occupata la città, scordando la promessa fatta, ordinava freddamente la strage generale dei prodi difensori e della popolazione che li aveva aiutati.

L’eroico Dandolo fu il primo a essere immolato e ventimila persone furono massacrate, trasformando la disgraziata città in un immenso cimitero.

Solo venti nobili veneziani, dai quali il crudele vizir sperava dei vistosi riscatti e le più belle donne e fanciulle di Nicosia furono risparmiate, e queste per essere inviate schiave a Costantinopoli.

Le orde islamite, imbaldanzite da quella facile vittoria, si erano subito volte verso Famagosta colla speranza di prenderla in breve d’assalto. Baglione e Bragadino però non erano rimasti colle mani alla cintola e in quel frattempo avevano rinforzate le difese per resistere fino all’arrivo dei rinforzi veneti.

Il 19 luglio del 1571, le sterminate orde turche comparivano dinanzi alla città, cominciandone l’assedio e l’indomani ne tentavano l’assalto, ma, come prima a Nicosia, venivano ributtate nei loro accampamenti, con grande strage.

Il 30 luglio, dopo un continuo bombardamento ed un incessante scoppiare di mine per indebolire le torri e i bastioni, per la seconda volta Mustafà aveva guidato all’attacco le sue truppe ed il valore dei guerrieri veneti aveva ancora trionfato. Tutti gli abitanti erano corsi alla difesa, comprese le donne, le quali tenacemente avevano combattuto a fianco dei forti guerrieri della Repubblica, niente atterrite dalle urla selvagge degli assalitori, nè dalle loro formidabili scimitarre, nè dal tuonare tremendo delle artiglierie.

Nell’ottobre gli assediati, che già erano riusciti, con frequenti sortite, a tenere a distanza i turchi, ricevevano i promessi soccorsi consistenti in mille e quattrocento fanti, comandati da Luigi Martinengo e in sedici cannoni.

Era ben poca cosa per una città assediata da più di sessantamila nemici, tuttavia quell’aumento di truppe era giovato assai a rialzare lo spirito degli assediati già molto depresso, ed a indurli a resistere con maggior vigoria.

Disgraziatamente i viveri e le munizioni scemavano a vista d’occhio ed il bombardamento dei turchi non lasciava un istante di tregua ai veneziani. La città era ormai un ammasso di rovine e ben poche case si reggevano ancora in piedi.

Per di più, pochi giorni dopo giungeva a Cipro Alì pascià, grande ammiraglio della flotta turca, con una squadra di ben cento galee, montate da altri quarantamila guerrieri.

Famagosta ormai era stretta da tutte le parti da un cerchio di fuoco e di ferro, che nessuna forza umana avrebbe potuto ormai più spezzare. Le cose erano a questo punto, quando accadde il fatto narrato nel capitolo precedente.

***

Gli schiavoni, appena giunti sul bastione, gettate le alabarde che erano affatto inutili in quel momento, si erano subito appostati dietro ai pochi merli che ancora esistevano, armando i loro pesanti moschettoni e soffiando vigorosamente sulle micce, mentre gli artiglieri, quasi tutti marinai delle galere venete, continuavano a far tuonare le loro colubrine.

Capitan Tempesta, nonostante le prudenti raccomandazioni del suo tenente, s’era spinto fino sull’orlo del bastione, tenendosi riparato dietro un merlo semimozzo che ad ogni colpo di colubrina a poco a poco si sgretolava.

Nella pianura tenebrosa che si estendeva dinanzi alla disgraziata città, votata ormai ad una fine miseranda, si vedevano brillare qua e là dei punti luminosi, poi dei lampi accompagnati da formidabili detonazioni, e dai sibili rauchi delle grosse palle di pietra.

I turchi, sempre più inferociti dalla lunga resistenza opposta dalla piccola guarnigione veneta, stavano scavando nuove trincee per assalire più da vicino il bastione, che quantunque semidiroccato, non accennava ancora a sfasciarsi mercè l’enorme massa di materiali che le valorose donne rovesciavano ogni notte nei fossati per rinforzarlo.

Di tratto in tratto degli uomini audaci, che avevano fatto volontariamente sacrificio della loro vita per guadagnarsi con maggior sicurezza il meraviglioso paradiso del Profeta, salivano carponi la scarpa del bastione e, approfittando della notte tenebrosa, preparavano mine per rovesciare quella massiccia muraglia che i cannoni non erano capaci di sfondare.

Gli schiavoni, che avevano buoni occhi, non li risparmiavano e molti ne fulminavano coi loro moschettoni, ma altri fanatici, punto atterriti, li sostituivano subito e delle esplosioni tremende, che scuotevano perfino le colubrine piazzate dietro i pochi merli, si succedevano, diroccando ora un angolo ed ora uno sperone od il margine del profondo fossato.

Le donne di Famagosta però erano là, pronte a gettare sassi e corbe colme di terra, onde riempire le buche aperte da quegli scoppi; sempre impassibili, sempre risolute, docili al comando dei prodi difensori, guardando serenamente le palle infuocate che solcavano l’aria e che nel cadere si spezzavano in mille frantumi, essendo per la maggior parte di pietra.

Capitan Tempesta, muto, impassibile, guardava i fuochi che illuminavano l’immenso campo turco. Che cosa cercava di scoprire? Lui solo probabilmente lo sapeva.

Ad un tratto si sentì urtare un gomito, mentre una voce gli sussurrava agli orecchi, in un pessimo dialetto napoletano:

– Eccomi, padrona.

Il giovane si era voltato vivamente, colla fronte aggrottata, poi ad un tratto un grido a malapena frenato gli sfuggì:

– Tu, El-Kadur?

– Sì, padrona.

– Taci! Non chiamarmi così. Nessuno deve sapere chi io veramente sia.

– Hai ragione, signora… signore.

– Ancora? Vieni!

Afferrò l’uomo che aveva pronunciato quelle parole, e lo trasse, tenendolo sempre stretto per un braccio, giù dal bastione conducendolo in una casamatta, che era illuminata da una torcia e che in quel momento era deserta.

Quell’individuo, che il giovine capitano non aveva ancora lasciato, era un uomo alto e magrissimo, colla pelle assai abbronzata, i lineamenti duri, il naso affilato e gli occhi piccoli e nerissimi. Vestiva come i beduini dei deserti arabi, teneva sulle spalle un ampio mantello di lana oscura, con cappuccio adorno d’un fiocco rosso e sul capo portava un turbante bianco e verde. Dalla cintura o meglio dalla fascia rossa, che gli stringeva i fianchi, si vedevano uscire i calci di due lunghe pistole, di forma quasi quadra, come quelle usate dagli algerini e dai marocchini, e l’impugnatura d’un jatagan.

– Dunque? – chiese Capitan Tempesta, quasi con violenza, mentre i suoi occhi s’illuminavano d’un lampo strano.

– Il visconte Le Hussière è sempre vivo rispose El-Kadur. – L’ho saputo da uno dei capitani del vizir.

– Che ti abbia ingannato? chiese il giovane capitano, con voce tremula.

– No, signora.

– Non chiamarmi signora, te lo dissi già.

– Qui non vi è nessuno che possa ascoltarci.

– E dove l’hanno condotto? Lo sai, El-Kadur?

L’arabo fece un gesto desolato.

– No, signora, non ho ancora potuto saperlo; tuttavia non dispero. Sono diventato l’amico d’un comandante che, quantunque mussulmano, beve Cipro a barili, infischiandosene del Corano e del Profeta, e una sera od un’altra riuscirò a carpirgli il segreto. Ve lo giuro, padrona.

Capitan Tempesta o meglio la capitana – giacchè non era un uomo – si era lasciata cadere sull’affusto d’un cannone, prendendosi la testa fra le mani. Due lagrime le scendevano sul suo bel viso, che in quel momento era diventato pallidissimo.

L’arabo, ritto dinanzi a lei, col mantello stretto intorno all’agile corpo, la guardava con profonda commozione. Il suo viso duro e selvaggio tradiva un’angoscia inesprimibile.

– Potessi, signora, col mio sangue ridarti la tranquillità e la felicità, sarei ben lieto disse, dopo un momento di silenzio.

– Lo so che tu mi sei devoto, El-Kadur – rispose Capitan Tempesta.

– Fino alla morte, signora, sarò lo schiavo più fedele.

– Non schiavo, amico.

Gli occhi nerissimi dell’arabo si illuminarono d’un lampo intenso, diventando quasi fosforescenti.

– Io ho rinnegato senza rimpianti la mia stolta religione, disse, dopo un altro breve silenzio – e non ho mai dimenticato che il duca d’Eboli, tuo padre, mi strappò, quand’ero fanciullo, al mio crudele padrone che tutti i giorni mi batteva a sangue. Che cosa devo fare ora?

Capitan Tempesta non rispose. Pareva che seguisse un pensiero profondo che evocava in lui dei dolorosi ricordi, a giudicarlo dall’espressione angosciosa del suo bel viso.

– Sarebbe stato meglio che io non avessi mai veduta Venezia, quella sirena incantatrice dell’Adriatico e che non avessi mai lasciate le azzurre acque del golfo di Napoli… disse ad un tratto, come parlando fra sè. – Il mio cuore non soffrirebbe ora così atrocemente.

Ah quella notte deliziosa sul Canal Grande, fra i marmorei palazzi dei nobili veneti! La rivedo come fosse ieri, e quando vi penso sento scorrermi nelle vene un fremito che prima non avevo mai provato.

Egli era là, dinanzi a me, bello come un dio della guerra, seduto sulla prora della gondola e mi guardava sorridendo e mi rivolgeva delle frasi deliziose, che mi scendevano in fondo al cuore come una musica celeste. Per me aveva dimenticato le preoccupazioni che in tutti suscitavano le tragiche notizie giuntemi quel giorno e che avevano fatto impallidire perfino i vecchi del Senato, del Consiglio e lo stesso Doge.

Eppure sapeva che l’avevano scelto a venire qui a misurarsi coll’esercito sterminato degli infedeli; sapeva che qui forse la morte lo attendeva per falciargli la sua giovine e brillante esistenza, eppur sorrideva, ammaliato dai miei occhi.

Yosh cheklamasi:
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30 avgust 2016
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