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Kitobni o'qish: «Ricordi di un garibaldino dal 1847-48 al 1900. vol. II», sahifa 13

Shrift:

"La grande repubblica Americana combattè quattordici anni contro i suoi oppressori e sul principio della lotta le sue milizie non erano più agguerrite delle nostre.

"Nel 1789 i quattordici eserciti che presero le armi in Francia, erano nuovi alle pugne, e fino a Fleurus, Walmy e Iammapas essi pure furono respinti dagli stessi eserciti che noi combattiamo, e tuttavia finirono per riuscire vittoriosi in tutta Europa.

"Onore a voi dunque, miei prodi di Commarin, che, servendo la santa causa della repubblica, sapeste mostrare ai vostri giovani compagni la via del dovere e della vittoria.

Commarin, 29 novembre.

G. Garibaldi"

E dopo ciò, documento storico importantissimo, ecco l'ultime disposizioni che il generale Garibaldi impartiva al Baghina – prova dì quella serenità di spirito e di quella fierezza di carattere che non ebbero i comandanti francesi.

Commendateur Baghina

Auxonne

"Restez sur les positions a fin de constater occupation et de me reinseigner exactament sur sa situation. Conseigne sévère aux avantpostes, aucune communications sous quelque preteste que ce soit avec ennemi.

"Ligne de demarcation bien determinée par les villages De Peintre, Chevigny, Rainaus, Biarne, S. Vivon, on vous pouvez piacer vos détachement.

Dijon 30 Janvier

G. Garibaldi.

La capitolazione di Parigi essendo un fatto compiuto, e l'armistizio trasformato in preliminari di pace, dopo d'essere stato il generale eletto deputato all'assemblea di Bordeaux, egli decise 1'8 febbraio di recarsi in quella città coll'unico intento di portare il suo voto alla repubblica, lasciando Menotti provvisoriamente al comando dell'esercito.

"Tutti sanno come fui accolto dalla maggioranza dei deputati, all'assemblea; certo quindi di non potere far più nulla per quel grande e sventurato paese che ero venuto a servire nella sciagura, mi decisi di recarmi a Marsiglia e di là a Caprera, ove giunsi il 16 febbraio 1871."

La caduta dell'impero francese ci apriva la via di Roma; gli animi ritornavano all'antica speranza di dare la sua capitale alla nazione: Ma il governo titubava; ecco alcune lettere che danno luce a quel fatto storico della più grande importanza per l'Italia:

Carissimo amico Elia

Ancona

"È urgente per l'esistenza e l'avvenire d'Italia che si trasporti la capitale a Roma, senza dilazione.

"Riunite meeting ed agitate per questo l'opinione pubblica colla parola e colla penna.

"Il governo è ben disposto, ma indeciso.

"Siano nostri amici personali, o nò, fate capire ai democratici di costà ed ai semplici nazionali, che oggi non c'è un minuto da perdere in faccia alla situazione europea. Bisogna spingere il governo a Roma e subito. Si gridi Roma capitale d'Italia immediata, dalle Alpi ai due mari.

Vostro
L. Frapolli".

Ed in Ancona, città altamente patriottica, si ebbero meeting e agitazione, concordi tutti i partiti.

Firenze, 4 settembre 1870.

Amico col. Elia,

Ancona.

"Giovedì sera, tutte le vette dell'appennino, da Tenda ad Aspromonte, devono essere illuminate da fuochi.

"Pensate all'esecuzione per la parte vostra sui punti circostanti prominenti. Ceneri e Saffi pensano per in su. Parlatene con Pichi. Verso Chieti abbiamo i nostri. Pensate per Sinigaglia.

"Viva Roma.

Vostro
L. Frapolli".
Firenze, 5 settembre 1870.

Amico,

"Le truppe italiane sono partite per Roma; fra ore Roma sarà la capitale effettiva d'Italia.

"Moltiplicate i fuochi per giovedì sera. Saranno fuochi di gioia.

Vostro
L. Frapolli".
Firenze, 7 settembre 1870

Amico!

"A Roma si va. Se c'è qualche ritardo è di ore e per ostacoli materiali. Non vi lasciate sviare dalle notizie dei malevoli. Fate riunioni, dimostrazioni, fuochi dovunque. Se domani sera saremo in Roma sarà gioia. Se no incitamento! A Roma si va, l'Europa è concorde. Viva l'Italia!

Vostro
L. Frapolli".

E a Roma si andò per la breccia di Porta Pia e il sacro voto dei liberali italiani omai era compiuto.

Il 7 settembre 1870 il Ministro degli Affari Esteri spediva una circolare con la quale si rendevano noti i pericoli che minacciavano la patria e la chiesa, concludendo con queste parole:

"S. M. il Re, custode e depositario dell'integrità e dell'inviolabilità del suolo nazionale, interessato come sovrano di una nazione cattolica a non abbandonare alla mercè di qualche sorpresa il capo della chiesa, prende, come è suo dovere, con fiducia in faccia della cattolicità e dell'Europa, la responsabilità del mantenimento dell'ordine nella penisola e della tutela della Santa Sede. – Il governo di S. M. non può aspettare a risolversi, avvenimenti che conducano all'effusione del sangue tra i romani e le forze straniere. – Noi occuperemo pertanto, allorquando le nostre informazioni lo dimostrino opportuno, i punti necessari per la sicurezza comune, lasciando alle popolazioni la cura della loro propria amministrazione".

Fu quindi ordinato che fossero pronte le truppe destinate all'occupazione di Roma, sotto il comando del generale Cadorna.

Dato l'ordine, le truppe italiane dopo di avere occupato Viterbo, Civita-Castellana, Frosinone, Civitavecchia e le terre dell'Agro, il giorno 17 settembre il 4o corpo d'armata si mosse su Roma; da altre parti muovevano le divisioni Bixio e Angioletti, e tutte queste truppe furono disposte intorno alla città in modo da accerchiarla.

Nella mattina del 20 settembre fu ordinato l'attacco. La Porta Pia veniva sfondata a colpi di artiglieria, e accanto ad essa, aperta una breccia nella cinta delle mura. Ottenuto questo risultato, fu ordinata la sospensione dei fuochi d'artiglieria e le truppe furono mandate all'assalto. I battaglioni dei bersaglieri e di fanteria si avventano a passo di carica sulla barricata della porta e dentro l'apertura della breccia, non arrestati dalla mitraglia e dal fuoco di fucileria dei mercenari pontifici che facevasi sempre più vivo ed intenso. Mentre questo avveniva a Porta Pia, il generale Bixio, dopo essersi impadronito di villa Panfili e del Casino dei quattro venti, aveva affrontato e sperso il nemico a Porta S. Pancrazio.

L'ingresso delle truppe italiane fu accolto con segni di vivissima gioia e di entusiasmo da parte del popolo di Roma.

Il giorno 2 di ottobre si procedeva al plebiscito che riusciva imponente, poichè i voti affermativi sommarono a 135,291 mentre i negativi furono 1507 soltanto.

Non erano trascorsi due mesi da questo avvenimento felice per la nazione italiana, che la Casa di Savoia riceveva un grandissimo attestato della fiducia che godeva in Europa.

Le Cortes di Madrid assicurate del consenso di Vittorio Emanuele e del principe reale, proclamavano Amedeo duca d'Aosta Re di Spagna.

Il 3 di dicembre giungeva a Firenze la deputazione che portava al nuovo Re la fausta notizia.

Al palazzo Pitti erano presenti al ricevimento i grandi dignitari dello Stato, i ministri della Corona e la rappresentanza delle due Camere del Parlamento Nazionale.

Al discorso del signor Ruiz Zorilla il Re rispose con brevi parole, accordando all'amato figlio il consenso di accettare il glorioso trono a cui lo chiamava il voto del popolo spagnolo.

Il Duca d'Aosta, con voce commossa significava la sua accettazione, e l'atto solenne, che proclamava Amedeo Re di Spagna, veniva rogato; e poco appresso egli si recava alla capitale del suo regno, animato da sentimenti liberali e d'amore pel popolo che lo aveva prescelto a suo Re.

Ma ben presto si manifestarono nelle provincie spagnole ed anche nella stessa capitale segni di non dubbia ribellione.

Il 18 luglio del 1872 si attentava alla vita del giovane Re ed a quella della regina ed i due sposi furono miracolosamente salvi.

Mentre assieme alla regina attraversava in carozza una delle più popolose vie di Madrid, vennero tirate addosso ai reali parecchie fucilate.

Non si sgomentò per questo il figlio di Vittorio Emanuele e continuò nella incominciata impresa di ricondurre la pace, imprimendo un regime liberale, fra quelle popolazioni.

Ma i torbidi crebbero talmente di gravità che Amedeo di Savoia, vedendo di non poter governare senza venir meno alla costituzione, piuttosto che mancare al suo giuramento o far versare in una lotta civile sangue spagnolo, decise di rinunziare spontaneamente alla corona.

E così fece: e il dì 11 febbraio 1873 ritornava, non più Re di Spagna, ma principe di Savoia acclamato in seno alla patria sua.

CAPITOLO XXVII

Morte di Mazzini

Il 10 di marzo 1872 moriva a Pisa, quasi profugo nella sua patria che amò tanto, dopo quasi mezzo secolo di lotte titaniche e di ineffabili amarezze, Giuseppe Mazzini.

Fin dal 1835 egli aveva incominciata la sua vita di agitatore col nobile scopo di vedere l'Italia libera tutta, libera per sempre, pronto a dare il suo concorso a chiunque avesse assunta la santa impresa del riscatto nazionale. A tale effetto istituì la grande associazione della Giovine Italia, a riscontro della Società dei Carbonari ridotta all'impotenza per difetto di capi.

Nel finire del 1831 pubblicava la famosa lettera a Carlo Alberto.

In essa, istigava il Re di Piemonte ad iniziare l'impresa dell'emancipazione nazionale, dipingendogli lo stato dell'Italia, gli ideali e le speranze del popolo italiano; suggerendo al Re quello che doveva fare per la nazione.

Coi suoi scritti tenne vivo l'amore della patria. Col lavoro indefesso di 17 anni, dal 31 al 48, col suo apostolato di fede e d'amore, si acquistò la simpatia non solo degli Italiani ma dell'Europa, che vide in lui, l'incarnazione dei tempi nuovi e l'apostolo della redenzione.

Quando Pio IX salì al Pontificato, Mazzini levava un'altra volta la voce ricordando al Papa le sventure d'Italia ed invocando il suo intervento per farle cessare.

Caduto in Francia il Regno di Luigi Filippo nel febbraio del 1848, radunati quanti più potè esuli che si trovavano a Parigi; fondava l'Associazione nazionale italiana a scopo unitario.

L'Italia si svegliava colla gloriosa rivoluzione di Palermo, Messina e Catania e colle 5 giornate di Milano, seguite dall'eroica Brescia, dai moti dell'Italia centrale e dall'intimazione di guerra all'Austria da parte di Carlo Alberto.

Nella guerra del 48 seguì la legione dei volontari capitanati da Garibaldi, finchè sfinito di forza dovette rifugiarsi a Lugano.

Alla notizia dolorosa della rotta di Novara l'assemblea Romana elesse un triumvirato che pensasse alla difesa della proclamata repubblica e Mazzini fu eletto triumviro con Saffi e Armellini.

Contro Roma si erano unite Austria, Spagna, Francia e il Re di Napoli, ma la gloria di distruggere la repubblica Romana, che seppe difendersi con tanta gloria, doveva spettare tutta alla repubblica francese.

Mazzini credette sempre essere indispensabile all'Italia l'unione di tutti i suoi figli per diventare e conservarsi libera, gloriosa e potente; e quando nel 59 fu intimata dal Re Vittorio Emanuele la guerra contro l'Austria, egli dichiarava che si univa al concetto di Garibaldi, perchè anteponeva ad ogni cosa, l'unità della patria; il che era la base dei suoi principi.

Nel campo liberale Mazzini era considerato lo spirito della rivoluzione, Garibaldi la forza. Senza Garibaldi l'unità d'Italia forse non si sarebbe fatta; ma senza Mazzini, che fece iniziare i moti di Sicilia, Garibaldi non avrebbe accettata l'impresa dei Mille e non sarebbe sbarcato a Marsala.

La morte di Mazzini lasciò un vuoto profondo nel cuore degl'Italiani; poichè molti riconobbero troppo tardi qual'uomo egli era; quale l'opera spesa disinteressatamente per la patria redenzione; le lotte alteramente sostenute fra la santa ribellione e la ancor più santa abnegazione – l'impulso dato in ogni tempo alla causa nazionale. Con Mazzini si spense il cuore animante alla rivoluzione, il grande mezzo che portò l'Italia da Torino a Roma – e alla sua memoria la venerazione che gli si tributò è inferiore a quanto egli meritasse, a quanto, senza pompa e senza lenocini, gli tributa dal cuore il risorto popolo italiano.

CAPITOLO XXVIII

Morte di Vittorio Emanuele II

Il Re Vittorio Emanuele II nel 31 dicembre del 1870 entrava per la prima volta in Roma per recarvi generoso soccorso; il Tevere uscito dal suo letto, apportava desolazione e ruina.

Nel 2 luglio del 1871, accolto prima in Campidoglio dal plauso, dalle benedizioni e dall'esultanza di 30 milioni d'Italiani, prendeva gloriosamente possesso del Quirinale, nuova sua Reggia, pronunciando le memorabili parole "ci siamo e ci resteremo".

Roma italiana, dopo la sua proclamazione a capitale del risorto paese, accolse nel Quirinale parecchi sovrani e principi esteri venuti a visitare il Re Vittorio Emanuele, riconoscendo con tale atto il nuovo regime costituzionale: l'imperatore Don Pedro del Brasile, il re ed il principe di Danimarca, il principe Federico Carlo di Prussia, l'arciduca Nepomuceno d'Austria, il re e la regina di Grecia, il principe di Galles, il duca di Edimburgo ed altri. Tutti ebbero a lodarsi delle festose accoglienze, e l'ammirazione d'ognuno fu grande e completa per le particolari doti di pensiero e di cuore del nuovo Re d'Italia.

Nel 1873 Re Vittorio visitò Vienna e Berlino, accolto con entusiasmo che sembrò delirio – egli ovunque personificava il popolo italiano risorto a vita novella, ed il Re galantuomo sapeva rappresentare un popolo che aveva diviso e divideva le sue aspirazioni.

Nel febbraio 1874 giunse in Italia la notizia della morte di Nino Bixio, il soldato intrepido, temerario, di animo bollente e dell'inerzia sdegnoso. L'ardore di operosità che lo divorava l'aveva spinto, quando non era più richiesta l'opera delle armi, a correre in lontane regioni per schiudere nuova via al commercio italiano, ed in selvaggie ed inospitali contrade la morte crudele, che egli aveva tante volte affrontata sul campo di battaglia, lo fece sua vittima.

Morendo egli pensò alla patria, alla sua famiglia che raccomandò al Re. E non fu vana la raccomandazione.

In data 14 febbraio 1874 il Re indirizzava da Napoli – ove pervennegli la notizia – il seguente telegramma al Ministro Minghetti:

"Ricevetti ieri il rapporto che Ella mi manda sulla morte del povero Bixio. La prego di fare per parte del Governo quello che si potrà per la famiglia. Io pure son disposto aiutare. Faccia il piacere di dirmi, dopo che Governo e ordine mauriziano avranno fatto la loro parte, con qual pensione creda che io possa contribuire".

Il 5 aprile 1875 l'imperatore Francesco Giuseppe restituiva a Venezia la visita fattagli da Re Vittorio a Vienna, e sull'ottobre l'imperatore Gugliemo di Germania giunse a Milano ospite del Re, accolto con un entusiasmo veramente commovente.

Intanto Re Vittorio dava impulso al riordinamento della vita pubblica italiana, prendendo viva parte al rinnovamento della vita nazionale, conscio e compreso dei suoi doveri di cittadino e di Re. E come alto fosse in lui questo sentimento lo dimostrano le parole da lui profferite nel discorso della Corona il 20 novembre 1876:

"Da 6 anni celebriamo in Roma la festa dell'unità nazionale. Dalla integrata unità avemmo frutti di gloria e prova di sapienza civile. Molto si è fatto, molto rimane a fare. Rimane l'opera che vuole maggiore pazienza e lavoro e maggiore concordia d'intento; quello di consolidare tutto l'edificio governativo, e dove occorre, correggerlo. A questo non si può riuscire che con una gara sincera di operosità e di costanza. Io vi addito la via e sono certo che anche in queste battaglie pel riscatto civile, la mia voce troverà risposta di nobili sacrifizi e di gloriose vittorie".

Il primo gennaio 1878, Vittorio Emanuele ricevette, senza dare il benchè minimo sospetto di sofferenza, le deputazioni del Parlamento, i grandi dignitari dello Stato e molte altre rappresentanze, ed a tutti ricambiò con volto lieto gli auguri pel nuovo anno.

Alla sera si recò al teatro Apollo; nel tornare a casa si lagnò d'un gran caldo e fece abbassare i cristalli della carrozza. Giunto nelle sue stanze volle che il primo cameriere aprisse le finestre; si fece portare dell'acqua ghiacciata ed accese un sigaro, si mise a fumare sul davanzale della finestra.

Il giorno 2 andò a Castel Porziano per iscuotersi "come egli disse" e ne ritornò verso il mezzogiorno, chè il malessere andava crescendo.

Il giorno 3 ricevette al Quirinale il presidente del Consiglio dei Ministri per la firma dei decreti.

– "Vede, Depretis", gli disse: "contrariamente alle mie abitudini ho fatto accendere il fuoco, perchè sento un grande freddo – . La scorsa notte l'ho passata male".

– "Bisogna curarsi, Maestà!

– "Mi curo; mi astengo dall'andare a caccia; del resto se di notte non mi sento bene, di giorno la va meglio".

Ciò detto si diede a firmare.

Aveva letto un decreto che collocava in aspettativa per motivi di salute un impiegato. Rivolto a Depretis, gli disse sorridente:

– "Anche io avrei bisogno di un po' d'aspettativa per l'eguale ragione.

– "Maestà – gli rispose il Ministro alquanto turbato, ma seguendo lo scherzo del Sovrano – per i Re i motivi di salute non sono sufficienti per avere l'aspettativa".

Il Re tacque e continuò a firmare.

Il 4 di mattino, il Re aveva dato le disposizioni di partenza per Torino, ma la debolezza lo costrinse a cedere al male e a rimettersi a letto; fece chiamare il medico. Il Saglione, comprese subito che la cosa era grave, ma non diede a capir nulla al Re; soltanto domandò ed ottenne che fosse consultato un altro medico. Si telegrafò al Professore Bruno in Torino e fu chiamato l'on. Baccelli.

La mattina del 5 vi fu aumento di febbre prodotto dalla polmonite. Al tocco, arrivato il Dottore Bruno, si tenne consulto. I tre dottori si trovarono d'accordo nella diagnosi della malattia ed ordinarono una dose di chinino come disinfettante e una buona emissione di sangue, mediante salasso. Il Re era recisamente avverso a farsi aprire la vena: ma il professore Baccelli disse risolutamente:

– "Maestà, la nostra responsabilità innanzi a Voi e al paese, è troppo grande, perchè noi si faccia uso di tutti i nostri diritti. Vostra Maestà sarà Re finchè vuole; ma in questo momento i re siamo noi e Vostra Maestà è nostro suddito".

Vittorio Emanuele sorrise, sporse il braccio e si prestò al salasso; dopo del quale si sentì un po' meglio.

Il quinto giorno della malattia si sperava in una crisi benefica. Da Firenze venne chiamato il professore Cipriani, da Pisa il professore Landi, ma la crisi benefica non venne!

Nella mattina del giorno 9 i medici avvertirono un forte peggioramento. Gli ufficiali di servizio furono mandati ad avvisare i principi reali, i ministri e i grandi dignitari della Corte.

Il professore Bruno ebbe incarico di chiedere al Re, se era disposto a ricevere i conforti della religione.

Il Re calmo, si volse al medico e gli disse:

– "Ma dunque la malattia è ben grave?

Il dottore riprese che si trattava di una precauzione – e il Re replicò, "Facciano pure".

Il Re prese il viatico con grande serenità di spirito e disse:

– "Io speravo di morire sul campo di battaglia: ma pazienza! – Muoio almeno in questa Roma, in mezzo al mio popolo".

Dopo il Viatico passarono avanti al Re, affranti dal dolore, i ministri e i dignitari e il Re li salutò tutti.

Al figlio suo disse queste testuali parole:

– "Mio Umberto – caro figlio mio – ti raccomando fortezza, amore alla patria e alla libertà".

Il principe che era inginocchiato accanto al letto, assieme alla principessa Margherita piangente, giurava al padre suo che non avrebbe dimenticati i suoi ultimi comandi e i suoi doveri.

Verso le 11 Vittorio Emanuele – il Grande Re – il Padre della Patria – entrava in agonia, che durò pochi minuti. Quando il prof. Bruno disse: "Il primo Re d'Italia è morto" fu uno scoppio unanime di pianto.

E così il dì 9 gennaio 1878 in Roma, nel palazzo del Quirinale cessava di vivere, dopo breve malattia, il Gran Re a cui l'Italia deve la sua unità, la sua indipendenza.

La morte di Lui fu cagione di lutto per la intera nazione e del più vivo dolore per ogni buon italiano.

I suoi funerali furono imponenti – Tutta Italia fu largamente rappresentata; e sulla sua tomba al Pantheon, asilo supremo della sua pace immortale, si scrissero le parole – vere – eloquenti – nella loro brevità:

A VITTORIO EMANUELE II
PADRE DELLA PATRIA

E il Pantheon rimarrà sempre luogo di pellegrinaggio per i veri e sinceri patriotti.

Vittorio Emanuele fu fedele mantenitore delle franchigie concesse al popolo da Carlo Alberto; e mai s'oppose ai progressi richiesti dai nuovi tempi di civiltà e dal bene del paese; supremo fine dei suoi desideri. Nella storia del regno di Vittorio Emanuele si racchiude la storia d'Italia di trent'anni; giacchè alla grand'opera della redenzione egli si era accinto fin dai primordi del suo regnare e mai si arrestò, mantenendo le libertà giurate, ricevendo nel piccolo Piemonte gli esuli d'ogni parte d'Italia, resistendo alle minaccie ed alle prepotenze straniere e, giunto il momento desiderato, sguainando la spada per l'indipendenza ed unità della patria.

La memoria di Vittorio Emanuele sarà sacra in eterno nel cuore degli Italiani.

Fu fortuna per la patria nostra, da poco sorta a nazione, che Umberto I successore al Gran Re nel trono d'Italia fosse degno figlio del Gran Genitore, e che le sorti della nazione non corressero con lui nessun pericolo, sapendosi come immenso fosse in lui l'amore all'Italia e il sentimento di volerla prospera e grande.

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