Kitobni o'qish: «Il bacio della contessa Savina»
I
Il romanzo della mia vita incomincia quando io avea diciott'anni, e passavo gran parte del giorno al balcone, in casa di mio zio canonico. Allora la contessa Savina di Brisnago aveva sedici anni, e ricamava, seduta presso al balcone dirimpetto del mio. Era una bella giovanetta, aveva un profilo dolcissimo, un nasino provocante, una bocca soave, capelli neri rilevati sulla fronte, occhi bruni, divini. Mi pareva un angelo sceso dal cielo, tanto i suoi movimenti erano leggiadri e maestosi. Io non mi saziava mai di contemplarla, ella di tratto in tratto alzava la testa dal lavoro, si passava una mano sulla fronte, si lisciava i capelli, poi con aria distratta guardava il cielo, le case di fronte e le tendine della finestra. Il suo sguardo percorrendo questa linea attraversava naturalmente il mio balcone, e quantunque passasse come un lampo, pure mi gettava lo scompiglio nell'animo. Non saprei spiegare l'arcana attrattiva, che come un filo invisibile mi legava a quella fanciulla, tenendomi immobile per delle ore.
Veronica, entrando nella mia stanza come una valanga, rompeva sovente quel fascino annunziandomi il pranzo. Allora io scendeva e andava a collocarmi a mensa dirimpetto dello zio, che mangiava con grande appetito, mentre io inghiottiva ogni cibo con ripugnanza. Egli mi interrogava sui miei studi, mi parlava di pedagogia, di metodica, d'aritmetica; io rispondeva sbadatamente, pensando a quella finestra. Finito il pranzo, mio zio si ritirava a fare il suo chilo, ed io ritornava alle mie estatiche contemplazioni. In casa Brisnago pranzavano molto più tardi di noi, e talvolta prima del pranzo andavano a fare un giro pel corso. Allora ella si alzava da sedere, dava un'occhiata fuori della finestra, guardava alla sfuggita la nostra casa, ed io sentiva il dardo fatale entrarmi nel cuore e lacerarlo. Essa scompariva, e qualche tempo dopo lo scalpito dei cavalli e il rumore della carrozza mi avvertivano della partenza.
Allora io prendeva il mio cappello, e me ne andava girovagando per le vie di Milano sulle traccie della mia stella. La trovavo quasi sempre sui bastioni, i nostri sguardi si scontravano rapidamente ed io rimaneva come sbalordito a contemplare quel cocchio che correva portando con sè qualche cosa di me stesso; tanto è vero che imbattendomi per via in taluno de' miei amici che si arrestava a parlarmi, io faceva la figura di un imbecille, e mi restava appena appena tanta intelligenza da accorgermene.
Mio zio canonico non s'avvedeva di nulla; rinchiuso nella sua sfera d'azione, egli compieva le sue evoluzioni quotidiane con esattezza inappuntabile. La messa e la colazione, le sacre funzioni ed il pranzo, il breviario e il passeggio, il chilo ed il sonno si succedevano per lui con tale regolarità, che i nostri vicini se ne servivano per regolare gli orologi, e dicevano: – il canonico Carletti va a dir messa: sono le otto; il canonico va a cantar vespro: sono le due. La nostra vita rassomigliava perfettamente ad un cronometro; Veronica era la seconda ruota, come io era lo scapamento che riceve l'impulso, e tutto si muoveva per addentellato del motore principale, ossia del padrone di casa.
Mio zio metteva la felicità nella precisione dei movimenti, e ciò appunto formava la mia desolazione, sentendo il bisogno di muovermi secondo i variabili impulsi della mia natura. Ma bisognava rassegnarsi a trascinare la catena che mi veniva imposta dal mio benefattore, perchè io non era che un povero orfano. Privo delle carezze dei genitori, in tenera età, mio zio ricoverandomi in casa sua mi salvava dalla miseria; io non aveva ereditato che una piccola medaglia di bronzo che mia madre teneva al collo per divozione, e che dopo la sua morte venne appesa al mio letto, come talismano dell'infanzia. La mia sommessione era dunque un dovere e in pari tempo una necessità, che per mezzo dell'educazione mi apparecchiava l'indipendenza per l'avvenire.
Ma io mi risarciva della schiavitù personale colla libertà dello spirito. Sdraiato sul canapè della mia cameretta accendeva uno sigaro e mi metteva in viaggio. La mia fantasia usciva dalla finestra sulle spire del fumo, e volava per l'ampio orizzonte con la rapidità del pensiero. Se potessi rammentarmi quelle peregrinazioni meravigliose, scriverei un bel volume. Mio zio mi destinava all'istruzione, io accettava il suo piano come un mezzo d'emanciparmi, ma mi pareva di sentire in me stesso una voce che mi chiamasse a più alti destini. Quel sentimento d'amore che mi agitava l'anima aveva acceso nella mia mente una scintilla che mi svelava un nuovo mondo; i miei pensieri si elevavano ad un'altezza sublime che, rivelata con l'arte, avrebbe destato la meraviglia universale. L'amore mi additava il cammino della gloria e della fortuna. Avevo incominciato una tragedia, il Lucchino Visconti, ove tentava rivelare gli arcani d'un'anima innamorata e mi pareva che la comparsa del mio lavoro avrebbe introdotto una riforma radicale del teatro italiano. E mi sembrava già di vedere il pubblico, esaltato dall'entusiasmo, portarmi a casa in trionfo.
All'indomani dovevano naturalmente piovermi addosso gl'inviti, le onorificenze e il denaro; ad ogni produzione l'oro invadeva il mio scrittoio. Una nuova poesia era comparsa alla luce col corteggio della ricchezza; il poeta tradizionale lacero, tapino e ridicolo cedeva il passo al principe delle lettere, del quale tutti ambivano i favori. Egli dava vita alle sue stupende creazioni in una splendida dimora, fra i bronzi, i marmi, le pitture, e il lusso d'un palazzo incantato.
Con tali presagi nell'animo mi affacciavo alla finestra; gli occhi della mia musa si alzavano, e un fluido celeste mi avvolgeva, come in un nimbo di gloria. Niente mi pareva impossibile nella vita: io sentiva una fiamma che mi rendea onnipotente.
Un giorno fra gli altri me ne stavo assorto in una di queste estasi eteree, quando la Veronica entrò nella stanza.
– Daniele, – essa mi disse, – avete pensato che s'avvicina l'inverno, che il freddo incalza, che avete il pastrano sdruscito, gli stivali sgualciti, i calzoni rattoppati?
– Veronica, – io risposi gravemente, battendomi sul petto, – io tengo qua dentro dei tesori che possono procurarmi tutti gli agi della vita…
Essa mi guardava con tanto d'occhi spalancati credendo che alludessi al mio portafogli, poi mi domandò ansiosamente:
– Avete dunque molto denaro in saccoccia?
– Io?.. non ho che cinquanta centesimi…
– Ma dunque di che tesori mi parlate?
– Vi parlo dei sentimenti del cuore che ispirano la mia mente… e la rendono capace di produrre quelle opere che attirano l'ammirazione degli uomini, e arricchiscono gli autori. Sono sicuro dell'avvenire!
– Tanto meglio… ma l'avvenire è in mano di Dio… invece i vostri vestiti li tengo nelle mie mani ogni giorno, ne conosco tutti i sdruciti e le mende, e vedo la necessità che il sartore ve ne faccia di nuovi. Monsignore vi vuol bene, ma i canonici non possono conoscere tutti i bisogni della gioventù. Tocca a voi domandare quanto vi manca… Su via, volete che gliene parli io?..
– Cara Veronica… come siete buona!.. avete sostituita mia madre sulla terra… che il cielo vi benedica mille volte.
E pensando alla mia miseria e all'ottimo cuore di quella donna, io piangeva come un fanciullo. Allora essa mi calmava chiamandomi matto, smemorato, fantastico, epiteti coi quali soleva generalmente esprimermi la sua affezione. Poi correva ad enumerare i miei bisogni allo zio, ed il buon vecchio mi apriva la borsa. Io mi limitava al necessario ed egli, dopo pagate le spese, si lodava della mia discrezione e modestia.
Così, io passava la vita tranquilla alla superficie, burrascosa nel fondo. Quell'inverno mi fuggì rapidamente; meno qualche ora di scuola e di passeggio, io viveva in casa, ritirato nella mia cameretta, ma col cervello sempre in viaggio. Una finestra e dei libri mi davano maggiori occupazioni, gioie, ansie, affanni, peripezie che non ne provassero i viaggiatori più arditi che investigavano le sorgenti del Nilo o l'interno dell'Africa. Difatti la prospettiva di quella finestra ove stava seduta la contessa Savina corrispondeva per me ai più stupendi panorami del globo, e la mia fantasia percorreva le ridenti regioni dei sogni, più vaghi di qualunque altro paese. E se i viaggiatori avevano a temere i selvaggi e le fiere, io pure aveva da paventare i potenti rivali che circondavano il mio idolo. Essa frequentava le conversazioni, i balli, i teatri, ed io non poteva seguirla che col pensiero; e l'accesa immaginazione la vedeva corteggiata da giovinotti suoi pari nei salotti eleganti, nel palchetto del teatro, o trasportata nelle loro braccia nei vortici delle danze, fra i doppieri ardenti, il profumo dei fiori, e l'ebbrezza d'una musica affascinante.
Quando alla sera io udiva dalla mia cameretta il rumore della carrozza che la conduceva ai piaceri del mondo, mi sentiva il raccapriccio come un uomo assalito dalla febbre. Quante notti insonni ho passate a raggirarmi nel letto, quanti strani progetti ho concepiti colla fantasia malata, rammentandomi il pugnale d'Otello, e di tutti gli amanti che vendicarono gli oltraggi ricevuti dalle donne adorate! La sola diversione, l'unico conforto dei miei affanni era lo studio assiduo ed intenso.
La libreria dello zio non mi forniva che i classici, ma un professore che mi voleva bene mi somministrava un'ampia messe di produzioni moderne. Io mi perdeva nelle meditazioni, e passava le lunghe sere del verno avvolto in un vecchio tabarro del Canonico, a leggere ed annotare i più celebrati lavori dello spirito umano: e quando la divina fanciulla, reduce dalle feste del gran mondo, dopo la mezzanotte, saliva alla sua stanza signorile nel palazzo Brisnago, essa poteva vedere il pallido lumicino dello studente che vegliava agghiacciato, per arricchire la mente di quelle cognizioni che innalzano l'uomo sapiente al disopra dei nobili, dei ricchi e degli eletti della fortuna.
Mi coricavo assai tardi affranto dalla fatica, intirizzito dal freddo, oppresso da pensieri dolorosi e da atroci sospetti, ma all'indomani uno sguardo di quegli occhi rasserenava il mio spirito, e scacciava le ombre dei cupi pensieri, come il sole che sorge scaccia le tenebre e ridona alla terra lo splendore e la vita.
Tuttavia un dubbio funesto veniva sovente nella solitudine a colpirmi con dolorosi tormenti. Quella fanciulla che con uno sguardo accendeva nel mio cuore una fiamma celeste, che esaltava il mio spirito con ispirazioni sublimi, che mi parlava con l'arcano linguaggio degli occhi, sentiva essa all'unisono colla mia anima, riceveva essa da me le stesse impressioni?.. O m'ingannavo nel tradurre il sanscrito del cuore e i geroglifici della passione?.. Tale sospetto mi gettava nello sgomento, e mutava i rosei sogni della mia fantasia negli abissi della più cupa disperazione. Allora attendeva ansiosamente la ricomparsa di lei, per rileggere con raddoppiata attenzione in quegli occhi misteriosi, eppur tanto fatali. E immobile al balcone contava le ore che passavano lentamente, fino a che un lieve agitarsi di seriche tende annunziava la presenza della mia sfinge!
Oh Dio, quali momenti!.. Essa guardava altrove, arrestava il suo sguardo sulla via, il mio cuore batteva tanto forte da rompermi il petto, se non lo avessi compresso colla mano, il dubbio terribile stava per diventare certezza, mi sentivo venir meno, e se fosse partita senza alzare lo sguardo, forse mi avrebbero trovato morto al mio posto. Ma essa volgeva la testa tranquillamente a diritta ed a manca, e a poco a poco mi passava davanti col suo sguardo profondo, rapido ma penetrante, che m'immergeva in un'estasi di amore e di delizie. Ah sì!.. quello sguardo era una espressione viva e sincera dell'anima, un'espressione che non aveva parole corrispondenti nell'umano linguaggio, era assai più soave d'un profumo, più armonioso d'una melodia, era un fluido supremo che m'invadeva, indefinito, indefinibile, sottile, impalpabile, ma positivo come la luce e l'elettrico.
Quello sguardo mi rassicurava pienamente con effetto istantaneo, ma poi a poco a poco, a cagione di nuove reazioni, quella persuasione scemava colle ore che passavano, col sole che tramontava, col buio della notte che mette in dubbio ogni cosa. All'indomani nuova prova e nuovo trionfo, indi nuove lotte fra la speranza e la ragione, fra la fede ed il dubbio.
Tali burrasche mi condussero alla primavera. Alla primavera ogni semente germoglia, sboccia ogni gemma, ogni pianta fiorisce, ogni cuore si espande. Una corrente invisibile attraversa la vita, l'agita, la suscita, la rinnova. Io mi sentiva scorrere il sangue per le vene con ardore inusitato. Le lotte interne del mio animo indicavano il bisogno d'una prova decisiva. Ma quale prova? un abboccamento era impossibile, un viglietto era pericoloso. Il ridicolo, la volgarità m'incutevano una ripugnanza insormontabile. Il mutuo linguaggio degli occhi esigeva una spiegazione discreta, corrispondente al mistero usato fino allora, senza imprudenze, nè audacie le quali rompessero la catena che legava segretamente due anime in celeste armonia.
Ma una prova io la sentiva necessaria, inevitabile. Da essa doveva dipendere l'avvenire, cioè la vita o la morte.
Pensai per molti giorni al modo più opportuno, e lo fissai d'accordo ai miei sogni orientali. Il linguaggio dei fiori m'offriva un mezzo analogo a quello degli occhi, ma più positivo e sicuro per interrogare l'oracolo. Io vedeva ogni giorno che la contessa Savina passeggiava per qualche istante nel giardino che fiancheggiava il suo palazzo e la strada. Mi decisi di procurarmi alcuni fiori, di farne un mazzetto, e di gettarlo ai suoi piedi, attendendo la mia sorte dal suo contegno. Se non mi amava, sarebbe passata oltre con disprezzo, e forse con isdegno, se mi amava avrebbe raccolto i miei fiori. Con tale determinazione mi recai da un giardiniere ed acquistai delle violette mammole e dell'eliotropio.
Il mazzetto voleva dire: – modestia, vi amo con ebbrezza. Avrebbe essa inteso o indovinato il mio pensiero? era dubbio; ma in ogni caso i miei fiori avevano un significato evidente, e ciò bastava per darmi la prova del suo aggradimento o del suo disprezzo.
Me ne tornavo a casa deciso di tentare la sorte, quando la Veronica mi venne incontro sulle scale annunziandomi che mio zio s'era messo a letto colla febbre. Deposi il mazzolino di fiori nella mia stanza, e corsi pel medico che condussi subito dal malato.
Il dottore lo conosceva da molti anni, lo esaminò attentamente, e toccandogli il polso lo interrogò. Mio zio accusava una prostrazione di forze generale, e molte sofferenze nervose.
– Monsignore ha forse ottemperato con troppo rigore ai digiuni quaresimali?
Veronica dietro le tendine del letto dimenava la testa in segno negativo.
Mio zio rispose che non potendo alterare le sue abitudini senza danno della salute, s'era sempre cibato col solito sistema.
– Ma pure, – insinuava il dottore, – deve essere avvenuta qualche infrazione al metodo regolare di vita.
– Sicuro, – rispose Veronica, – dopo cambiato l'orario del coro, Monsignore non è stato più bene.
– È verissimo, – soggiunse il malato, trovandosi cambiata l'ora del vespro, ho dovuto alterare di conformità l'ora della messa, della colazione, del passeggio e del pranzo. Il ritardo del vespero ha perturbato l'ordine della mia vita e delle mie funzioni.
– Ecco, ecco, – soggiunse il medico, – ecco scoperta la causa. Ripareremo facilmente allo sconcerto, ma bisogna assolutamente che Monsignore si decida a modificare il suo sistema di vita. Non va bene rendersi troppo schiavi delle proprie abitudini, perchè ad ogni fortuita alterazione s'arrischia di cadere malati. Monsignore ha bisogno d'esercizio all'aperto, all'aria ossigenata dei monti.
Scrisse la ricetta, poi continuò:
– Mi pare che Monsignore posseda un poderetto in Valtellina?
– Oh, – rispose mio zio, – una casetta e pochi campi.
– Benissimo. Nella prossima estate bisogna visitare la casetta e andare ai bagni di Bormio.
– Sono tanti anni che non mi muovo da Milano…
– E appunto per questo bisogna rompere le abitudini troppo regolari, per ristabilire le forze. Monsignore non è vecchio, ma la vita sedentaria rende flosci, e ci apparecchia una vecchiaia precoce e piena di sofferenze. Monsignore vada ogni anno a prendere i bagni, si muova, respiri l'aria pura dei monti…
– Vedremo, vedremo, – rispondeva mio zio.
Il dottore avendo date le sue istruzioni alla Veronica, raccomandò al malato la quiete, e partì, ma le sue idee avevano sconvolto la casa. Mio zio al solo pensiero d'un viaggio provò una recrudescenza di tutte le sue sofferenze, ed alla sera si sentì raddoppiata la febbre.
La Veronica non poteva darsene pace:
– Benedetti dottori! – esclamava, – essi trovano tutto facile, ordinano colla stessa indifferenza un decotto di camomilla e l'amputazione d'una gamba. Bisogna non conoscere il padrone per imporgli un viaggio in Valtellina. Misericordia!..
Basti il dire che riceve le visite di riguardo tenendo l'occhio fisso sul pendolo, e quando la lancetta dei minuti indica il momento preciso destinato ad altre occupazioni, si alza, con un pretesto rompe il colloquio più interessante, ed obbliga i visitatori ad andarsene.
Un giorno mi raccontò che avendo incontrato l'Arcivescovo, e questi avendolo invitato a seguirlo per intrattenerlo d'un affare importante, sul più bello del discorso lo abbandonò in mezzo alla strada con una scusa, avendo udito suonare l'ora del pranzo.
Se trova sul piatto il tovagliuolo piegato in bislungo invece che in quadro, tale disordine gli fa perdere l'appetito. Se alla sera quando va a letto vede la boccia dell'acqua davanti i fiammiferi, mi fa una scena del diavolo enumerando tutti gli inconvenienti ai quali lo espongo, caso mai avesse bisogno di accendere il lume nella notte. Immaginarsi d'esporre un tal uomo ai ritardi delle diligenze e dei battelli del lago, è cosa da farlo morire!.. —
Io cercavo di consolarla alla meglio, ma invano.
Il giorno seguente il medico trovò il malato più tranquillo, scrisse un'altra ricetta, ordinò dieta più sostanziosa, e due dita di vino vecchio… poi soggiunse:
– Monsignore si troverà bene dopo i bagni di Bormio e il suo viaggio nelle montagne…
Veronica alzava gli occhi al cielo e dimenava la testa.
Per buona fortuna il malato non tardò molto a ristabilirsi ed a riprendere le sue abitudini.
Ma intanto, occupato nell'assistenza di mio zio, non ebbi il tempo di fare la progettata esperienza e i miei fiori appassirono. Poveri fiori!.. ho passato una sera a contemplarli come un triste presagio. Essi mi presentavano l'immagine della gioventù che passa, mentre la mia stella brillava forse in qualche festa spargendo dintorno la luce e il profumo della sua bellezza! Mi affacciai alla finestra odorando distrattamente il mio mazzetto avvizzito. Essa comparve improvvisamente, e mi sembrò di scorgere nel suo rapido sguardo un leggiero indizio di sorpresa, dissimulato ben tosto, ma non abbastanza prontamente da non lasciarmi indovinare dal cipiglio severo un senso di malcontento, che interpretai come un effetto di gelosia. Come era bella con quel cipiglio che pareva dirmi: – chi vi diede quei fiori?.. In quell'istante passava per la via uno spazzino, io gettai con destrezza il mazzetto di fiori nella sua carriola; essa vide il mio atto, i suoi lineamenti mutarono espressione, sorrise a fior di labbra, mi guardò con soddisfazione e scomparve.
Io aveva letto sul suo volto una nuova prova d'amore. Leggiero come l'uomo felice, volai per le scale, e accorsi al negozio di fiori. Mi feci approntare un nuovo mazzetto più bello del primo. Si componeva d'una rosa nel centro, circondata da violette mammole ed eliotropi. Quei fiori esalavano un profumo soave, e dicevano chiaramente: bellezza e modestia, vi amo con ebbrezza. Ritornato a casa, aspettai la solita ora nella quale vedevo la contessa Savina passeggiare in giardino. Intanto io deponeva un bacio sopra i miei fiori e invidiando la loro sorte, insegnavo loro che cosa dovessero dire se ella si fosse degnata di raccoglierli; e parlavo a quegli esseri delicati come si farebbe con dei fanciulli, incaricandoli d'una commissione importante. E pensavo al destino della vita, alla bontà della natura che metteva in mia mano quei simboli dell'anima innamorata, affinchè fossero gli interpreti del mio affetto giovanile, coi loro vaghi colori, e gli olezzi penetranti, sotto gli occhi di una leggiadra fanciulla!
Finalmente sonavano le due ore dopo il mezzodì quando dalla mia finestra la vidi entrare in giardino come un'apparizione celeste.
Era una splendida giornata di maggio, e pareva che ne aspirasse con voluttà l'aria oscillante e pregna d'atomi fecondi di vita.
Contemplò le piante con ammirazione, innalzò al cielo uno sguardo sereno, poi rivolgendo gli occhi, mi vide alla finestra coi fiori.
S'era arrestata un istante, allungando il braccio per ispiccare un ramoscello, quando il mio mazzetto cadde a' suoi piedi… Ebbe un leggiero sussulto come di paura, lo vide, rimase alquanto perplessa… mentre io sentiva la mia vita sospesa. Poi abbassandosi lentamente lo raccolse, l'odorò, se lo pose in seno, alzò il capo lanciandomi uno sguardo ineffabile… ed io non vidi più nulla.
Una nube mi oscurò la vista, e caddi nella stanza come privo di sensi.
Dopo qualche istante ritornai alla finestra, ma essa era partita.