Morte al College

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CAPITOLO SEI

Appena entrata in auto, Riley dette un’occhiata alle informazioni che il Preside Autrey le aveva dato. I dettagli relativi alla morte di Deanna Webber cominciarono a tornarle in mente.

Naturalmente, ricordò, rileggendo alcune vecchie notizie sul proprio cellulare. La figlia della deputata.

La Deputata Hazel Webber era una stella nascente della politica, sposata con un noto avvocato del Maryland. La morte della loro figlia era stata sulle prime pagine dei giornali lo scorso autunno. Riley non aveva prestato molta attenzione alla vicenda all’epoca. Era apparso più come volgare gossip che una vera notizia, il genere di cosa che Riley credeva fosse affare solo della famiglia.

Ora la pensava diversamente.

Trovò il numero di telefono dell’ufficio di Washington della Deputata Hazel Webber. Quando digitò il numero, rispose un’efficiente receptionist.

“Sono l’Agente Speciale Riley Paige, dell’Unità di Analisi Comportamentale dell’FBI” Riley si presentò. “Vorrei fissare un appuntamento con la Deputata Webber.”

“Potrei sapere di che cosa si tratta?”

“Ho bisogno di parlarle della morte di sua figlia, avvenuta lo scorso autunno.”

Cadde il silenzio.

Riley aggiunse allora: “Mi dispiace di disturbare la deputata e la sua famiglia riguardo a questa terribile tragedia. Ma dobbiamo soltanto risolvere alcune questioni rimaste in sospeso.”

Ci fu ancora silenzio.

“Mi dispiace” la receptionist disse lentamente. “Ma la Deputata Webber non è a Washington in questo momento. Dovrà attendere fino al suo ritorno dal Maryland.”

“E quando tornerà?” Riley chiese.

“Non saprei dirlo. Dovrà semplicemente richiamare.”

La donna dall’altro capo del telefono concluse la telefonata senza aggiungere un’altra parola.

Si trova in Maryland, Riley pensò.

Poi, eseguì una rapida ricerca e scoprì che Hazel Webber viveva in una casa nella campagna del Maryland. Non sembrava affatto un posto difficile da trovare.

Ma, prima che Riley potesse mettere in moto la propria auto, il suo cellulare cominciò a vibrare.

“Sono Hazel Webber” una voce disse.

Riley era stupita. La receptionist doveva averla contattata immediatamente, dopo la conclusione della telefonata con Riley. Certamente non si aspettava di ricevere una sua chiamata, ancor meno di riceverla così in fretta.

“Come posso aiutarla?” la Webber le domandò.

Riley spiegò nuovamente che intendeva parlarle di alcune “questioni rimaste in sospeso” relativamente alla morte di sua figlia.

“Potrebbe essere un po’ più specifica?” la deputata chiese.

“Preferirei farlo di persona” Riley disse.

La Webber restò in silenzio per un istante.

“Temo che sia impossibile” la Webber disse. “E pregherei lei ed i suoi superiori di non turbare ulteriormente me e la mia famiglia. Proprio ora stiamo iniziando a guarire. Sono sicura che lei capisca.”

Riley fu colpita dal tono gelido della donna. Non vi trovò la benché minima traccia di dolore.

“Deputata Webber, se soltanto lei potesse dedicarmi un attimo del suo tempo …”.

“Le ho detto di no.”

Con questo, la donna mise fine alla telefonata.

Riley rimase senza parole. Non aveva idea di come interpretare quello scambio brusco e imbarazzante.

Tutto quello che sapeva di sicuro era che aveva toccato un nervo scoperto con la deputata.

E che doveva immediatamente recarsi nel Maryland.

*

Fu un piacevole viaggio di due ore. Visto che era una bella giornata, Riley prese una strada che includeva il Chesapeake Bay Bridge, pagando il pedaggio per potersi godere il passaggio sull’acqua.

Presto si ritrovò nella campagna del Maryland, dove splendide recinzioni delimitavano i pascoli, e viali fiancheggiati da alberi conducevano ad eleganti case e stalle, distanti dalla strada.

Parcheggiò davanti al cancello, fuori dalla proprietà dei Webber. Una robusta guardia in divisa uscì dal gabbiotto e le si avvicinò.

Riley mostrò il distintivo alla guardia, e si presentò.

“Sono qui per vedere la Deputata Webber” disse.

La guardia si allontanò e parlò nel microfono. Poi, si riavvicinò di nuovo a Riley.

“La deputata dice che dev’esserci una sorta di errore” disse. “Non la sta aspettando.”

Riley allargò quanto più possibile il sorriso.

“Oh, è troppo occupata al momento? D’accordo, non ho impegni. Aspetterò qui finché non potrà ricevermi.”

La guardia s’incupì, tentando di apparire intimidatorio.

“Temo che dovrà andarsene, signora” osservò.

Riley alzò le spalle, ed agì come se non avesse colto il messaggio.

“Oh, davvero, per me va bene. Non c’è nessun problema. Posso aspettare qui.”

La guardia indietreggiò, e parlò di nuovo nel microfono. Dopo aver osservato silenziosamente Riley per un momento, entrò nel suo gabbiotto e aprì il cancello. Riley lo oltrepassò.

Attraversò un ampio pascolo ricoperto di neve, dove un paio di cavalli trottavano liberi. Era una scena pacifica.

Quando raggiunse la casa, si rese conto del fatto che era anche più grande di quanto pensasse, una villa contemporanea. Scorse altri edifici ben tenuti proprio al di là di una lieve salita nel paesaggio ondulato.

Un uomo asiatico l’accolse silenziosamente alla porta. Era grosso quasi quanto un lottatore di sumo, il che faceva sembrare il suo completo da maggiordomo grottescamente inappropriato. Accompagnò Riley attraverso un corridoio a volta con un parquet rossastro, dall’aspetto costoso.

Infine, fu accolta da una donna minuta, dall’aspetto arcigno, che silenziosamente la condusse in un ufficio ordinato quasi sinistramente.

“Aspetti qui” la donna disse.

Si allontanò, chiudendo la porta dietro di sé.

Riley sedette su una sedia accanto alla scrivania. I minuti trascorsero. Fu tentata di dare un’occhiata ai materiali sulla scrivania o persino al computer. Ma sapeva che, probabilmente, stavano registrando ogni sua mossa mediante le telecamere di sicurezza.

Finalmente, la Deputata Hazel Webber entrò nella stanza.

Era una donna alta, magra ma imponente. Sembrava troppo giovane per essere stata al Congresso, per tutti gli anni che Riley ricordava, e anche per avere una figlia in età da college. Una certa rigidità intorno agli occhi poteva essere abituale o indotta dal Botox, o da entrambi.

Riley ricordò di averla vista in televisione. Normalmente, quando incontrava qualcuno che aveva visto sul piccolo schermo, era colpita da quanto apparisse diverso nella vita reale. Stranamente, Hazel Webber appariva esattamente uguale. Come se fosse davvero a due dimensioni, un essere umano innaturalmente superficiale in ogni modo possibile.

Anche il suo outfit disorientava Riley. Perché indossava una giacca sul maglioncino? La casa era certamente abbastanza calda.

Immagino che faccia parte del suo stile, Riley pensò.

La giacca le conferiva un aspetto più formale e professionale, rispetto a un paio di pantaloni e un maglione. Forse, rappresentava anche una sorta di armatura, una protezione contro qualsiasi autentico contatto umano.

Riley si alzò per presentarsi, ma fu la Webber a parlare.

“Agente Riley Paige, BAU” disse. “Lo so.”

Senza aggiungere un’altra parola, si sedette alla sua scrivania.

“Che cosa è venuta a dirmi?” la deputata domandò.

Riley fu assalita da un senso di allarme. Naturalmente, non aveva nulla da dirle. Tutta la sua visita era un bluff, e la Webber le apparve improvvisamente come il tipo di donna che non si faceva facilmente ingannare. Riley non riusciva a comprenderla, ma doveva portare acqua al proprio mulino, in ogni modo.

“In realtà sono qui per chiederle delle informazioni” Riley disse. “Suo marito è in casa?”

“Sì” la donna rispose.

“Sarebbe possibile parlare con entrambi?”

“Lui sa che lei è qui.”

Non aver ricevuto alcuna risposta disarmò Riley, che nascose l’imbarazzo reggendo lo sguardo fisso della sua interlocutrice, con i suoi freddi occhi blu. Riley non sussultò. Si limitò a ricambiare quello sguardo, preparandosi ad una subdola battaglia di forze di volontà.

Riley disse: “L’Unità di Analisi Comportamentale sta indagando su un insolito numero di apparenti suicidi avvenuti al Byars College.”

“Apparenti suicidi?” la Webber ripeté, inarcando un sopracciglio. “Mi sembra difficile descrivere il suicidio di Deanna come ‘apparente’. A me e mio marito è sembrato alquanto reale.”

A Riley parve che la temperatura nella stanza si fosse abbassata di qualche grado. La Webber non aveva mostrato alcun segno di emozione neppure parlando del suicidio della sua stessa figlia.

Ha acqua ghiacciata nelle vene, pensò Riley.

“Vorrei che mi raccontasse quello che è accaduto” Riley disse.

“Perché? Sono sicura che lei abbia letto il rapporto.”

Naturalmente, Riley non aveva fatto nulla del genere. Ma doveva continuare a fingere.

“Sarebbe utile se potessi sentire tutto direttamente da lei” ribatté.

La Webber rimase silenziosa per un istante. Il suo sguardo era risoluto. Ma era così anche per Riley.

“Deanna si è ferita in un incidente a cavallo l’estate scorsa” la deputata disse. “Si è fratturata gravemente un’anca. Sembrava che necessitasse di una sostituzione. Non avrebbe più potuto competere nelle gare. Era distrutta.”

La Webber fece una pausa per un istante.

“Assumeva ossicodone per il dolore. Si è procurata un’overdose, di proposito. E’ stato intenzionale, ed è tutto.”

 

Riley sentiva che c’era qualcosa che non le stava dicendo.

“Dov’è successo?” chiese.

“In camera sua” la Webber rispose. “Era nel suo letto. Il coroner ha detto che è morta per un arresto respiratorio. Sembrava che fosse addormentata, quando la cameriera l’ha trovata.”

A quel punto, la Webber sbatté le palpebre.

Lo fece, letteralmente.

Aveva vacillato nella loro battaglia di forze di volontà.

Sta mentendo! Riley comprese e il battito del suo cuore accelerò.

Ora doveva davvero applicare la pressione, sondando esattamente le domande giuste.

Ma prima che Riley potesse anche solo pensare alla domanda da fare, la porta dell’ufficio si aprì. La donna che aveva accompagnato lì Riley entrò.

“Deputata, dovrei parlarle” disse.

La Webber sembrò sollevata, mentre si alzava dalla scrivania e seguiva l’assistente fuori dalla porta.

Riley prese dei respiri lunghi e lenti.

Quell’interruzione non ci voleva.

Era sicura che stava per penetrare nella facciata ingannevole di Hazel Webber.

Ma aveva perso la sua occasione.

Quando la Webber sarebbe tornata, Riley avrebbe ripreso l’interrogatorio.

Dopo meno di un minuto, la donna tornò. Sembrava aver ritrovato la propria autostima.

Rimase ferma accanto alla porta aperta e disse: “Agente Paige, sempre che sia davvero l’Agente Paige, devo chiederle di andarsene.”

Riley deglutì forte.

“Non capisco.”

“La mia assistente ha appena contattato il BAU. Non c’è assolutamente alcuna indagine in corso relativa ai suicidi al Byars College. Ora chiunque lei sia …”

Riley estrasse il proprio distintivo.

“Io sono l’Agente Speciale Riley Paige” esclamò con determinazione. “E farò tutto il possibile per assicurarmi che una simile indagine venga condotta il prima possibile.”

Passò davanti a Hazel Webber, uscendo dall’ufficio.

Uscendo dall’abitazione, sapeva di essersi fatta una nemica, e anche pericolosa.

Era un diverso tipo di pericolo rispetto a quelli che era solita affrontare.

Hazel Webber non era una psicopatica, che usava armi come catene, coltelli, pistole o torce al propano.

Era una donna priva di coscienza, e le sue armi erano denaro e potere.

Riley preferiva il nemico da prendere a pugni o a cui poter sparare. Ma, nonostante tutto, era pronta e intenzionata ad affrontare la Webber, e qualunque sua minaccia.

Mi ha mentito riguardo alla figlia, Riley continuava a pensare.

E adesso Riley era determinata a scoprire la verità.

Ora la casa sembrava vuota. Riley fu sorpresa di essere uscita senza incontrare una sola anima. Avrebbe potuto rubare e farla franca.

Entrò in auto e mise in moto.

Quando si avvicinò al cancello della villa, vide che era chiuso. All’interno c’erano la robusta guardia che l’aveva lasciata passare e l’enorme maggiordomo. Avevano entrambi le braccia incrociate e, ovviamente, la stavano aspettando.

CAPITOLO SETTE

I due uomini sembravano senz’altro minacciosi.

Apparivano anche un po’ ridicoli: il più piccolo dei due indossava la sua divisa da guardia, quello più robusto invece, l’outfit eccessivamente formale da maggiordomo.

Come una coppia di pagliacci da circo, pensò.

Ma sapeva che non stavano provando ad essere divertenti.

Riley accostò l’auto, fermandosi di fronte a loro. Abbassò il finestrino, guardò fuori e si rivolse a loro.

“C’è qualche problema, signori?”

La guardia si avvicinò, direttamente di fronte all’auto.

L’enorme maggiordomo si avvicinò al finestrino del lato passeggero ed esordì con voce tuonante. “La Deputata Webber desidera chiarire un equivoco.”

“E sarebbe a dire?”

“Desidera che lei capisca che i ficcanaso qui non sono benvenuti.”

Riley capì.

La Webber e la sua assistente erano giunte alla conclusione che Riley fosse una bugiarda, e non fosse affatto un’agente dell’FBI. Probabilmente sospettavano che fosse una giornalista pronta a scrivere qualche articolo sulla deputata.

Indubbiamente questi due tizi erano abituati a gestire i giornalisti rumorosi.

Riley estrasse di nuovo il distintivo.

“Credo che ci sia stato un equivoco” disse. “Sono davvero un’agente speciale dell’FBI.”

L’uomo grosso fece un sorrisetto. Ovviamente credeva che il distintivo fosse falso.

“Esca dall’auto, per favore” le disse.

“Preferirei di no, grazie” Riley disse. “Apprezzerei se apriste il cancello.”

Riley aveva lasciato lo sportello aperto. L’uomo grosso l’aprì.

“Esca dall’auto, per favore” ripeté.

Riley borbottò sotto i denti.

Qui non finisce bene, pensò.

Riley uscì dall’auto e chiuse lo sportello. I due uomini si spostarono posizionandosi ciascuno da un lato a una breve distanza da lei.

Riley si domandò chi dei due avrebbe fatto la prima mossa.

Poi, l’uomo enorme strinse i pugni e si diresse verso di lei.

Riley avanzò di un paio di passi.

Non appena le fu vicino, lo afferrò per il bavero e la manica del braccio sinistro e lo strattonò, facendogli perdere l’equilibrio. Poi, fece perno sul piede sinistro e si abbassò. Sentì a malapena l’enorme peso dell’uomo, mentre il corpo di quest’ultimo le volò sulla schiena. L’uomo finì rumorosamente a testa in giù contro lo sportello dell’auto, e poi sbatté la testa a terra.

L’auto ha avuto la peggio, pensò con fugace sgomento.

L’altro uomo le si stava già avvicinando e si girò in fretta per affrontarlo.

Lei gli diede un calcio nell’inguine. Lui si piegò emettendo un enorme gemito, e Riley vide che l’alterco era finito.

Riley agguantò la pistola dell’uomo dalla fodera che aveva sul fianco.

Poi, controllò la situazione.

L’uomo più grosso era ancora a terra dolorante e la guardava con un’espressione terrorizzata. Lo sportello era ammaccato, ma non quanto lei aveva temuto. La guardia in divisa era piegata in ginocchio e annaspava per respirare.

Tenne la pistola, prima per il calcio, puntandola verso la guardia.

“Sembra che abbia perso questa” disse in tono gentile.

Con mani tremanti, l’uomo allungò la mano per afferrare la pistola.

Riley la ritrasse da lui.

“Huh-uh” disse. “Non finché non aprirà il cancello.”

Prese l’uomo per mano e lo aiutò a rimettersi in piedi. Questi raggiunse il gabbiotto e spinse il pulsante che apriva il cancello di ferro. Riley si diresse verso la propria auto.

“Mi scusi” si rivolse al colosso.

Apparendo ancora piuttosto spaventato, l’uomo si spostò lateralmente proprio come un granchio gigante, allontanandosi da Riley. Quest’ultima entrò nell’auto e oltrepassò il cancello. Mentre guidava, gettò via la pistola.

Non pensano più che io sia una giornalista, pensò.

Era anche certa che avrebbero informato la deputata piuttosto in fretta.

*

Un paio d’ore più tardi, Riley entrò nel parcheggio dell’edificio del BAU. Restò seduta lì per qualche istante. Non era stata lì nemmeno una volta durante il suo mese di ferie. Non si aspettava di tornare così presto. Fu davvero strano.

Spense il motore, tolse le chiavi, uscì dall’auto e si recò nell’edificio. Quando si diresse verso il proprio ufficio, amici e colleghi l’accolsero in modi diversi: con sorpresa o compostezza.

Si fermò nell’ufficio del suo solito partner, Bill Jeffreys, ma lui non c’era. Probabilmente era su un caso, al lavoro con qualcun altro.

Fu assalita da un’ondata di tristezza e persino gelosia.

In molti modi, Bill era il migliore amico che aveva al mondo.

In ogni caso, immaginava che fosse giusto così. Bill non sapeva che lei e Ryan erano tornati insieme e non avrebbe approvato. Le aveva tenuto la mano troppe volte durante i momenti dolorosi della rottura e del divorzio. Avrebbe avuto difficoltà a credere che Ryan fosse cambiato.

Quando aprì la porta del suo ufficio, dovette dare un’ulteriore occhiata per accertarsi di essere nel posto giusto. Sembrava fin troppo ordinato e ben organizzato. Avevano dato il suo ufficio ad un altro agente? Qualcun altro lavorava qui?

Riley aprì un cassetto e trovò dei file familiari, sebbene ora fossero disposti in ordine migliore.

Chi era stato a sistemarli per lei?

Certamente non Bill. Lui sapeva che sarebbe stato meglio non farlo.

Lucy Vargas, forse, pensò.

Lucy era una giovane agente con cui avevano lavorato lei e Bill, e che piaceva ad entrambi. Se Lucy era la responsabile che si celava dietro tutto quell’ordine, almeno lo aveva fatto soltanto per esserle d’aiuto.

Riley si sedette alla scrivania per alcuni minuti.

Immagini e ricordi le tornarono in mente: la bara della ragazza, i suoi genitori devastati, e l’incubo in cui lei aveva visto la ragazza impiccata, circondata da ricordi. Ricordò anche come il Preside Autrey avesse evaso le sue domande, e come Hazel Webber avesse mentito.

Ripensò alle parole che aveva rivolto alla deputata. Aveva promesso di aprire ufficialmente il caso, iniziando le indagini. Ed era giunto il momento di mantenere quella promessa.

Prese il telefono dell’ufficio e contattò il suo capo, Brent Meredith.

Quando il caposquadra rispose, si presentò: “Signore, sono Riley Paige. Mi chiedevo se potessi—”

Stava per chiedere pochi minuti del suo tempo, quando la voce dell’uomo tuonò.

“Agente Paige, venga immediatamente nel mio ufficio.”

Riley trasalì.

Meredith era davvero furioso con lei per qualche motivo.

CAPITOLO OTTO

Riley si precipitò nell’ufficio di Brent Meredith e lo trovò alla propria scrivania, in attesa.

“Chiuda la porta” disse. “Si sieda.”

Riley obbedì.

Sempre seduto, Meredith rimase in silenzio per alcuni istanti, limitandosi a guardare Riley. Era un uomo robusto, dai lineamenti scuri e spigolosi. Ed incuteva timore, persino quando era di buonumore.

Ma, in quel momento, non era affatto di buonumore.

“C’è qualcosa che vorrebbe dirmi, Agente Paige?” le chiese.

Riley deglutì. Immaginò che alcune delle sue attività di quel giorno fossero già giunte alle orecchie del suo capo.

“Forse sarebbe meglio che cominciasse lei, signore” rispose.

L’uomo le si avvicinò.

“Ho appena ricevuto due lamentele da parte dei piani alti su di lei” le disse.

Il cuore di Riley sprofondò. Sapeva bene che cosa intendesse Meredith per “piani alti”. Le lamentele provenivano dal Capo, l’Agente Speciale Carl Walder: un piccolo uomo spregevole, che l’aveva già sospesa più di una volta per insubordinazione.

Meredith brontolò: “Walder mi ha riferito di aver ricevuto una chiamata dal preside di un piccolo college.”

“Sì, il Byars College. Ma, se mi desse un momento per spiegare …”

Meredith l’interruppe di nuovo.

“Il preside ha detto che lei è entrata nel suo ufficio e ha fatto delle accuse insensate.”

“Non è esattamente ciò che è successo, signore” Riley osservò.

Ma Meredith proseguì.

“Walder ha anche ricevuto una chiamata dalla Deputata Hazel Webber. Lei ha detto che è andata in casa sua a molestarla. Le ha mentito, facendo riferimento ad un caso non esistente. E poi, ha assalito due membri del suo staff. Li ha minacciati con una pistola.”

Riley s’irritò all’accusa.

“Non è affatto ciò che è accaduto, signore.”

“Allora, che cos’è accaduto?”

“Era la pistola della guardia” disse d’impulso.

Non appena le parole uscirono dalla sua bocca, Riley realizzò …

Non è andata affatto bene.

“Stavo provando a restituirgliela!” aggiunse.

Ma comprese immediatamente …

Non è stato di alcun aiuto.

Ci fu un lungo silenzio.

Meredith fece un respiro profondo. Dopodiché disse: “Farebbe meglio ad avere una buona spiegazione per le sue azioni, Agente Paige.”

Riley fece anche lei un respiro profondo.

“Signore, si sono verificate tre morti sospette al Byars College, proprio durante questo anno scolastico. Sono state considerate come suicidi. Io non credo che lo siano.”

 

“Questa è la prima volta che ne sento parlare” Meredith osservò.

“Capisco, signore. E sono venuta qui proprio per parlargliene.”

Meredith rimase in silenzio, in attese di ulteriori spiegazioni.

“Un’amica di mia figlia aveva una sorella che frequentava il Byars College, Lois Pennington, al primo anno. La famiglia l’ha trovata impiccata nel garage domenica scorsa. La sorella non crede che si sia suicidata. Ho interrogato i genitori, e …”

Meredith gridò abbastanza forte da farsi sentire nel corridoio.

“Ha interrogato i genitori?”

“Sì, signore” Riley rispose tranquillamente.

Meredith si prese un momento per provare a tenere la sua rabbia sotto controllo.

“Occorre che le dica che questo non è un caso del BAU?”

“No, signore” Riley rispose.

“Infatti, per quanto io ne sappia, questo non è affatto un caso.”

Riley non sapeva che cosa aggiungere per controbattere.

“Allora che cosa le hanno detto i genitori della ragazza?” Meredith chiese. “Pensano che sia suicidio?”

“Sì” Riley rispose con una voce sommessa.

Ora Meredith non sembrava sapere che cosa dire. Scosse la testa con sgomento.

“Signore, so come può sembrare” Riley disse. “Ma il preside al Byars stava nascondendo qualcosa. Ed Hazel Webber mi ha mentito sulla morte della figlia.”

“Come fa a saperlo?”

“Lo so e basta!”

Riley guardò il capo in modo implorante.

“Signore, dopo tutti questi anni, senz’altro saprà che ho un buon istinto. Quando sento che mi parla, non sbaglio quasi mai. Deve fidarsi di me. C’è qualcosa che non va con la morte di queste ragazze.”

“Riley, lei sa che non è così che funziona.”

Riley rimase scioccata. Meredith raramente la chiamava per nome, solo quando era davvero preoccupato per lei. Sapeva che lui la stimava, apprezzava e rispettava, e quel sentimento era ricambiato.

Si poggiò contro la scrivania e sollevò tristemente le spalle.

“Forse ha ragione e forse no”, disse con un sospiro. “In ogni caso, non posso renderlo un caso del BAU soltanto per via del suo istinto. Deve esserci molto di più dietro.”

Meredith la osservò con un’espressione preoccupata.

“Agente Paige, ne ha passate tante ultimamente. Ha lavorato a casi pericolosi e il suo partner è stato avvelenato quasi a morte durante l’ultimo caso. E ha un nuovo membro della famiglia di cui occuparsi, e…”

“E che cosa?” Riley chiese.

Meredith fece una pausa, per poi aggiungere: “Le ho concesso delle ferie un mese fa. Sembrava pensare che fosse una buona idea. L’ultima volta che abbiamo parlato, mi ha persino chiesto di avere dell’altro tempo. Penso che sia la cosa migliore. Si prenda tutto il tempo necessario. Ha bisogno di ulteriore riposo.”

Riley si sentì scoraggiata ed abbattuta. Ma sapeva che non poteva opporsi. La verità era che Meredith aveva ragione. Non poteva in alcun modo aprire un caso sulla base di quello che gli aveva riferito. Specialmente non con un viscido burocrate come Walder, pronto a mettergli il fiato sul collo.

“Mi dispiace signore” rispose. “Andrò a casa immediatamente”.

Si sentì terribilmente sola mentre lasciava l’ufficio di Meredith, diretta all’esterno dell’edificio. Ma non era pronta a mettere da parte i propri sospetti. L’istinto era molto più forte al riguardo. Sapeva di dover fare qualcosa.

Seguiamo le priorità, pensò.

Doveva ottenere maggiori informazioni. Doveva provare che qualcosa non andava.

Ma come poteva farlo da sola?

*

Riley tornò a casa circa mezz’ora prima di cena. Andò in cucina e trovò Gabriela, che preparava un’altra delle sue specialità guatemalteche, gallo en perro, uno stufato speziato.

“Le ragazze sono a casa?” Riley chiese.

“Sí. Sono in camera di April a fare insieme i compiti.”

Riley si sentì un po’ sollevata. Almeno le cose a casa sembravano procedere bene.

“E Ryan?” Riley chiese.

“Ha telefonato. Farà tardi.”

Riley si sentì a disagio. Questo le ricordava i brutti momenti vissuti con Ryan. Ma si disse di non preoccuparsi. Il lavoro dell’uomo era impegnativo, dopotutto. E inoltre, il suo stesso lavoro la teneva lontana da casa più a lungo di quanto avrebbe voluto.

Andò di sopra, e si mise al computer. Fece una ricerca sulla morte di Deanna Webber, ma non trovò altro che le notizie che già conosceva. Poi, cercò delle informazioni su Cory Linz, l’altra ragazza che era morta. Anche in questo caso, trovò pochissime informazioni.

Allargò la ricerca ai recenti necrologi che menzionavano il Byars College, e presto ne vennero fuori ben sei. Uno di questi ricordava qualcuno che era morto in ospedale dopo aver perso una lunga battaglia contro il cancro. Degli altri, riconobbe le foto di tre giovani donne. Si trattava di Deanna Webber, Lois Pennington e Cory Linz. Ma non riconobbe il ragazzo e la ragazze negli altri due necrologi. I loro nomi erano Kirk Farrell e Constance Yoh, entrambi studenti del secondo anno.

Naturalmente, nessuno dei necrologi diceva che i decessi erano dovuti a suicidio. Molti di essi erano piuttosto vaghi sulle cause di morte.

Riley tornò a sedersi e sospirò.

Aveva bisogno di aiuto. Ma a chi poteva rivolgersi? Non aveva accesso agli strumenti tecnologici di Quantico.

Sussultò dinnanzi ad una possibilità.

No, non Shane Hatcher, pensò.

Il genio criminale, evaso da Sing Sing, le era venuto in aiuto in più di un caso. Il suo fallimento - o si trattava di riluttanza? - nel catturarlo aveva provocato una considerevole costernazione tra i superiori di Riley al BAU.

Sapeva perfettamente come fare a contattarlo.

In effetti, poteva farlo immediatamente, tramite il computer.

No, Riley pensò sussultando di nuovo. Assolutamente no.

Ma a chi altro avrebbe potuto rivolgersi?

Poi ricordò le parole che Hatcher le aveva detto quando si era trovata in una situazione simile.

“Credo che lei sappia con chi parlare dell’FBI, quando è persona non grata. E’ qualcuno a cui non importa assolutamente delle regole.”

Riley si sentì esaltata.

Sapeva esattamente a chi chiedere l’aiuto di cui aveva bisogno.

Bepul matn qismi tugadi. Ko'proq o'qishini xohlaysizmi?