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Kitobni o'qish: «Tre racconti», sahifa 10

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XXIII

Due giorni dopo io partiva da quel paese, e con mastro Ambrogio non ci vedemmo più: per due anni non ne ebbi altra novella.

L'altro dì il mio nobile amico dovette venire a Torino per qualche sua faccenda, e fu a salutarmi.

“Mi fermo qui pochi giorni soltanto” mi disse “poi torno di gran carriera alla mia montagna. Volete voi venire con me?”

“Ah! se lo potessi!” esclamai con un sospiro. “Ma noi siamo qui condannati al lavoro di Sisifo… Intanto datemi notizie di mastro Ambrogio.”

Il volto del mio amico si fece mestamente grave.

“Quel povero Ambrogio!” disse. “Non c'è più. L'hanno sotterrato l'altra mattina.”

Mi feci raccontare i particolari della sua morte. Non era stato malato che pochi dì. Conosciuta tosto la gravità del suo male, egli aveva mandato pel sacerdote, ed aveva edificato tutto il villaggio colla santità della sua morte, come aveva fatto colla purità ed onestà della sua vita. Sulla sua fossa hanno piantato una croce di legno, e gli scolari vanno a spargervi fiori.

Così fu il suo desiderio compito. È morto sconosciuto, tranquillo, amando e sperando. L'erba d'un cimitero di campagna ne coprirà le ossa ignorate; ma io, che non l'oblierò mai, ho pensato valermi del suo permesso, e schizzarne in questi fogli la misteriosa figura.

GALATEA
RACCONTO

I

Era il crepuscolo vespertino d'una triste giornata di tardo autunno. Grossi nuvoloni occupavano tutte le creste della catena alpina; al momento che il sole si tuffava dietro di questa, il denso velo delle nubi erasi squarciato alquanto al lembo dell'orizzonte, e n'era balzato fuori uno sprazzo di luce color rosso di fuoco, che dileguandosi ben tosto, aveva lasciato luogo ad una tinta plumbea grigiastra, che rattristava con freddi riflessi il paese e la sera.

Le foglie ingiallite si spiccavano dai castagni, e venivano giù adagino adagino, quasi baloccandosi per l'aria. Di quando in quando un buffo di vento sollevava i piccoli mucchi delle frondi cadute ed ammassate qua e là dal caso o dal lavoro dell'uomo, e avvolgendo le foglie in un turbinío, le cacciava innanzi a sè, come una nube, per lasciarle ricadere lungo la strada in una striscia che ne segnava il cammino, finchè non erano più che due o tre a rincorrersi pazzamente come ragazzi ruzzanti.

I vaccari tornavano dalla pastura, la faccia e le mani arrossate dalla brezza freddiccia, e si spingevano innanzi le pigre bestie muggenti, accompagnando colle battiture e colle voci d'ammonizione e minaccia alla loro cornuta schiera, una canzone a cadenze monotone e strascicate, nella mestizia del tono in minore.

Dai fumaiuoli delle modeste abitazioni del villaggio, a rivelare che le buone massaie preparavan la cena, usciva il grigio fumo che disegnava capricciosamente i suoi ghirigori, sul fondo più oscuro dell'atmosfera. Al di sopra e in mezzo di questa uniformemente bassa ed umile popolazione di casuccie, coperte la maggior parte di paglia, il campanile della parrocchia sollevava il suo capo, sormontato da una gran croce di ferro e coronato di tegole verniciate a brillanti colori.

Il qual campanile, in quest'ora appunto, mandava le più gravi e solenni note della sua maggior campana, per invito alla preghiera, in suffragio d'un'anima, volata nel mondo degli spiriti.

All'udire quei rintocchi lenti e pieni di tanta mestizia, uscivano di casa le madri di famiglia e le ragazze, accomodandosi in fretta sul capo il fazzoletto stampato a colori; e, appoggiandosi sul bastone, gli uomini ai quali la tarda età toglieva d'andare a quel lavoro quotidiano ne' campi, da cui ora stavano per tornare i loro figliuoli e nipoti.

Le comari del villaggio, incontrandosi, si scambiavano intanto delle parole come queste:

“Suona per la sepoltura della povera Marta.”

“Poveretta! Dio l'abbia in gloria! Andiamo a dire un De Profundis per quell'anima; benchè la ne abbia meno di bisogno che qualunque altra; chè se ci fu mai cristiana che morisse nella grazia del Signore, la Marta è stata quella di certo.”

“Sicuro! E se non va quella lì in paradiso, dritto dritto, non ci va più nessuno.”

“E per lei, davvero che la morte si può dire una grazia! Ha finito di tribolare.”

“Oh sì! che ha tribolato, e di molto!”

“Una grazia la morte! che cosa dite? Se la povera donna fosse stata sola al mondo, avreste ragione. Ma pensate un poco a quella poveretta di Maria che lascia dietro di sè!”

“Ah! gli è pur vero. Per codesta creatura così giovane e inesperta, la è proprio una gran disgrazia.”

“Ed oltre a esser giovane, quasi ancora una bambina, è tanto semplice, così innocente!..”

“E vi so dir io che la Marta si affliggeva di molto al pensiero di lasciarla; e pregò di belle volte il Signore che le raddoppiasse anche il male che soffriva, purchè le volesse prolungare di tanto la vita da poter vedere provveduta quella poveretta, che è come un'agnellina senza forza e senza malizia in mezzo alle tristizie del mondo.”

“Come sopporta ella questo colpo la Maria?”

“Che v'ho da dire? La pare smemorata. Sapete com'è quella semplicetta, che non si sa mai se capisca o non capisca. Per me, io credo che non sappia nemmeno che la sua nonna è morta, nè che cosa voglia significare la parola morire.”

Intanto uomini e donne erano giunti ad una delle più umili capanne, posta ad un de' capi della strada che attraversava quel povero villaggio montanino. Era piccola, angusta, d'un solo piano, e poteva dirsi davvero che la miseria ci stava di casa. La frotta delle persone accorse colà vi susurrava a bassa voce, con un quasi timoroso riguardo; ed era il profondo rispetto che ad ogni animo onesto impone la sciagura. Nel già scuro ambiente di quella stanzaccia terrena che formava la parte principale dell'abitazione, ardevano fiocamente alcuni lumi accesi; su due sgabelli di rozzo legno stava posata una bara, e sopra, gettatovi, un logoro tappeto nero. In quella umile dimora era piombata, il giorno prima, la morte.

Ad un punto un vecchio dai canuti capelli, in abiti sacerdotali, il parroco del villaggio, fece un cenno, e la mesta comitiva s'avviò.

Precedeva il sagrestano portando la croce, poi la confraternita a cui apparteneva la defunta, una trentina di donne tutte incappate, quindi il parroco in mezzo a due preti, e dietro la cassa della morta, portata a spalle dal becchino e dal suo aiuto.

Il funebre corteggio era chiuso dalla massa incomposta e confusa delle donne e dei vecchi, e in essa non vedevi persona che non avesse le lagrime agli occhi e la preghiera sulle labbra.

Ma, subito dopo la bara, prima d'ogni altro, veniva la povera Maria.

Era una fanciulla di quattordici anni, troppo grande per la sua età, magra, sfiancata, di volto scarno, di larghe occhiaie, in fondo a cui brillavano d'un fuoco selvaggio certe pupille d'indescrivibil colore; la pelle aveva abbronzata, i folti capelli arruffati sul capo come i serpenti del Gorgone; vestita a casaccio d'una vestucciaccia che non era fatta per dar grazia alle sue membra lunghe, ossee, dinoccolate.

Come aveva detto la donna che abbiamo udito discorrere poc'anzi, non si poteva discerner bene se questa ragazza capisse o no. Da quei suoi grandi occhioni, ora sereni come l'azzurro del cielo, ora scuri come il mare in tempesta, ora privi di luce come la pupilla d'un cadavere, ora scintillanti di riflessi dorati che parevan raggi di sole, l'intelligenza non appariva che a lampi; la fronte era bensì giustamente sviluppata, modellata a perfezione e adorna della maggiore nobiltà di linee; ma il silenzio ostinato, in cui la giovanetta si rinchiudeva, i pochi segni di sensibilità e le poche manifestazioni di pensiero che in lei si scorgevano, erano cagione che la gente la credesse poco meno che scema, e la facevano vivere mezzo segregata dalla vita ordinaria e dal consorzio del mondo.

Non v'era che la nonna, la quale, o s'illudesse per soverchio amore, o fosse più penetrativa degli altri, credeva avere scôrto dietro quel riparo di ghiaccio un'anima affettuosa, notato sotto quella distrazione di spirito un'intelligenza.

“La mia innocente,” soleva ella dire, “val meglio di molti e molti, che la compatiscono come una scema.”

Quando la buona vecchia Marta era caduta malata di quella infermità, che, tenutala un anno a patire nel letto, l'aveva ora tratta al sepolcro, Maria, la quale soleva andare al pascolo sulla montagna e vagolare tutto il giorno per i dirupi come una selvaggia, a raccoglier fiori, di cui tornava la sera tutta adorna il capo e il seno; Maria s'era seduta sullo sgabello a piè del letto della povera nonna, e non vi era più stato verso di farnela muovere.

Ella stava là, coi gomiti delle sue lunghe braccia appoggiati alle ginocchia, la faccia sorretta dalle mani, e gli occhi larghi, fissi di continuo sulla inferma. Parlava poco o punto, stava immobile, lasciava servir la nonna dalle comari, cui la carità mandava in soccorso dell'ammalata, e non era che raramente, quando la si trovava proprio sola colla Marta, che si chinava sul letto di lei e le dava caldi baci, in cui palpitavano, per così dire, la tenerezza e l'affetto.

Un anno intero di codesta vita aveva nociuto di molto alla salute della giovinetta. La era cresciuta anche troppo, ma diventata sempre più sottile e macilenta; le sue guancie avevan preso un color terreo, e negli occhi non apparivan più che rarissimi gli sprazzi di luce.

La vecchia nonna, prima di morire, aveva parlato lungamente al vecchio parroco della meschinella e dell'avvenire che l'aspettava, e pregato costui di scrivere a certi congiunti che unicamente le rimanevano, lontani di parentela e di dimora, coi quali la moribonda, da tempo remoto assai, non aveva mai più avuta alcuna attinenza.

Nell'ultimo istante, proprio nell'atto di spirar l'anima, con un ultimo sguardo, Marta aveva ancora una volta raccomandata l'orfanella al buon sacerdote, che su lei pronunziava la preghiera dell'agonia, e alla miserella che rimaneva sola nel mondo si era rivolto l'estremo segno d'intelligenza e d'affetto della morente.

Quanto a lei, – a Maria, – pareva che il suo spirito fosse ben lontano da quella scena di morte, da quel luogo, da quel doloroso momento. Immobile al suo solito posto, ella continuò a rimirare la morta, come aveva sino allora rimirata l'inferma; e per quanto le si dicesse o facesse, nessuno era riuscito a levarla di là. Con apparente indifferenza guardò tutti i preparativi che vennero fatti per portare all'ultima dimora il corpo di quell'unico essere che l'avesse amata; e solamente di quando in quando una contrazione nervosa veniva a sconvolgere i lineamenti dell'infelice, senza che pure una lagrima spuntasse su quegli occhi asciutti e riarsi. Quando vide la nonna messa entro la bara e udì battere i chiodi del coperchio sopra di lei, Maria s'alzò tremante, e la contrazione della sua faccia fu orribile, accompagnata da un grido di spasimo; ma non altro; ricadde accasciata, muta, impassibile, e parve non sentire più nulla.

Ora, essa veniva dietro la bara a passo lento, dritta la persona, l'occhio fisso su quel drappo nero che la precedeva, come se potesse vedervi di sotto il viso della morta; e di tutto quanto avveniva intorno a sè pareva affatto ignara.

Si giunse al cimitero. La fossa, già scavata, era là, pronta ad ingoiare quegli ultimi resti. Maria venne fino all'orlo di quella buca, vi si chinò sopra, come desiosa di vedere che cosa vi fosse nello scuro fondo di essa. La cassa vi fu pianamente calata, e intanto si mormoravano intorno le estreme preghiere. Tutti piangevano; ma la fanciulla era immota, tranquilla e come insensibile. Però quando si gettò nella fossa la prima palata di terra, e questa si udì risuonare cupamente sul coperchio della cassa, Maria mandò ancora quel grido di spasimo, e si slanciò innanzi colle braccia protese, come se volesse precipitarsi in quella tremenda apertura, ed abbracciarsi alla morta, e farsi seppellire con essa. Le donne le furono attorno a trattenerla. Sentendosi afferrare, ella si fermò, guardò attonita chi l'aveva trattenuta, e calmatasi di subito, si liberò dalla stretta di quelle pietose; poi, incrociate le braccia al seno, stette senza pur far parola.

Tutto era finito, ed ella stava ancora là in quel medesimo atteggiamento. Le donne incominciarono con dolci parole a dirle di venir via, pietosamente confortandola: Maria non le guardava neppure. Una fra le altre, più insistente, non ottenne di meglio che uno sguardo senza espressione ed uno scrollar di testa; allora la donna, con tutta amorevolezza, aveva preso pel braccio la giovanetta e voluto trascinarla con sè; ma ella se n'era disciolta con sì impetuosa mossa, e con tanto sdegno le aveva detto «lasciatemi!» che la donna erasi allontanata quasi impaurita.

Il parroco che aveva accompagnato sino colà il cadavere della povera morta, fece segno lasciassero stare quell'afflitta, che egli stesso sarebbesi preso cura di lei. Le donne partirono. Maria, quando le ebbe vedute tutte allontanarsi, e si credette sola, si buttò con impeto quasi disperato in ginocchio, e chinandosi a toccare col capo, a baciar colle labbra gementi quella terra frescamente smossa, sotto cui giaceva la nonna, ruppe in dolorosissimi singhiozzi, che le facevano tremare tutta la persona, e pareva dovessero farle scoppiare il cuore.

La luce del giorno era quasi del tutto sparita, e come in mezzo ad una nebbia grigiastra, in quella tenebra invadente pigliavano fantastiche forme a contorni indecisi i cipressi, le croci penzolanti, i modesti tumuli di quel campo sacro alla morte.

Il parroco, che s'era ritirato un poco, lasciò prorompere quel primo sfogo di dolore, sino allora contenuto, della giovinetta; e poscia, venutole presso, pose dolcemente una mano sulla spalla di lei, che tutta si riscosse.

“Chi è?” domandò Maria, voltandosi con atto vivissimo; e poichè si trovò dinanzi quel buon vecchio prete, al quale aveva sempre visto la nonna parlare con tanta riverenza, chiese rispettosamente:

“Che cosa vuole, sor Prevosto?”

“Vieni:” disse il parroco, facendole cenno di alzarsi.

Ella obbedì docilmente, ma domandò:

“Dove?”

“A casa.”

Maria scosse mestamente la testa.

“Non ho più casa,” disse con una semplicità e un'indifferenza che commovevano più che le smanie della disperazione. “La mia casa è dove sta la nonna; la nonna è qui, mi lasci stare con lei.”

“Ti ricordi come ti dicesse la nonna che a me bisognava obbedire?”

“Sì, che me ne ricordo.”

“Dunque da' retta: io ti dico di venir meco. E se non ti piace star sola in casa, ti lascierò stanotte la Margherita a farti compagnia.”

“Oh no, no!” interruppe la fanciulla.

Poi, sorreggendosi colla mano il mento, guardò fiso nuovamente la tomba in atto di meditazione.

“Dicono che i morti tornano… Mi pare che debba esser vero… Io lo credo… Che direbbe la nonna se vedesse un'altra nella sua casa?.. Non ho punto paura, io, a star sola.”

“Sia, come vuoi; ma intanto vieni. Tu vedi che la notte è già scura, e la brezza si fa troppo più fredda che a te non convenga con quei poveri pannucci che hai addosso.”

Maria infatti diede in uno scossone di brivido.

“Sì, l'aria è fredda,” diss'ella. “E la povera nonna, non avrà ella freddo qui?”

“Ella non ha più nessun bisogno nè malore; ella ora è un angiolo di Dio, che prega per te. Vieni!”

La prese amorevolmente pel braccio e la trasse con sè. Ella cedette e seguì la sua guida, ma il capo e gli occhi erano volti verso quel mucchio di terra che segnava la fossa recente. Uscirono così dal cimitero. In quel punto un ragazzetto arrivava correndo.

“Sor Prevosto,” gridò egli: “è arrivata or ora una carrozza, e dentrovi una signora mezzo ammalata, e un signore coi baffetti neri, che sono andati all'osteria del Gallo rosso, e hanno cercato di Marta che è morta, e di Maria, e anco di lei, sor Prevosto: e quando hanno udito quel che era e quel che non era, volevano venir qui senz'altro; ma poi la signora non se ne sentì; e quel dai baffetti volle che la si mettesse a letto, ed a me che ero per colà mi diede otto soldi, perchè le venissi a dire, a lei sor Prevosto, che sono giunti coloro a cui ella ha scritto; ed io son corso…”

“Va bene,” disse il parroco; poi vóltosi a Maria: “Sono i tuoi parenti, a cui la nonna mi aveva detto di apprendere la disgrazia che ti ha colto; è la tua nuova famiglia che t'aspetta.”

E le fece affrettare il passo verso l'osteria del villaggio.

II

Mentre infatti il modesto corteo accompagnava all'ultima dimora il cadavere della vecchia Marta, una carrozza da viaggio, lentamente tirata da due cavallacci da nolo, s'arrampicava su per la lunga salita che conduce all'entrata del paesello, al quale, di quel tempo, ancora non aveva fatto capo (nè la cosa è diversa oggidì) alcun tronco di strada ferrata.

In quella carrozza stavano due persone: una donna e un uomo. Questi era nel pieno fiorire d'una giovinezza di cinque lustri; la donna mostrava di essere dai quaranta ai cinquant'anni. Avevano tale rassomiglianza nei tratti del viso e più nel carattere della fisonomia, nell'espressione della figura e dello sguardo, nella voce e nelle mosse, che chiunque non li avesse pur conosciuti mai, al primo vederli, dicevali madre e figliuolo.

Nella donna l'età inoltrata e una pallidezza morbosa delle sembianze, la quale rivelava in lei una malattia guarita da poco e una salute ordinariamente cagionevole, non avevano distrutto tuttavia la traccia d'una beltà, che doveva essere stata in giovinezza fra le prime e più seducenti. Le chiome abbondevolissime e d'un nero corvino, in mezzo al quale spiccavano come fili d'argento i primi capelli canuti che correvano in quella massa ondulata di seta, le si spartivano graziosamente sopra una fronte della forma più pura, cui le rughe appena cominciavano a segnare di leggerissime linee. Dello stesso bruno gli occhi, dolcissimi e mitissimi nel guardare, pieni di quella luce di benevolenza che basta a renderci simpatica una persona; e a tale sguardo corrispondeva il sorriso tutto bontà e amorevolezza, ilare, se così può dirsi, anche nella mestizia, pacato e sereno. Dal soave luccicare degli occhi, e dal piegar delle labbra, si vedeva che quella persona aveva molto sofferto nella vita e tutto con rassegnazione e con coraggio sopportato.

Ed invero ella aveva molto sofferto!

Anna, tal era il suo nome, nacque in quel villaggio, a cui s'avvicina a così lento passo la carrozza che la porta; ed era nipote da parte di padre della povera estinta.

La madre di Anna non era affatto una contadina; ma, figliuola del maestro del villaggio, uomo d'ingegno e di cuore, aveva ricevuto dal padre un'educazione intellettuale forse superiore al suo stato. Con sua figlia il povero maestro compiacevasi di vivere ancora di quando in quando nel mondo del pensiero, e tornava a gustare le gioie dell'intelletto, a provare le emozioni che sono destate dalle bellezze della poesia e dell'arte. Questo tesoro d'educazione, la figliuola del maestro ebbe per sua principal cura trasmetterlo a sua vòlta alla ragazza nata da lei, quando fu tanto felice da averne una; di che avvenne che Anna, crescendo, bellissima e d'animo squisito, acquistasse eziandio tali qualità di spirito che nessuno avrebbe creduto mai più trovare nella povera figliuola d'un rozzo flebotomo (che questo era il mestiere del padre) in uno dei più alpestri e rimoti villaggi.

Nè il padre in vero ci aveva merito o colpa, che vogliate chiamarla, poichè, facendola un po' da chirurgo, un po' da medico, un po' anche da veterinario, era tutto il giorno in giro per la campagna, tutte le sere all'osteria, e lasciava che le faccende di casa fossero regolate affatto come piacesse alla moglie, di cui riconosceva, ancorchè non lo confessasse, tutta la superiorità.

Ma per la povera Anna doveva ben presto cominciare una serie di gravi sventure. E la prima e delle maggiori fu ch'ella appena in sui quindici anni perdette la madre: proprio quando la sua gioventù, più vivace ed irrequieta che in altre, per lo sviluppo precoce dell'intelligenza avea bisogno maggiore del senno e dell'amorevole autorità materna.

Poco tempo dopo un pittore capitava per caso in quel villaggio, e allettato dalla stupenda bellezza di quei siti alpestri, stabiliva farvi dimora per alquanti mesi. Ma poichè ebbe veduto quell'occhio di sole, come si suol dire, che era l'Anna, gli parve che non si sarebbe più mosso di lì per tutto l'oro del mondo, e che dove lucevano quei neri diamanti di occhi, lì avesse a dirsi senz'altro che stava di casa la felicità.

Forse da principio non fu che un leggiero invaghimento, un capriccio di giovane e d'artista, del quale credette egli medesimo facil cosa il liberarsi, come credeva pur facile la vittoria sul cuore inesperto e probabilmente fragile d'una contadinella. Cercò di avvicinare la bella Annina, con ogni accorgimento d'amante la perseguitò, fece nascere sempre più frequenti le occasioni di vederla, di parlarle, e riuscì così bene, che, conosciuti tutti i pregi e le virtù che adornavano quell'anima e quell'intelligenza, la sua meraviglia fu grande, e il capriccio divenne vero amore e prontamente grandissimo.

Era egli un bel giovane, parlava bene, e possedeva il merito che in questa fatta di casi è il maggiore: amava ardentemente e davvero; s'intende che la fanciulla non potè fare a meno di corrispondergli. Ma l'onestà si frapponeva a quei due ardori, e seppe imporre un freno insuperabile all'audacia dell'uno e rassicurare completamente la timidezza dell'altra. Eppure nessun impaccio vi era ai loro colloqui, perchè il padre di lei, per ragione del suo mestiere, era tutto il dì fuori di casa.

Ma se il bravo sor flebotomo non s'era ancora accorto di nulla, ben se n'erano accorte le comari del villaggio, e ognuno capisce come quelle buone femmine non potessero tralasciare una sì bella occasione di far commenti e di mormorare. Aggiungete che in quei remoti villaggi, dove le comunicazioni sono poche e rade, dove la vita è patriarcale e la popolazione forma quasi una sola famiglia, ognuno che non sia del paese è un forestiero, vale a dire poco meno che un nemico da tenersi lontano, da guardarsi con sospetto, e da detestarsi a chius'occhi. Un artista poi! Non capivano punto che cosa fosse in realtà; ma nella loro testaccia quadra i vecchi, soliti a radunarsi sotto i rami del grand'olmo in piazza, se ne facevano un superstizioso concetto come d'un gettatore di malìe o press'a poco, e quando lo vedevano colla sua cartella sotto il braccio, col suo cavalletto portatile andar girando per la campagna e sedersi qua e colà a tracciar giù linee e metter colori, poco mancava facessero il segno della croce, e crollavano dubbiosamente la testa: i ragazzacci, da parte loro, in quelle tremende occasioni, avevano già protestato più d'una volta con qualche sassatella.

Di più i giovani del paese, accortisi che il forestiero amava la bella Anna, della quale erano tutti più meno accesi, e che a codesto amore la bella del villaggio non era punto avversa, pensate se diventarono gelosi della zazzera, dei baffi e del pizzo alla medio-evo e della casacca di velluto nero del pittore! A loro vòlta tutte le ragazze, a cui Anna, senza volerlo, rubava tutti i dami, non aspettavano di meglio che un'ombra di pretesto per addentare la buona riputazione di lei. E quindi, in conseguenza di tutto ciò, la storia degli abboccamenti del pittore colla figliuola del flebotomo, ampliata, interpretata malignamente, correva per le bocche di tutti.

Dei parenti della fanciulla, fu la prima a commuoversi la zia Marta, la quale, in fatto di costumi, era così esigente in altrui, come inappuntabile essa medesima, e si credette in debito di provvedere e riparare a siffatto scandalo. E la buona donna aveva ragione; ma in ciò ebbe torto, che, invece di parlare alla ragazza ed appurar ben bene come stessero le cose, tentando d'indurla coi consigli a più prudenti propositi, andò direttamente dal fratello, perchè colla sua autorità paterna facesse cessare senza indugio la tresca.

Per mala ventura, nel momento in cui la sorella venne a raccontargli la cosa, il padre di Anna, che era devotissimo seguace di Bacco, si trovava precisamente più che a mezzo ubriaco. Impetuoso com'egli era inoltre di carattere, ed assolutissimo nei suoi voleri, chiamò a sè la figliuola e con modi e con parole tutt'altro che da ispirar fiducia e destar tenerezza, l'interrogò sulla verità di quello che gli era stato riferito. Anna, troppo franca per negare, confessò schiettamente l'amor suo; e il padre, salito in una maledetta collera, minacciatala e peggio, giurò che non avrebbe mai concessa la sua figliuola ad uno che non sapeva chi fosse, e sentenziò irrimediabilmente che i due giovani non si avrebbero a vedere mai più.

È cosa conosciuta da tutti come l'amore contrastato si accende vieppiù, così da predominare ogni volere ed ogni riguardo negli amanti. La ragazza pregò, pianse, languì; il giovane affrontò la collera del padre di lei, supplicò, umiliossi, tutto fu inutile; e allora vedendo senza speranze il caso loro, con quell'esaltamento che dà alla gioventù la passione, i due innamorati si appigliarono ad una risoluzione da disperati com'erano, e fuggirono insieme.

In quel pacifico villaggio fu uno scandalo inaudito: il padre di Anna montò su tutte le furie e fece giuramento che non avrebbe mai perdonato la colpevole, ingrata figliuola; Marta, alla quale un eccesso simile pareva una cosa impossibile, vide già la nipote perduta per l'eternità nelle fiamme dell'inferno.

I giovani si sposarono, e siccome erano buoni tutti e due e si amavano davvero, furono una eccezione alla regola generale che converte questi maritaggi d'amore in una infelicità piena di rimpianti e di rimorsi. Ma, per quanto facessero, il padre morì senza voler perdonare e rivedere l'Anna; nessuno de' congiunti s'era intromesso a favore della fuggita figliuola, e questa dimenticò per la nuova dimora e pei nuovi affetti il paese natio e la gente del suo sangue.

E di questa, parecchi anni dopo, non rimaneva che Marta, vedova, e con una bambina nata da un'unica sua figliuola morta soprapparto.

Le condizioni di Marta erano tutt'altro che prospere. Il marito non le aveva lasciato niente: il genero, il padre della nipotina, era stato uno scaldapanche d'osteria; non aveva essa altro mezzo di sostentamento che il suo lavoro, e pensate voi che gran guadagni possa fare il lavoro di una donna ormai vecchia. Fu peggio ancora quando la salute, che veniva indebolendosi da assai tempo, l'abbandonò del tutto; e la povera Marta dovette mettersi a letto, col convincimento che, trascinando per più o men tempo una vita stentata e di tormenti, per lei la era finita. Allora, pensando all'avvenire di Maria, la sua nipotina, la quale, morta lei, sarebbe rimasta sola nel mondo, bene aveva avvisato di ricorrere alla figliuola di suo fratello, di cui non aveva ricevuto più novella, ma supponeva buone e prospere le fortune; però un delicato scrupolo ne l'aveva sempre trattenuta. In gran parte era essa la Marta, che aveva conferito ad accrescere l'avversione del padre di Anna per l'unione di costei col pittore; dei dispiaceri e dei danni che la figliuola di suo fratello da ciò aveva sofferti, in qualche modo ella poteva pure accagionarne la zia; e che avrebbe detto l'Anna, che pensato, se ora, trovandosi nel bisogno, dopo non essersi fatta viva per tanto tempo, la zia ricorresse a lei supplicando? Non avrebbe forse risposto: «Voi non avete avuta compassione per me, ed io non ne voglio avere per voi; voi non vi siete mai più interessata dei fatti miei, ed io non voglio darmi pur un pensiero dei vostri!» Esitò a lungo; ma quando sentì proprio che la morte s'avvicinava, il bisogno di Maria vinse ogni altra considerazione, e pregò il parroco di scrivere a quell'unica parente che le rimaneva.

Ma la nonna di Maria aveva gran torto di dubitare del cuore di Anna. Questa aveva infinitamente sofferto del negato perdono paterno; e chiunque della famiglia le aprisse le braccia, essa era disposta a gettarvisi colla gratitudine di chi ne riceve la più generosa delle grazie; la sola idea poi di poter essere utile in alcun modo a qualcuno di suo sangue le sarebbe stata una gioia.

Lei, poveretta, le disgrazie non l'avevano risparmiata. Suo marito, cui essa amava e che l'amava cotanto, giovane ancora, dopo non molti anni di matrimonio, erale morto, lasciandola con mediocri fortune e con un bambino in tenerissima età. Qual immenso dolore sia nella vita la perdita di quell'essere che si ama supremamente, unicamente, ben lo sa chi ebbe la grande sciagura di provarlo. Tutti i suoi affetti, tutta la sua ragion di vivere, tutto il mondo, Anna aveva fino allora raccolto nell'uomo dell'amor suo. Mancatole costui, credette tutto finito per sè, le parve impossibile il vivere, a tutta prima desiderò di morire. Ma era madre! Poteva ella abbandonare quel misero orfanello? Nel suo figliuolo, nel suo Guido, concentrò tutti gli affetti suoi, tutta la sua potenza d'amore, ogni interesse, ogni sentimento. E chi non sa come ami una madre? Per suo figlio ebbe la forza di tutto sopportare, ebbe il coraggio così della rassegnazione, come dell'opera. Poche erano le fortune che l'artista lasciava; Anna sostenne ogni privazione; lavorò indefessa per poter allevare ed educare il figliuolo, ornargli la mente ed il cuore, farlo degno di suo padre.

Dalla famiglia del marito Anna non aveva ricevuto che disprezzi, per quello stupido orgoglio de' borghesi, il quale vedeva offesa la dignità del lignaggio dal matrimonio di un loro congiunto con una contadina; finchè lo sposo era vissuto, Anna a codeste punture non aveva nemmeno badato; lui morto, quando la infelice vedova, per cagion di suo figlio, dovette necessariamente umiliarsi, invece che aiuti, non n'ebbe che disdegni e contrasti. La misera madre si ristrinse in sè stessa; si disse che da sola avrebbe bastato al nobile ufficio di allevare il figliuolo e di farne un uomo, e Dio la compensò di tanto, che il suo Guido riuscì il più virtuoso, bello ed educato giovane e il più amoroso e riconoscente de' figli.

Quando la lettera del parroco giunse ad Anna, questa trovavasi per disavventura inferma ancor essa: perchè la sua salute, fatta cagionevolissima per gli affanni sofferti, era assalita da frequenti malattie. Avrebbe ella voluto che Guido partisse tosto pel villaggio; ma il figliuolo non aveva acconsentito a niun patto di abbandonare la madre inferma, da lui tenerissimamente amata.

Yosh cheklamasi:
12+
Litresda chiqarilgan sana:
05 iyul 2017
Hajm:
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