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Kitobni o'qish: «Pietro Mascagni»

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L'OPERA IN ITALIA

I.
L'opera in Italia – Suo carattere popolaresco

Ogni paese ha la sua lingua musicale, le cui peculiarità di concezione e di costruzione si formarono a poco a poco e furon tramandate più o meno fedelmente dai musicisti. Così, più o meno interrottamente ebbe ed ha tuttora una lingua musicale originale la Francia, così l'ebbe l'Italia e l'ha tuttora sebbene un poco modificata da veri e propri barbarismi, di cui la sorgente è o la musica francese o, se non sempre direttamente, la musica tedesca e, meglio, la musica wagneriana. E per linguaggio musicale moderno dell'Italia intendo di necessità il linguaggio del melodramma, poichè da quando comparvero i grandi compositori di musica strumentale in Germania, questo genere di musica in Italia divenne fatica di retori plagiari e pesanti. Abbiamo infatti noi dei quartettisti da mettere a paro con Haydn Mozart Beethoven? Può un sol quartetto del nostro accademico Bazzini sostenere il confronto d'un qualunque quartetto dei classici tedeschi? E di tutti gli scrittori di musica per pianoforte e di musica sinfonica non teatrale, chi è riuscito ancora a dire agli Italiani una parola sua, a farci scordare l'instante tirannia di Beethoven di Schumann di Liszt di Wagner? Non è, anzi, senza una ragione profonda il contegno indifferentissimo del pubblico italiano verso i così detti scrittori di musica seria. Infatti il buon pubblico innocente e ignorante sente istintivamente che sotto quelle dotte polifonie ben imitate da chi ne seppe più ed ebbe cuore più nuovo e più sensibile, c'è un silenzio inutile, c'è il triste vuoto di colui che non ha forza fantastica tale da plasmare spontaneamente una nuova forma sinfonica veramente latina.

Mancando dunque i grandi lirici personali, le grandi individualità musicali che si esprimano ciascuna con un glorioso linguaggio che sembri assorbire e contenere tutto il vocabolario musicale d'un'epoca o di un popolo, in Italia risponde moltissimo al gusto popolare l'opera. E non l'opera quale Wagner aveva concepita: altissima tragedia musicale, profonda di poesia e di pensiero; ma il semplice melodramma popolaresco, in cui il libretto, generalmente, invece di essere un'intuizione poetica del mondo quale la Dannazione di Faust, o il Tristano e Isotta, non ha altro ufficio che prestare al compositore dei personaggi senza articolazioni, forniti di ottima gola per cantare. Sicchè, sieno pure tali personaggi vivi, indovinati, oppure astrazioni irreali, cadaveri ambulanti per sola virtù di retorica, ciò non importa. L'essenziale è di situarli e d'aggrupparli in modo che essi possano cantare molte melodie. Chè di queste sono gravidi i compositori italiani, e di queste ghiotti gli ascoltatori italiani.

Tuttavia anche la melodia italiana ha subito delle trasformazioni sebbene esteriori. Non più l'accurata lasciva cantilena della scuola napoletana; non più i gai gargarizzi dell'opera buffa, fra i quali talora zampillava qualche larga monodia d'una dolcezza impreveduta. Verdi l'agitatore di popolo, come Garibaldi fu creatore di eroi, sembrò avere scosso l'inerzia molle e l'allegra indifferenza in cui amava esser cullata e illusa l'animula italiana. O meglio, era il popolo italiano che, risuscitato dai soffi primaverili del risorgimento, esigeva un'arte melodica nuova: la melodia della passione sfrenata e cieca, della passione che ricordasse la ribellione, che sapesse un po' di polvere e di sangue. Verdi fu la voce del nuovo bisogno. I libretti si popolarono di situazioni drammatiche irte di spasimo e di ferocia. E alle tenui cantilene, agli affetti leziosi e di poco palpito, subentrarono modi di canto dalla tessitura più audace, dalla struttura ritmica più marcata e violenta, e forti effetti corali e strumentali, e finali «allegro furioso» atti ad ubbriacare i loggioni avidi di commozioni rapide e brutali.

Se non che anche l'arte Verdiana rimase nella sostanza simile a quella dei predecessori; arte, cioè, sempre primitiva nel contenuto sebbene spesso perfetta nella forma, profondamente sensuale, di tinte accecanti, di un sentimentalismo un po' barocco, ma spesso franco e sincero; arte che, prossima forse ora al suo tramonto, non è destinata del tutto all'oblio, ma è meritevole di esser frammentata da una critica spassionata e rigorosa in una specie di florilegio contenente le più belle ispirazioni dei nostri ottocentisti, delle quali dobbiamo, e a ragione, esser gelosi, se non altro per non interrompere le più pure tradizioni del nostro linguaggio musicale1.

Ora, Pietro Mascagni appunto è un continuatore degli operisti popolari. Non ostante la preparazione più accurata, il possesso d'un'orchestra più ricca, più colorita e più flessibile, egli rimane un melodista fresco, facile, talvolta futile, ma quasi sempre trascinante per la esuberante ed ingenua passionalità. Egli, pur avendo una personalità diversissima da quella di Rossini e di Verdi e, come Rossini e Verdi, impersonando la nuova mediocrità mentale della terza Italia, non è che un continuatore in linea retta di Verdi e di Rossini; prezioso, ammirevole per questa sua bella italianità (che a dir vero non possiede molto Puccini forse meno ingenuo, ma d'una sentimentalità troppo infranciosata, sul tipo del buon Massenet); colpevole, come quelli, di essere così al disotto della vasta cultura e della profonda coscienza dello spirito umano che hanno avuto i grandi d'ogni tempo.

II.
Retorica nell'opera italiana

Poichè se ogni arte è condizionata nella libertà del suo contenuto, vi sono però artisti che nascono e si sviluppano quasi al di sopra della mentalità comune, violentando, se troppo angusti, i limiti della storia di cui sono figli, sebbene serbando profondamente conficcate le radici in quella storia stessa. L'operista italiano, invece, ha, quasi sempre, una mentalità del tutto immersa, anzi sommersa, nel flutto della mediocrissima vita che lo circonda. Egli è così un'anima semplice, di quella semplicità un poco artefatta delle anime popolari, che non appena venga varcata da noi, ci desta un'antipatia irrimediabile. Certo nell'arte non vi è progresso, ma vi è progresso nelle condizioni del suo contenuto. Ponendo il caso d'un uomo che da fanciullo abbia vissuto tra il popolo e abbia sentito com'esso sente, e che, dopo, esperienze diverse portarono a conoscere una vita più alta, più ignuda di pregiudizi e di debolezze, non ci meraviglierà che quest'uomo sorrida con commiserazione della sua infanzia. Infatti non c'è cosa più erronea del credere che l'anima popolare sia la più genuina che vi possa essere. La sua forza di sentire potrà essere, ed è spesso, più violenta della nostra, ma l'esattezza delle impressioni, la elevatezza del gusto, la chiarezza del pensiero, cresce in ragione che ci innalziamo e ci allontaniamo dallo stato confuso e bolso della vita popolare2.

Ognuno di noi se proprio da fanciullo non sia stato figlio del popolo, può avere sperimentato, conoscendo qualche parrucchiere o qualche tappezziere o penetrando nell'intimità d'una famiglia del popolo, tutto il misto di grottescamente falso e di ingenuamente vero, che contengono i sentimenti del volgo e le loro estrinsecazioni. Ora sarà il baleno d'un concetto larghissimo, che l'ingenuo buon senso sfiora riempiendoci di stupore; ora sarà la vana ripetizione male a proposito d'un trito sofisma che ci urta e ci disgusta; ora sarà una intuizione splendida, quattro o cinque parole, un'osservazione psicologica, un'intonazione, un arabesco della voce d'uno che canta per i campi, che ci infondono un vero e proprio brivido estetico; ora sarà la deformazione di non so quale orribile verso d'uno dei tanti poetucoli italiani retorici e mentitori, per lo più a scopo di volgari sottintesi carnali, che ci farà voltare nauseati da un'altra parte.

L'arte popolare o di chi anche a traverso studi relativamente superiori, si può pur sempre chiamar popolo, presenta queste bellezze e questo grottesco, questa curiosa mistura di pura semplicità e nitidezza nella visione ed espressione, e di tronfiezza ridicola. Così assistendo, per es., ad un'opera di Giuseppe Verdi, è per noi una continua oscillazione tra l'aere sereno della bellezza e il tanfo opprimente della retorica. Ma intendiamoci bene sul carattere specialissimo di questa retorica. Essa è come una retorica iniziale, una retorica delle condizioni in cui s'è formato il contenuto. Quando tutto l'ambiente storico in cui un artista si sviluppa, commette un errore comune, è difficile che quell'artista, se non provvisto di un punto d'appoggio per giudicare, di richiami critici per verificare, possa eroicamente difendere il proprio contenuto da quella specie di morbo universale. Onde avviene che si formano certi schemi di arte, in cui la visione degli artisti vissuti nello stesso ambiente storico sembra avere un punctum caecum sempre allo stesso posto. Per esempio, v'è nell'opera italiana un luogo più comune delle così dette arie della pazzia, scena della maledizione, scena del riconoscimento, scena d'amore, scena della morte? Però, superata da noi la noia che c'infligge questa costante retorica di situazioni, talvolta niente è più bello della melodia che il compositore trovò per tale situazione trita e ritrita. Al modo stesso, nella musica religiosa di Bach, la condizione del contenuto essendo convenzionalissima, le cantate del maestro di Eisenach, eccettuati alcuni recitativi ed alcuni cori, consistevano sempre in arie e in duetti in cui il vanerello amore agghindato e incipriato e imparruccato dell'anima per il suo innamoratissimo padre, era espresso con sempre nuova eleganza sincera dal compositore, che non sospettava affatto quanto fosse indecoroso per l'anima e per Dio tenere quel contegno da Florindo e Rosaura. In questo caso, come nel caso delle situazioni melodrammatiche dell'opera italiana, noi non possiamo chiamare retorica la forma musicale (talvolta bellissima se staccata dal contesto col quale ha relazioni che noi non possiamo sopportare); ma retorica, le condizioni in cui è sorta tale musica; la quale anche ai contemporanei parve bellissima e fu da quelli medesimi ben distinta dalla musica veramente retorica, cioè la vecchia intuizione, il vecchio motivo, la volgare modulazione ripetuta ormai a sazietà.

E in che cosa, se non in questa sincerità e convenzionalità aventi ineluttabili ragioni storiche, va cercata la spiegazione di quel fatto che notava lo Hanslick, che nulla è più cedevole al tempo e alla moda (cioè alle mutevoli condizioni del superficiale sentimento popolare) delle forme della musica teatrale? I nostri nonni hanno infatti pianto alle settecentesche smanie della Vestale colpevole di Spontini, come i nostri bravi loggioni moderni palpitano e fremono all'eroismo da sartine e da commessi viaggiatori della Bohème o si commuovono all'apoteosi da giornale illustrato della mousmè Iris, cortigiana abortita per ignoranza. E, parimente, i nostri padri vibrarono dinanzi alle victorughiane idealizzazioni del buffone di corte Rigoletto, come i loro rispettivi bisnonni erano andati in solluchero alle graziette lascive e seducenti della Serva che non contenta del possesso carnale d'un vecchio padrone di provincia, ne vuol sancito il dominio con un bel matrimonio. Come si vede il fenomeno è vecchio e a forza di nonni e di bisnonni si potrebbe senza fatica risalire, seguendone le traccie, a Plauto e chissà quanto più su.

III.
Ciò che simboleggia Pietro Mascagni nell'opera moderna italiana

Pietro Mascagni, ho detto, è un discendente in linea retta degli operisti italiani. Al pari di loro, egli non mira che a destare i tumultuosi fremiti salienti dalle platee, ruinanti come uragano dai loggioni, con delle scene che afferrino l'attenzione del pubblico alla prima audizione, con dei finali coronati di quelle folgori degli ottoni, senza delle quali il volgo non crede all'esistenza del miracolo. Nelle sue opere scorrono, ondeggiano dal principio alla fine, fiumane di melodia che inebriano le anime di ebbrezze facili e passeggere. Un motivo di Beethoven o di Wagner difficilmente diventerà possesso comune, il contenuto di cui è riempito essendo soltanto parzialmente accessibile al pubblico, il quale non ama le conquiste faticose. La profondità e la fedeltà dell'amore non son molto comuni tra le persone volgari e le opere dei classici (ossia dei grandi) non trovano nel popolo la pazienza vigile che esigono per esser comprese, la qual pazienza di comprensione è già essa quasi una genialità, educata a lungo e sviluppata con rigore di cultura.

Il canto in Mascagni è sottolineato da un'orchestrazione, a cui la ricchezza coloristica dei timbri non toglie un carattere di semplicità affatto contrario alla complessità tematica delle grandi creazioni sinfoniche. Per i nostri vecchi le opere di Pietro Mascagni possono significare ai loro cuori e cervelli conclusi nel loro ormai giovanile passato, un intedescamento della musica. Ma questa è un'illusione. È vero bensì che anche l'opera mascagnana ha risentito del decadimento del bel canto, e del sopravvento su questo dell'orchestra a commentatrice del dramma. Ma, nella realtà, la melodia, sia pur trasmigrata dalle fresche gole umane nei numerosi strumenti dell'orchestra, è rimasta la vecchia melodia italiana dalle forme regolari, dai blandi ritornelli, dalla serena cadenza finale coronata da una nota tenuta per far piacere alla voce dei cantanti e all'orecchio del pubblico, che ama i cantanti un po' simili a lottatori di molta resistenza. E gli intermezzi mascagnani, i preludi, e i famosi commenti orchestrali alla fine o d'un'aria o di un duetto (commenti che sono poi stati imitati da tutti i mediocri compositori moderni italiani, compresovi uno non mediocre, Lorenzo Perosi), che altro sono se non sempre, melodia, vecchia melodia italiana, meglio vestita, più sonoramente versata negli orecchi degli uditori, più argutamente organizzata? E non se ne sentono infatti intuonar gli echi per le strade insieme coi motivi più amati di Rossini, di Bellini, di Donizzetti, di Verdi? Oh! non temano i nostri vecchi! non sarà Mascagni che intedescherà l'opera italiana! Egli ha ereditato una delle nature più italiane (nel senso popolare) che ci sieno mai state. Se i vecchi non lo capiscono, è che alla retorica dei cori di guerrieri medioevali, di sacerdoti romani, di schiave orientali, etc., etc., è succeduta una retorica più nuova, la retorica delle lavandaie giapponesi, dei ladroni scozzesi, dei contadini alpigiani, e più di tutto, la ormai non più recente retorica dell'enfasi strumentale «che dall'orchestra prorompe». Tutte cose che se non son consentanee ai gusti dei fedeli del Prati, di Victor Hugo e del Guerrazzi, non vogliono precisamente dire che Pietro Mascagni non appaia nella sostanza italiano quanto Verdi agli italiani d'oggidì.

Certo profondamente diversa è la sua personalità da quelle dei maestri italiani della vecchia scuola. Al periodo epico del risorgimento di cui fu interprete fedele il romantico Verdi, è successo un periodo in cui l'Italia sembra ritornata per un lato quasi ai tempi di Rossini, per un altro ha acquistato una qualità dolorosa, che allora non aveva, un dolore cioè di passione che fa soffrire, un rifiorimento più agitato della malinconia erotica dei Paisiello e dei Pergolese. E Mascagni è il cantore delle sensazioni fresche, della carne giovanile, della cieca salute, del riso gaio della folla nei giorni di festa, e del dolore della carne tradita per un'altra carne. Certo a lungo andare questo trionfo di carne, di riso, di allegria, di dolore che non piange che per amore, per amore, per amore, è monocorde, è monotono, e stanca. Ma quali melodie sane non spicciano fuori da questa vena limpidissima! Che orgia di canto! che gaiezza rimbalzante di suoni, nitidi, tinnuli, sgargianti come i colori che si vedono in una fiera! Certo, e in un senso è bene, si può essere ostili all'autore della Monferrina dell'Amica. Ma anche i più ostili, coloro che più si sono allontanati da questa arte così angusta d'orizzonte, per essere stati bruciati da ben altri spiriti, profondi come abissi solcanti fino alle viscere l'umana natura, non possono fare a meno di ridere a scrosci, di urlar di gioia e di dolore bestiale con questo mago che al posto del cuore ci ha un nido, donde balzano alate le più fresche canzoni d'un popolo.

IV.
Mascagni nella musica europea

Forse in nessun tempo la tenuità d'un compositore italiano non profondo, ma sincero, non sapiente, ma astuto, fu più discussa, anzi talvolta neppure onorata della discussione – molti critici si arrestano dinanzi alla volgarità di Mascagni e non osano progredire più in là – , come oggi accade per Mascagni. E se ne comprende facilmente il perchè. Ai tempi di Rossini, per es., nonostante che il grandissimo e allora ignoto (o quasi) Beethoven impersonasse e superasse le grandi correnti letterarie e umane del romanticismo, l'Europa era solcata da larghi soffi di leggerezza un po' scettica, e, sebbene l'opera buffa e l'opera seria avessero trovato dei compositori molto più eletti e, a loro modo, più profondi di Rossini (ad es.: Cherubini), fu però Rossini che con il fuoco indiavolato del suo brio di gaudente li superò tutti, vellicando in modo insuperabile quella voglia matta di divertirsi, e creando un capolavoro magnifico d'opera comica, il Barbiere di Siviglia, e un capolavoro altrettanto magnifico d'opera seria, il Guglielmo Tell. Se non che erano dei capolavori sì, ma dei capolavori relativi alla superficialità del tempo. Tempo nel quale pareva quasi che la vera grandezza fosse riserbata ai poeti e ai filosofi, i quali accettavano la piccolezza dell'opera musicale, dandole chissà quale interpretazione fantastica. Così Schopenhauer, complessa natura di pensatore d'artista e di viveur, s'estasiava davanti alla volontà di vivere del ridente Rossini, al modo stesso che il suo figlio spirituale Nietzsche perdeva la testa davanti alla musica «dai piè leggeri come il vento» della Carmen, la quale per lui simboleggiava nientemeno, che l'astutissima flessibile adorabile musica mediterranea. E si sa quanto oro, quanto tepore, quanto profumo meridionale contenesse per il poeta del Riso questo vocabolo di «mediterraneo».

Comunque, era sempre la poesia (o la critica poetica: se più piace) che dava un'arbitraria grandezza alla musica. La vera grandezza, ripeto, era riserbata soltanto ai poeti e ai filosofi.

Il grazioso e un po' affettato Mozart, il gaio adolescente settecentesco, dal sorriso malizioso e dai languori affettuosi e delicati, aveva creato un'opera buffa imperitura, figlia e nipote dei gloriosi modelli italiani, e il cui tipo aveva incontrato le grazie di tutti i compositori italiani. Più che a tutti piacque a Rossini, che soleva chiamar Mozart il «Dio della musica»; la quale opinione perdura ancora nella coscienza di alcuni, tanto che, se non erro, in un manuale di musica moderno, ebbi a leggere con un certo stupore, come Mozart fosse il più gran genio che della musica sia mai esistito, un uomo così sbalorditivamente musicista che trasformava in musica tutto quello che toccava. Non so la paternità di questa frase, ma se la sapessi, domanderei a chi la disse per il primo, che cosa faceva Wagner di quello che toccava: forse dei tromboni? Ad ogni modo Mozart è un caro fanciullo gaio e sereno, ma niente più di questo. Alcuni, tra i quali un grande conoscitore di musica, Romain Rolland, vogliono trovare in lui una saggezza profonda. Ma io sarei più propenso a credere che, intessuta d'una più delicata e gentile sentimentalità tedesca, anche in Mozart sia la consueta leggera retorica settecentesca del mite Metastasio, e di tutti i suoi fratelli letterati, amanti dei grandi nomi eroici e degli intrecci da teatro di burattini.

Beethoven fu il primo che rialzò la musica all'altezza della grande poesia; e potendo, anzi forse dovendo dire della grande arte, dico volentieri della poesia, pensando a Goethe, del quale Beethoven fu l'unico fratello, da alcuni creduto anche maggiore. Con Beethoven la musica potè aspirare ai più alti destini. Anche Bach, Händel, Palestrina, Orlando di Lasso, Monteverdi, etc., furono grandi; ma nessuno di loro è degno di esser messo tra i più alti spiriti intuitivi, la cui apparizione segna come una nuova tappa nel lungo cammino dell'umanità. Poichè con Beethoven per la prima volta la musica passa dal valore di arte decorativa, di arte di abbellimento, di «inclita arte a raddolcir la vita», al valore di arte intima, quasi direi di arte di coscienza, rispecchiante tutto un momento storico dello spirito umano in tutti i suoi meandri, in tutte le sue contradizioni, in tutte le sue aspirazioni più significative. Beethoven è il primo musicista universale; la civiltà ellenica ebbe Fidia, la civiltà medioevale ebbe Dante, la civiltà del rinascimento ebbe Shakespeare, la civiltà modernissima, che è ancora la nostra, ha Beethoven. Con lui anche i musicisti sentirono con orgoglio che a loro non toccava più d'imbandire con le briciole cadute dal banchetto dei grandi il loro modesto banchetto di servitori. Così si ebbe una nuova musica di nuovi musicisti, nuovi d'anima d'arte di valore storico; Wagner, Berlioz, Schumann, Chopin, con diversa fortuna e con diversa bontà d'intendimenti, furono i veri poeti dell'Europa nell'800. Come dice Romain Rolland nella sua splendida prefazione ai Musiciens d'autrefois: «la lumiére (dell'arte) ne cesse pas de brûler; seulement elle se déplace, elle va d'un art à l'autre, comme d'un peuple à l'autre.» Dopo Goethe, grandissimi poeti dovemmo aspettar molto ad averne. Ma quali musicisti non fiorirono, profondissimi poeti del loro tempo che è, in gran parte, sempre il nostro! La musica divenne un linguaggio meravigliosamente eloquente, pieghevole, policromo, atto a rendere tutte le più mutevoli sfumature della psiche, la quale sembrava fino ad allora ribelle alle forme troppo dure e incerte dell'armonia, simili quasi all'intirizzimento delle statue prefidiache. Beethoven, sopratutti, poi Wagner Berlioz Schumann Chopin empirono la storia di opere d'arte in cui i suoni raggiunsero la potenza espressiva della lingua multisecolare della poesia. Soltanto forse nella Grecia armoniosa, nel trecento eroico dell'Italia, s'incontra un periodo d'arte da paragonare a questa immensa ricchezza musicale dell'800.

Ma, ohimè, quell'immenso fremito d'armonia oggi si è spento. L'arte no, non si è spenta, chè è riapparsa per es., in Italia sotto le spoglie gloriose della poesia. Nessuno forse infatti ha mai pensato a scoprire le infinite somiglianze che i musicisti dell'800 collegano con i nostri poeti del 900. L'arte di Riccardo Wagner e l'arte di Gabriele d'Annunzio hanno delle relazioni che nessuno s'è mai ancora proposto d'indagare. Ma la musica è moribonda. A Riccardo I è succeduto Riccardo II, lo Strauss, il musicista che nonostante il suo contenuto decadente, e il suo stile barocco, mostra per certa sua robustezza, di esser sempre d'una gloriosissima razza di musicisti. A Berlioz, è succeduto (sebbene non spiritualmente) il piccolo Debussy wagneriano a rovescio, che tenta d'imbastardire la grande musica francese obbedendo a dei falsi canoni estetici (il discorso continuo, la guerra alla cadenza come simbolo della rotondità perfetta della forma musicale, il crepuscolo armonico, e finalmente l'impressionismo rubato alla pittura), e con dei gusti letterarii ormai stantii (Mallarmé, Verlaine, Baudelaire, etc).

Ora queste anime raffinatissime, malate di dilettantismo estetico e di un infecondo criticismo, se con i loro sforzi, impotenti ancora a generare una grande êra musicale, conservano accesa la lampada semispenta della grande musica e accumulano le faticose e talvolta oziose esperienze che serviranno a far più possente il futuro linguaggio della musica3; esagerano però la posizione di dispregio che verso la popolaresca opera italiana tennero i loro grandi padri. Ma quanto più melanconica è questa loro posizione di quella d'un Wagner verso, per es. un Giuseppe Verdi! Il popolo ha sempre tradito i grandi. Ma se oggi il pubblico diserta i teatri ove si eseguisca Strauss o Debussy, per andare ad ascoltare L'Amico Fritz o la Cavalleria Rusticana, la critica non può dar assolutamente torto al pubblico.

Poichè, è vero, Riccardo Strauss e Claudio Debussy e i loro minori compagni, sopra il nostro Mascagni hanno una superiorità di cultura di pensiero di nobiltà d'aspirazioni. Ma si può poi dire che essi cantino all'Europa un contenuto nuovo e necessario? La nuova generazione che vien su ora, o che deve necessariamente venir su ora, non travolgerà essi pure nella sua ribellione contro tutti i sofismi moralistici e tutte le falsificazioni del sentimento dei Verlaine, dei Wilde, dei D'Annunzio? Chi è Salomè od Elettra se non una Basiliola e una Fedra più che mai inferocite nella loro libidine monotona dal macabro ritmo d'una musica di barbaro degenerato? E che cosa significa la coppia bamboleggiante di Pelléas e Melisanda se non un tentativo della stanca anima europea a ritornare a una semplicità sublime che essa non sa più concepire (avendone da tempo perduta la strada), che come una adolescenza di bambini tardivi? No; la musica europea è in decadenza. I suoi rappresentanti maggiori si esauriscono in sforzi formali vuoti di contenuto, o pieni d'un sì ridicolo contenuto, che il buon popolo sano e ribelle alle corruzioni senili delle così dette classi superiori, quando non sia sbalordito dal fragore, o dal terrore del silenzio, disapprova ed irride del suo meglio.

E davanti allo Strauss e al Debussy il piccolo Mascagni, a cui la musica scoppia nel cuore come una polla irruente, a volte un po' torba, ma spesso tersa, pulita e chiara, è quasi l'incarnazione, per chi sa leggere l'infinito linguaggio della storia e trovarvi la rivelazione di quella storia metafisica su cui essa eternamente corre e ricorre, d'una profonda verità estetica. È vero che è il valore del contenuto che fa grande l'arte; ma esso è soltanto relativo, e non fa che piccola o immensa l'opera d'arte, insignificante o luminosa nei secoli la visione dell'artista. Ciò che fa davvero che l'arte sia arte, è la forma; senza di questa il contenuto (o il desiderio, il presentimento del contenuto) non raggiunge l'esistenza estetica, ed è inutile che se ne parli come di arte. Che importa se Debussy è uno spirito più eletto più colto più sottile più profondo di Pietro Mascagni? La sua forma è per ora uno sforzo, un atto volontario, non spontaneo del suo spirito; mentre la musica di Mascagni spesso raggiunge nel suo piccolo la perfezione; anzi, talvolta, come negli intermezzi della Cavalleria e dell'Amico Fritz, nella romanza dell'Iris, nella Monferrina dell'Amica sembra rievocare più cosciente e più profonda, la candida melanconia d'un Paisiello o d'un Pergolesi e quel loro gaio sorriso così calmo e così refrigerante.

Certo è triste dover rassegnarsi a cercare la musica; non la preparazione alla musica futura, ma la musica veramente viva, nei piccoli. Ma meglio dei grandi che non esistono i piccoli che esistono. Nè voglio dire che, tra i piccoli, Pietro Mascagni sia solo; voglio soltanto dire che, dinanzi alla terribile crisi che fa agonizzare la grande musica europea, l'Italia trova in Mascagni un puro rappresentante della sua vecchia opera popolaresca4.

1.Del resto certe selezioni si fanno talora senza aiuto della critica, ma quasi per una spontanea critica insita negli esecutori. Infatti dei molti melodrammi che in Italia sono stati composti da che la camerata del Conte de' Bardi ideò il genere dell'opera, che cosa è rimasto, se non qualche aria, staccata, senza danno reciproco, dall'opera a cui apparteneva, per esser cantata nei concerti?
2.Avverto una volta per tutte che il popolo di cui parlo qui non è il popolo delle campagne e delle montagne, spesso puro e a suo modo profondo; ma parlo del popolo delle città e dei grossi borghi, al quale si attagliano benissimo le mie osservazioni.
3.Se gli increduli volessero per prova di ciò che affermo un'analogia nella storia della musica, pensino alle costruzioni architettonico-contrappuntistiche dei sec. XIII e XIV, dalle cui aberrazioni armoniche doveva nascere la moderna armonia.
4.Non è accennato in questo mio rapido quadro delle condizioni della musica europea disegnato a scopo di inquadrarvi Mascagni, alla musica russa. Giacchè essa nella sua forma più genuina (cioè non nelle sue imitazioni italiane del 700 e tedesche dell'800) ha un cammino e uno spirito assolutamente diversi dallo spirito e dal cammino della musica europea. Oserei quasi dire che essa è quasi una musica asiatica. Lo stesso Chopin non è fratello ai nostri compositori.
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