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Kitobni o'qish: «Arrigo il savio»

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I

L'ultimo giorno di gennaio dell'anno 1882, un signore, alto della persona, dal volto abbronzato e dai baffi grigi, scendeva di carrozza, sulle prime ore del mattino, come a dire fra le otto e le nove, davanti ad un portone della via Nazionale, in Roma. Aveva l'aria assai nobile, era vestito con severa eleganza e andava diritto, con soldatesca balìa, come un colonnello in abito cittadino, che sotto le spoglie inusitate lascia indovinare i suoi trent'anni di spallini. Entrato nell'androne, e osservata non senza stupore la magnificenza delle scale, ascese al secondo piano, dove era scritto, su d'una piastra di porcellana, “Cav. Arrigo Valenti.

– Cavaliere! – esclamò il signore dai baffi grigi. – O che diavolo ha fatto il mio signor nipote, per esser nominato cavaliere? Dei debiti, m'immagino. E saranno certamente assai più di quelli che mi aveva lasciati sospettare la sua lettera ad uno zio che non ha mai visto nè conosciuto. Ahimè! Prevedo, – conchiuse egli, sospirando, – che pagherò anche questa bella piastra di porcellana del Ginori. —

Tirò allora la maniglia del campanello, e un minuto dopo fu aperto l'uscio da un servitore in mezza livrea.

– Chi cerca? – domandò questi.

– Il signor Arrigo Valenti.

– Il cavaliere, – ripigliò il servitore, battendo sul titolo, – non riceve ancora.

– Ah, mi rincresce. Sono arrivato stamane col treno delle sette, e credevo…

– Se il signore vuol lasciar detto il suo nome…

– Volentieri; ecco qua. —

Così dicendo, il signore dai baffi grigi aveva cavato di tasca il portafogli, per prendere un biglietto di visita. Ma ci aveva troppi biglietti di banca: e quelli di visita, o erano affogati nel mucchio dei loro più degni fratelli, o erano stati dimenticati a casa.

– Bene! – esclamò il signore, facendo un atto di rassegnazione, dopo due o tre d'impazienza. – Non ne trovo. Dite al vostro padrone che è passato a cercarlo Cesare Gonzaga. —

Il servitore sgranò tanto d'occhi, a mala pena ebbe udito quel nome, e s'inchinò per modo da far credere che volesse piegarsi in due.

– Perdoni, Eccellenza!.. Si dia la pena d'entrare! —

Il signore sorrise sotto i baffi grigi ed entrò. Quell'altro, richiuso prontamente l'uscio, corse a sollevare il lembo di una portiera in fondo all'anticamera.

– Per di qua, signor marchese, per di qua! – diceva egli, frattanto, inchinandosi da capo. – Questo è lo studio del padrone.

– Marchese! – brontolò il vecchio signore. – Per chi mi hai preso?

– Scusi, illustrissimo! Non è lei lo zio del cavaliere Valenti?

– Suo zio, certamente.

– O allora?

– Allora saprai, – disse gravemente il vecchio signore, – che si può essere zii, senza essere marchesi.

– Ah, ah, sicuro! – rispose il servitore, facendo bocca da ridere. – Ma egli è che i Gonzaga… scusi, illustrissimo! I Gonzaga sono… i Gonzaga, e portano d'oro con tre fasce di nero. —

Il vecchio guardò con atto di stupore quel servo, che gli blasonava con tanta sicurezza lo scudo.

– Come? – disse poi; – saresti un dilettante di araldica?

– Che vuole, illustrissimo! – replicò umilmente quell'altro. – Servendo i gran signori, ci si piglia anche un'infarinatura di quest'arte.

– Di bene in meglio! Sentimi dunque. Hai tu veduto mai uno stemma come questo: cuor d'oro in campo d'argento?

– Ella scherza, illustrissimo. Non si può metter mica metallo sopra metallo.

– Neanche in tasca?

– Oh, questo poi sì.

– Ottimamente; vedo che la sai lunga, giovinotto! Ma il tuo padrone…

– Vado ad annunziarla subito. Vuol essere contento il cavaliere, quando saprà che è arrivato suo zio. Da tre giorni l'aspetta con impazienza.

– Eh, lo credo; va dunque. —

Il servitore si avviò sollecito, con una gran voglia di fregarsi le mani.

– Ecco uno strano capriccio; – pensava egli. – Non vuole esser chiamato marchese. Capisco che potrebbe pretendere il titolo di duca. Ma infine, certi nomi storici hanno il titolo sottinteso. —

Fatta questa peregrina scoperta, il signor Happy (pronunziate Hèppi) si allontanò dallo studio. Rimasto solo, il signor Cesare Gonzaga, non marchese, nè duca, si avvicinò alla finestra, tanto per fare qualche cosa, aspettando.

– Chi conosce più Roma, specie da queste parti? – mormorò egli, guardando la strada.

– Trentatrè anni! Ah, come passa il tempo, quando i più belli anni sono sfumati! Ma che cosa è la vita? Le falde, i primi passi, i primi giuochi, le panche del collegio… poi l'università, un paio di duelli, quattro amori bugiardi e uno che si vorrebbe creder vero… qualche follìa, molti disinganni, molte amarezze… e allora una forte risoluzione! Nessuna via di mezzo; o il nuovo mondo, o l'antico; o l'America, o l'Asia. E là il lavoro, il febbrile lavoro, gli stenti, le privazioni, e qualche volta la fortuna, che un altro c'inghiottirà, come noi abbiamo inghiottita quella dei padri! Ecco la mia vita. Ed ecco, meno l'Asia e l'America, la vita del mio signor nipote; già l'ho indovinato dal gran desiderio ch'egli ha di vedermi. Avevo giurato di non rimetter piede in Roma, ed eccomi qua. Bei giuramenti! Ma come fare, con questo ragazzo che prega, invocando la memoria di sua madre, della mia povera sorella, che non dovevo più rivedere? Di certo le somiglia, perchè i maschi tengono sempre della madre. Poveraccio! Purchè non le abbia fatte troppo grosse! Qui, per altro, c'è lusso; ci si sente agiatezza. Chi sa? Forse è un quartiere d'affitto. E ci hanno messa anche la cassa forte. —

Il savio lettore avrà capito che Cesare Gonzaga si era già allontanato dal vano della finestra, per dare una scorsa in giro e una guardata allo studio del suo caro e sconosciuto nipote.

– Arnese di parata, la cassa forte! – borbottò egli, proseguendo. – Gli strozzini le conoscevano, ai tempi miei, queste alzate d'ingegno degli studenti di legge. Ma il mio signor nipote non è più studente; ha la sua laurea da due anni, da tre… che so io? Gran legista! Grande giureconsulto, ha da essere! Ci fosse almeno la libreria, per dar negli occhi ai clienti! Ah, ecco un volume sulla scrivania. È il codice di commercio; meno male! Ma se valesse dugento lire, come certi libri rari, sarebbe ancor qui? —

Come vedete, il signor Cesare Gonzaga non si lasciava confondere da tutta quella apparenza di lusso severo, e ci odorava il quartiere ammobiliato, e il conto da pagare ad un troppo credulo fornitore; fors'anco a più d'uno.

Le sue malinconiche osservazioni furono interrotte dal ritorno del servitore.

– Or bene? – gli chiese.

– Mi duole, illustrissimo…

– Dorme, ho capito; – ripigliò il signor Cesare. – Infatti, sono appena le nove del mattino. Che ora è questa mai, da venire in cerca di un nipote?

– O che, le pare? S'è alzato anzi per tempo e, se non fosse stato un certo negozio, sarebbe anche già andato a fare la sua solita trottata mattutina fuori di porta Pia.

– Anche il cavallo pagheremo; – pensò lo zio, sospirando. – Purchè non sia bolso, come certi cavalli che appoggiavano a noi! Ma allora, – soggiunse ad alta voce, – che cos'è che lo trattiene? —

Il servitore nicchiava un pochettino, ma sorrideva anche, mostrando negli occhi maliziosi il desiderio di farsi cavare i segreti di bocca.

– Veda, non so se debbo dire… Infine, non ho neanche potuto giungere fino a lui, perchè l'uscio di comunicazione è chiuso.

– Comunicazione! con che!

– Ecco, – ripigliò il servitore con aria di mistero, – con lei, che è suo zio, si può dire. Dev'essere… in conferenza.

– Già, capisco, con qualche pezzo grosso, un avvocato, un collega…

– Non so, perchè, da un pezzo che viene, io non l'ho mai veduto.

– Non gli apri tu?

– No, mai; l'uscio che mette dall'altra parte, in via Sallustiana, lo apre il signor cavaliere. —

Il vecchio stette alquanto sovra pensiero; quindi osservò con molto giudizio:

– La scienza è arcana, ed ama nascondersi. Aggiungi che alle persone di riguardo certe attenzioni bisogna usarle. Come ti chiami?

– Happy, secondo l'uso di casa; Felice, secondo il registro battesimale della Mirandola.

– Concittadino del tuo padrone, dunque!

– Sì, illustrissimo, e ci siamo conosciuti, dirò così, da bambini.

– Ah, meglio così! Tu devi amarlo molto, e conoscerlo… egualmente. Senti, Happy Felice, tu mi sembri un giovanotto d'ingegno svegliato.

– Se ella lo dice…

– I fatti lo dimostrano; la patria lo vuole; dovresti chiamarti Pico, senz'altro. Ho già avuto un saggio delle tue cognizioni in araldica. Il metallo che non si può mettere sopra un altro metallo… A proposito, scommetto che ti piacciono i marenghi. —

E il vecchio Gonzaga avvicinava, così dicendo, il pollice e l'indice della mano destra al taschino della sottoveste, secondo la buona usanza degli antichi.

– Scommetta pure, illustrissimo; – rispose Pico della Mirandola. – Guadagna di certo; specialmente adesso.

– Perchè adesso?

– Eh, si figuri! C'è l'aggio sull'oro. Stamane il listino porta novantaquattro centesimi, con tendenza spiccata a salire, essendoci molta domanda per i pagamenti all'estero.

– Tu sai di cambio come d'araldica; – gridò il vecchio, ammirato. – Bravo! Vedi questo, se gli è di peso.

– E di pregio, caspita! – rispose Happy, dopo avere osservato il marengo che gli aveva offerto così liberalmente il Gonzaga. – Conio del 1849, con l'Italia libera sull'esergo; questi si vendono cari per le raccolte.

– E di numismatica come di cambio! – esclamò il Gonzaga, ridendo. – Ma già, che cos'è il cambio? Numismatica applicata al contante. Suvvia, arca di scienza, io ti ho aperto; – proseguì, mettendosi a sedere; – parla dunque, ti ascolto.

– Di che cosa debbo parlare, illustrissimo?

– Di tutto quello che sai. Sono lo zio, una specie di zio d'America, quantunque venuto dall'Asia, e posso, e devo, e voglio sapere ogni cosa. Il tuo padrone è in conferenza; ne avrà ancora per un pezzo; occupiamo dunque il tempo a parlare di lui. Come vive mio nipote?

– Bene. – rispose il servitore.

– Ma, dico a te che lo conosci da bambino, ha debiti? —

Happy fece un gesto di meraviglia, e, se volete, anche di orrore.

– Debiti, il mio padrone? Ohibò! Queste cose si lasciano ai figli di famiglia.

– Ah! tu dici?.. Ma sai che mi levi un gran peso dallo stomaco? Sul serio, non ha debiti?

– Neanche per sogno. E chi ha potuto darle ad intendere una simile sciocch… Oh, scusi, illustrissimo!

– Dilla, dilla intiera; – replicò il vecchio giubilante. – E prendi quest'altro, in ricompensa della tua buona notizia. È un Luigi XVIII; servirà per la raccolta. Non ha debiti, dunque? Ma sai che è una maraviglia?.. —

Il servitore si strinse nelle spalle, dopo avere intascato religiosamente la seconda moneta.

– Ma che debiti! – esclamò. – Roba d'un secolo fa. Chi è che fa debiti, ora? Il mio padrone ha crediti, e molti; oserei dire fin troppi. —

Il Gonzaga fu per mettere la terza volta le mani al taschino, ma si trattenne, per non dare nella caricatura,

– Con le tue buone notizie tu saresti capace di rovinarmi, – rispose. – Dunque gli è un Creso?

– Eh, – disse il servitore, – se lo intende per ricco sfondato, metta pure.

– E che fortuna gli fai? sentiamo.

– Così su due piedi, non saprei.

– Prendi una sedia; non far complimenti.

– Oh illustrissimo, le pare? Dicevo così per dire. Ma infine, calcolando alla grossa, se sa liquidare a tempo, ha già un milione e mezzo, come è certo che io ho, per grazia di Vossignoria, quarantuna lira e ottantotto centesimi. —

Il signor Gonzaga non istette a fare i conti sull'aggio dell'oro. All'annunzio del milione e mezzo aveva già dato un balzo sulla poltrona.

– Hai detto? – gridò, ficcando gli occhi addosso al servitore. – E se non sa liquidare?

– Oh, non c'è questo pericolo, perchè il cavaliere conosce molto bene i suoi interessi. Ma posto il caso…

– Sì, poniamo il caso; – disse il Gonzaga, che prendeva gusto alla conversazione.

– Gli rimarrebbero sempre ottocento o che mila lire; – ripigliò il servitore segretario. – Ecco qua: centomila lire di rendita, comperata a ottantasei, rivenduta a novanta; veda un po' che affar d'oro. Ventiquattro azioni della Banca; le aveva a duemila, e sono ora a duemila trecento sedici. Buon titolo, perbacco; e crescerà, non dubiti, crescerà. La Banca sostiene lo Stato; lo Stato sostiene la Banca. E il Credito mobiliare? Il mio padrone è uno dei pochi che hanno creduto in tempo, e potrei dire che ha fiutata l'aria. Ha comperato ducento azioni a ottocento, ha rivenduto a novecento trentasei; ricavo netto… —

Il vecchio non volle saper altro.

– Va al diavolo! – gridò. – Ma come? Che zio d'America sono più io? Qui si nuota, si naviga nell'oro. Mio nipote… il figlio di mia sorella Cecilia… quel ragazzo che ancora tre anni fa, quando io ne ebbi le prime notizie, studiava leggi a Bologna!.. Ai miei tempi, l'oro, dagli studenti, era ancora annoverato tra i metalli preziosi. Si parlava con aria di mistero d'una miniera in Colco, custodita da un drago, che aveva una faccia da strozzino. Basta, meglio così. Quei debiti non erano mica la cosa più bella del mondo. Ci facevano anzi un po' di torto; senza contare che ci obbligavano a certi studi di topografia! I nostri successori, se Dio vuole, hanno mutata la faccia del mondo. Per altro, amano ancora, come noi, – osservò il vecchio, sorridendo. – Qui c'è discretezza e mistero. La conferenza lo dice chiaro. Anche di qua sento l'ambrosia, indizio del Nume. Bravo il mio giovane Arrigo! – seguitò, borbottando tra i denti, ed anche a volte mandando fuori le parole, alla guisa degli uomini che son vissuti lungamente soli e pensano, come suol dirsi, ad alta voce. – Amo chi ama la donna, e più ancora chi, amandola, mostra di rispettarla. Quando ero giovane io… Ma che fai tu, Pico della Mirandola? – diss'egli, interrompendo il monologo, per rivolgersi al servitore, che s'era accostato e tendeva l'orecchio.

– Scusi, illustrissimo, stavo a sentirla; – rispose quell'altro, col suo ossequio condito di malizia. – È così istruttivo, il suo discorso!

– Ah sì, vorresti anche imparare la storia antica, briccone? —

Una scampanellata all'uscio di casa mozzò le parole in bocca a Pico della Mirandola, che già stava per rispondere alla celia del Gonzaga, e fu invece costretto a correre in anticamera.

Il vecchio riprese la sua rassegna, ma questa volta con animo mutato e intieramente propenso all'ottimismo. Ottocento mila lire! Fors'anche un milione e mezzo! Che si canzona?

Poco stante, entrava nello studio un nuovo personaggio. Era un uomo non vecchio, nè giovane, e aveva una di quelle facce asciutte a cui dareste trenta o quarant'anni, magari venticinque, o cinquanta, tanto è difficile raccapezzarsi, tra la barba fitta di color ferrigno e la poca carne che apparisce alla vista. L'aspetto poi era severo, quasi triste; gli abiti signorili, l'aria disinvolta, il passo franco dinotavano l'amico di casa.

– Credo che si stia vestendo, perchè è tornato dianzi dalla sua cavalcata; – gli aveva detto il servitore, pronto alle invenzioni, e senza darsi pensiero della versione più esatta che s'era creduto in obbligo di confidare allo zio del padrone. – Se vuole aspettarlo qui, c'è anche suo zio, il signor marchese Gonzaga. —

Il nuovo venuto si avanzò con molta premura, appena ebbe udito quel nome.

– Oh, fortunatissimo di fare la sua conoscenza, e di presentare i miei rispetti, – soggiunse. – Arrigo, da parecchi giorni, non fa che parlare di lei.

– Ottimo cuore; – mormorò il vecchio, inchinandosi.

– Ah sì, cuor d'oro! – rispose quell'altro. – E l'ama molto, creda; io, che passo le intere giornate con lui, ne so qualche cosa. Ed anche da tre giorni lo aspettava a Roma.

– Sì, lo so; – rispose Gonzaga. – Il suo Happy me lo stava dicendo per l'appunto, prima che ella giungesse.

– Ieri sera siamo andati insieme alla stazione, – incominciò il nuovo personaggio, – perchè Arrigo l'aspettava col treno serale. Ma ella non c'era, e il mio amico ne fu dolentissimo. Si figuri! Egli, per solito così calmo, era proprio fuori di sè. Ma io ora l'annoio, con questi discorsi.

– No davvero; prosegua; mi fa anzi piacere, signor…

– Orazio Ceprani, per obbedirla.

– Onoratissimo! – ripigliò il Gonzaga, facendo l'inchino d'obbligo. – Mi fa piacere sentire da lei che Arrigo mi ama. Non ho più che lui, di parenti, e quando mi ha scritto che aveva bisogno di me, si figuri, mi sono augurato un bel paio d'ali. Ma il vapore non è l'elettrico. Avevo anche qualche faccenda di campagna da assestare, e mi passò la giornata.

– Ella abita sul Reggiano?

– Alle Carpinete, si figuri, nei dominii della contessa Matilde. Ritornato da tre mesi in Italia, ho subito trovato da comperare un podere. Un po' lontano da casa mia: ma che vuole? Laggiù a Mantova non mi conosceva più nessuno. Siamo vecchi, ecco il guaio.

– Vecchio, poi! A cinquant'anni!..

– Sì, bravo, mi canzoni. Cinquant'otto, signor mio, e si potrebbe dir anche cinquantanove, se in materia d'età avesse valore la massima romana: annus incoeptus pro integro habetur.

– In verità, se non lo dicesse lei… Potrebbe anche tacerlo, e far credere ai cinquanta.

– Non ci son dame e mi fo coraggio a confessarli tutti; – replicò allegramente il Gonzaga. – Li porto bene, non dico di no, quantunque venticinque o trenta li porterei anche meglio. Ma proprio, ritornando al nostro discorso, ma proprio, signor Ceprani, ella non poteva darmi più lieta notizia, e sono anche più contento di essermi mosso dal mio èremo. Questa Roma che ho lasciata a venticinque anni, – qui il vecchio trasse un sospiro e corrugò le ciglia, – mi pare più bella, ora che so di averci qualcheduno che mi ama. A noi, vissuti le mille miglia lontani dalla patria, invecchiati di là dai mari, in mezzo a genti barbare, come canta nel Belisario il tenore, queste cose hanno un pregio immenso, un pregio che non lo può intendere chi è sempre vissuto all'ombra dei campanili e delle torri italiane. Eccole dunque, signor Ceprani, una bella fine di mese. —

La faccia del signor Ceprani si rabbruscò, a quel ricordo innocente del calendario.

– Ahi, non per me! – diss'egli in cuor suo.

– I miei ringraziamenti, adunque, e la mia amicizia; – proseguì il vecchio Gonzaga, stendendo la mano al signor Ceprani. – Già, gli amici di mio nipote debbono essere i miei. E badi che il titolo di amico io non lo dò per celia. Vengo dalle terre dei barbari, io! —

Orazio Ceprani s'inchinò e strinse la mano del vecchio, sforzandosi di sorridere all'arguto discorso, ma non riuscendo che a fare una smorfia.

– Ah! – disse Happy, andando verso un uscio di rimpetto a quello dell'anticamera. – Ecco il padrone. —

Aveva sentito scricchiolare i denti di una chiave nei congegni di una certa toppa, il sapientissimo servitore.

Orazio si mosse, per andare incontro all'amico. Cesare Gonzaga si tirò indietro; anzi, per dirvi tutto, si strinse forte, si puntellò alla spalliera della poltrona, su cui era stato dianzi seduto. Era commosso, il vecchio Gonzaga, tremava tutto, all'avvicinarsi di quel nipote che amava tanto, senza averlo ancora veduto, che aveva giudicato da principio un giovanotto carico di debiti, e che lì per lì, senz'altra preparazione, fuor quella di un discorsetto di Happy, doveva salutar milionario.

II

L'uscio si era aperto, la portiera alzata, ed entrava nello studio un giovane elegantemente vestito da mattina, non molto alto di statura, ma ben fatto e assai sciolto della persona, biondo, un po' pallido, dai lineamenti finissimi, dagli occhi perlati sfavillanti, sebbene per vezzo tenesse le palpebre socchiuse, e dalle labbra sottili, leggermente colorate, che sporgevano un tantino, in atto tra cortese ed ironico, come quelle di un principe, di un piccolo potente della terra, che è consapevole della propria grandezza, e vuole mostrarsi benevolo, sì, ma in un certo modo e fino ad una certa misura.

Cesare Gonzaga non badò a queste inezie. Vide il giovanotto gentile e gli bastò di aver riconosciute le sembianze di Cecilia, della sua amata sorella. Ahimè, povera Cecilia! Cesare Gonzaga, nel 1849, abbattuto dalle sventure della patria e percosso da un altro dolore tutto suo (Ugo Foscolo li ha descritti, questi due sentimenti, associati nella persona del suo Ortis), si era allontanato, non che da Roma, dai confini della penisola. A Mantova, intanto, sotto il dominio dell'Austria, dopo la parte ch'egli aveva presa nelle cospirazioni e nelle guerre recenti, non poteva tornare; perciò, dopo la caduta di Roma, e dopo aver seguito il generale Garibaldi nella sua marcia memorabile in mezzo a tante forze nemiche, disperando oramai delle sorti italiane, si era rifugiato in Grecia, donde, proseguendo la sua triste odissèa di fuoruscito, era andato a cercare, non già la fortuna, ma la pace del cuore, sui lidi estremi dell'Oriente. Solo alcuni anni dopo la sua partenza, Cecilia Gonzaga era andata sposa alla Mirandola; e colà era vissuta nella oscurità d'una famiglia non ricca nè povera, colà era rimasta vedova dopo dieci anni di matrimonio, colà era morta dopo altri dieci o dodici di vedovanza, lontana dal suo unico figlio, che studiava leggi a Bologna, e senza aver potuto rivedere il fratello, di cui troppo scarse erano giunte le notizie in famiglia. Cesare Gonzaga non era nato per la mercatura; soldato, aveva fatto il soldato. Da principio si diceva che col grado di colonnello tra i ribelli indiani avesse partecipato alla epica impresa di Nana Sahib; più tardi, e dopo un mondo di notizie contradittorie, si era venuto a sapere che militasse ai servigi di un principe indipendente, nel centro dell'India. Una lettera sua era venuta a confermare l'annunzio, e a rassicurare la famiglia (triste avanzo di famiglia, poichè i vecchi erano morti da un pezzo) intorno alla sorte del profugo. Uno scambio di notizie aveva potuto stabilirsi tra fratello e sorella, e per tal modo Cesare Gonzaga, rais e gemadar del gran signore di Revah, nel Bogelcund, seppe un giorno di avere un nipote, Arrigo Valenti, avviato allo studio della giurisprudenza nella università di Bologna. Qualche anno dopo, preso dal desiderio della patria, era ritornato in Europa, ricco di una bella sostanza che gli avevano fruttata i suoi lunghi servigi; da Brindisi era corso a Mantova, per risalutare il suo duomo, da Mantova alla Mirandola, per abbracciar la sorella, ma ohimè, per piangere invece sulla sua tomba. Aveva chiesto notizie di Arrigo, e gli era stato detto che Arrigo, compiuti gli studi legali, viveva a Roma, ove certamente a quell'ora aveva finite le pratiche. Ora, di tutti i luoghi che Arrigo poteva scegliere per sua residenza, Roma era l'unico in cui Cesare Gonzaga non sarebbe andato volentieri a cercarlo.

Pensate ai dolori che lo avevano mandato esule volontario della patria, e indovinerete la cagione di quella ripugnanza di Cesare. Arrigo, dal canto suo, doveva pur sapere, per lettere dei Mirandolesi, che uno zio, il suo unico zio materno, gli era ritornato dal centro dell'India; ma sul principio pareva non averne fatto caso, lasciando che quello zio, triste della solitudine che il tempo e l'assenza avevano fatto intorno a lui, andasse a rinchiudersi, rovina d'uomo, tra i monti del Reggiano, daccanto alla rovina di un antico castello della contessa Matilde. Da tre mesi era il Gonzaga in Italia, da due spartiva il suo tempo tra Reggio e la tenuta delle Carpinete, dove il freddo era rigido e dove bisognava portare quasi tutto il necessario per allogarsi decentemente, allorquando giunse la lettera di Arrigo. Era in singolar modo affettuosa, chiedeva notizie, accennava al desiderio, che quel povero giovanotto, rimasto solo della sua casa, aveva vivissimo nel cuore di vedere il fratello di sua madre; e non pure accennava al desiderio, ma all'urgente bisogno.

Il figlio di Cecilia scriveva; e Cesare Gonzaga, a mala pena collocato nella sua tenuta, dove faceva conto di morire tra le sue memorie e con gli occhi alla santa natura, amica e consolatrice di chi ha molto sofferto, Cesare Gonzaga, dico, si era spiccato dal suo nido per andare dal nipote, vincendo la ripugnanza che lo teneva lontano da Roma, dalla eterna città che egli non aveva più veduta dopo l'eroica difesa del Vascello, dopo la dolorosa morte di tanti compagni d'armi, e la vergogna, più dolorosa a gran pezza, di nuovi stranieri entro le mura di Camillo. Ed era là, il tardo reduce, era là, in quello studio, appoggiato a quella poltrona, col cuore trepidante e gli occhi gonfi di lagrime, davanti al giovanotto sorridente, che nei lineamenti gentili del viso e più nei vividi occhi perlati gli ricordava la sua povera e cara sorella. Come si sentiva destinato ad amarlo! Come disposto a sacrificargli tutto sè stesso! E frattanto, quel biondo ragazzo che gli aveva scritto con tanta premura: “Venite, ho gran bisogno di voi„ era un milionario, in apparenza, e, secondo l'opinione dei più, anche nella sostanza, un felice. Ma allora, che bisogno aveva Arrigo di lui? Certo era il bisogno di un parente, di un amico vero, di un consolatore. Si è tanto poveri, quando si è soli!

Orazio Ceprani si era fatto avanti, per stringere la mano di Arrigo.

– Veramente, – diss'egli, – non dovrei essere io il primo, quest'oggi. Eccoti lo zio tanto aspettato. —

Arrigo Valenti si volse a guardare verso il fondo della camera, e un lampo di gioia gli balenò dagli occhi, che, manco male, aveva finalmente aperti e spalancati. Guardò un istante quel vecchio alto e severo, che si faceva forza per vincere la sua commozione, e gli andò incontro col sorriso sulle labbra.

– Zio, come ti son grato! – esclamò quindi, cadendogli nelle braccia.

Quell'altro non seppe più reggere alla piena degli affetti, e diede in uno scoppio di pianto.

– Come son sciocco, non è vero? – diss'egli, con voce rotta dai singhiozzi. – Per un soldato, è veramente troppo. Ma vedi, ragazzo mio, tu somigli a tua madre… come una stella somiglia ad un'altra. Lasciati abbracciare, Arrigo! Lasciami piangere! Sono i baci e le lagrime che non ha avuto tua madre. —

E lo abbracciava ancora, e lo guardava e piangeva. Arrigo lasciava fare e sorrideva, anch'egli intenerito da quella semplice e quasi epica dimostrazione di affetto.

Finalmente, chetato un poco quell'ardore di abbracci, Arrigo provò di avviare il discorso.

– Zio, – diss'egli, – che cosa avrai pensato di me, che ho fatto tanto a fidanza col tuo buon cuore? Senza esser neanche conosciuto da te, ho ardito pregarti…

– Che! che! – interruppe il Gonzaga. – Era naturale. C'era forse bisogno di conoscerti, per accorrere alla tua chiamata? Infine, eccomi qua.

– Era di Cesare il venire, come il vedere ed il vincere; – osservò modestamente Orazio Ceprani.

Arrigo ricordò allora il suo debito di padrone di casa.

– Permetti, – incominciò, – che io ti presenti il nostro Orazio Ceprani, uomo di borsa, e di cappa e di spada, poichè è sopratutto un compitissimo cavaliere.

– Ah, ci conosciamo da mezz'ora; – rispose il Gonzaga. – Ed io l'ho già per amico, perchè egli mi ha detto un gran bene di te, mentre stavamo aspettandoti.

– Perdonami, zio! Avevo un colloquio d'affari… Non ti aspettavo, con la corsa del mattino. Ier sera non eri giunto…

– Che vuoi? Appena ricevuta la tua lettera avrei fatto le valigie; – rispose il Gonzaga. – Ma avevo anche un mondo di piccole faccende da sbrigare laggiù. Speravo, veramente, di averti alle Carpinete; ma già, con quel freddo!

– Oh, zio, il freddo mi avrebbe dato poca noia. Pensa piuttosto che mi era impossibile di muovermi.

– Te lo credo, ora; ma laggiù, vedi, mi pareva che tu avresti dovuto correre. Basta, non ne parliamo più a lungo. Ho fatto il miracolo di Maometto. La montagna non volle venire a me; io venni alla montagna.

– Come si fa? – disse Arrigo, sospirando. – Tu eri anche il più libero dei due. Per ciò sei venuto… e perciò rimarrai.

– Non correr tanto! Vedremo, penseremo. Tu per ora fa i fatti tuoi. Avrai forse da parlare col signor Ceprani. —

Il Ceprani, tirato in mezzo, cominciò con accento perplesso:

– Sì, ero venuto da te. Arrigo… Ma ora che c'è tuo zio…

– Non badi a me; – interruppe il vecchio. – Io mi ritiro in buon ordine. —

Orazio Ceprani era lì per lasciarlo andare; ma tosto cambiò di proposito. Per quello che aveva da dire e da ottenere, la presenza di un terzo non doveva guastare; che anzi!

– No, finalmente, perchè? – diss'egli, trattenendo il Gonzaga col gesto. – Con lei si può parlare. Arrigo, – proseguì, rivolgendosi all'amico, – ero venuto a chiederti un servizio. Oggi dovrei ritirare quelle duecento Ausonie…

– E ci perdi ottomila lire; – notò Arrigo Valenti. – Te lo avevo pur detto!

– Che vuoi? Promettevano così bene! Il Governo doveva assumere egli, da un momento all'altro… Insomma, che farci? Tu hai veduto più lontano e più giusto di me. Io m'inchino, e ti chieggo cinquemila lire in prestito, per completare le mie differenze di questo mese.

– Ah! mi duole davvero! – esclamò Arrigo, levando i suoi begli occhi al cielo. – Mi duole nel profondo dell'anima. Oggi è un cattivo giorno, per gli affari. Non ne ho. —

Orazio Ceprani aveva chinato la testa, con un gesto tra incredulo e rassegnato. Perchè, infine, non poteva credere che ad Arrigo Valenti mancassero cinquemila lire da render servizio a un amico in un cattivo quarto d'ora, e non poteva neanche, per le buone creanze, aver l'aria di non crederlo.

Per altro, se Orazio Ceprani aveva chinata la testa, l'aveva in sua vece rizzata il signor Cesare Gonzaga.

– Ma le ho io! – diss'egli, entrando terzo nella conversazione, e facendo dare un balzo di maraviglia ai due giovani. – Non si sa mai, ho detto tra me e me, nel partire da Reggio. Anzi, vedi, Arrigo mio, è stata questa la ragione vera per cui ho ritardato un giorno a venire. Tu mi perdonerai, Arrigo; – soggiunse, mentre metteva mano al suo portafoglio, gonfio di biglietti di Banca e sprovveduto di biglietti di visita; – credevo di aver a fare con un nipote… d'altra specie, e perciò ero venuto con molta munizione. Ho ventimila lire qua dentro, e il resto in una tratta sul banco Manfredi. Eccole dunque, signor Ceprani carissimo; questi son cinque da mille. —

Orazio Ceprani era rimasto interdetto; non sapeva se dovesse prender subito, o rifiutare, almeno per cerimonia: intanto abbozzava un “ma io, veramente…„ di un effetto assai comico.

– Non faccia complimenti, la prego; – ripigliò il Gonzaga. – Ella è amico di mio nipote, e gli amici di mio nipote sono i miei. Alle corte, non mi vuole per creditore?

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