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Kitobni o'qish: «Naja tripudians»

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… The rest is silence.

Shakespeare

Se qualcuno, leggendo questo libro, ne rimanesse turbato, vorrei potergli dire: «Non vi commovete. È tutta una fantasia». Ma questo, pur troppo, non lo posso dire.

Non io ho ideato questa storia: è la Realtà, terribile Romanziera, che la concepì e creò.

Fu lei che mi cantò le chiare note del principio; fu lei che mi dettò le nere pagine della fine.

– La fine? – dirà qualcuno. – Ma questo libro non ha fine! Alla notte segue l'alba, e all'alba il giorno.... Che accadde poi di Leslie?

Io rispondo: La vita non finisce soltanto colla morte.

La storia di Leslie è finita.

.... «The rest is silence».

I

– Lasciamo fare a Madre Natura, – disse Mr Williams, il medico di campagna, uscendo dalla camera della sofferente e chiudendo cautamente l'uscio dietro di sè. E battè sulla spalla del marito, accasciato su una seggiola nel corridoio col capo tra le mani: – Lasciamo fare a Madre Natura.

Francis Harding alzò la fronte su cui cadevano scomposti i capelli già biancheggianti.

– Ma non c'è pericolo?… – e fissò gli occhi rossi dalle veglie e dal pianto sul suo vecchio amico e collega.

– Niente! Niente pericolo, – disse il dottor Williams allegro e bonario; – e voi, mio buon Frank, andate a passeggio.

– Quanto durerà ancora? – interrogò il marito.

– Quattro o cinque ore.... o sei, – disse il medico.

Un lungo gemito e un altro e un altro ancora, crescente fino a un urlo stridulo e straziante, giunse a loro traverso quella porta chiusa. Il marito trasalì, pallido, battendo i denti, e un sudore gelido gli perlò sulla fronte. Fece per tornare indietro.

– No, no! – esclamò il dottore, prendendolo per un braccio. – Non fareste che disturbarla. C'è la buona Jessie che le bada. Fuori, fuori....

E trasse l'amico, che barcollava come un ubriaco, giù per la breve scalinata di Rose Cottage e fuori nel giardinetto mesto e sfrondato, dove le margherite viola e le ultime rose ottobrine sbattute dal vento si dolevano d'essere venute al mondo in autunno invece che in primavera.

– Via, via! Andate a passeggiare, – ripetè il dottore. – Io vado a fare tre visite e poi torno qui. Guai a voi, se vi ci ritrovo!

E stringendo affettuosamente la mano dell'amico, il dottor Williams andò a slegare dallo steccato le redini del vecchio cavallo bianco che pascolava placidamente l'erba sull'orlo della strada campestre.

– Andrò a vedere la bambina, – sospirò Harding volgendo lo sguardo appannato nella direzione del villaggio, annidato nel verde a mezzo miglio di là.

– Bravo, bravo! Dove l'avete?

– L'ho mandata in casa della maestra, – disse Harding; – ha offerto lei di tenermela durante questi giorni.

– È una buona creatura quella Miss Smith, – osservò il dottore. E colle redini in mano salì nel baroccino. – Non offro di condurvici perchè vado nella direzione opposta. E poi, vi farà bene il moto.

Harding fece mestamente cenno d'assenso, e il dottore, sbattendo le redini sul grasso collo del cavallo, partì, sballottato nel suo calessino giallo, per la strada di campagna lunga, dritta, spazzata dal vento autunnale.

Francis Harding scese lentamente per la scorciatoia verso il villaggio di Wild-Forest, tremando di udire rinnovarsi, prima d'esserne fuori di portata, quel gemito, quell'urlo che ormai da dodici ore si rinnovava a intervalli sempre più brevi, e che diveniva sempre più angosciante e straziante.

– A che cosa serve, – riflettè egli amaramente, scendendo tra i prati umidi e smeraldini sotto gli alberi rosseggianti e in parte già sfrondati, – a che cosa serve ch'io sia dottore, se non posso assistere nell'ora del suo spasimo la creatura a me più cara? Se non posso lenire le sue sofferenze?

E pensò che se pure, come marito, non poteva assistere nel parto sua moglie, avrebbe pur potuto starle vicino, farle respirare un po' di cloroformio nelle crisi del massimo dolore....

Ma poi si disse che il vecchio Williams era geloso delle sue pazienti e non avrebbe tollerato la menoma intromissione, neppure quella del marito.

E continuando la sua strada, umiliato, pensava di sè: che razza di dottore era mai? Che dottore inutile e grottesco! Specialista di malattie tropicali qui, in un paesello nordico dell'Inghilterra, dove il sole si vedeva un giorno su dieci! Che ironia saper curare i casi d'insolazione e di colera asiatico! Essersi specializzato negli studi dell'elefantiasi e della lebbra, nelle cure dei veleni ofidici di vipere e di naie!… Ah! meglio se fosse rimasto laggiù nelle Indie, solitario naufrago della vita sulle torride e desolate coste del Malabar, tra i soldati e i negri; meglio se non fosse tornato qui nel suo paese nativo, a sposare la mite e timida creatura, di vent'anni più giovane di lui, che ora gli metteva al mondo, tra gli spasimi, dei figli – come lui miti e timidi, come lui inetti alla vita....

Veramente, pensò poi per consolarsi, sua figlia maggiore – l'unica fino ad oggi – la piccola Myosotis ch'egli andava ora a trovare, non era poi tanto timida, nè tanto mite.... Al pensiero di Myosotis il dottore Francis Harding affrettò il passo.

Giunse alla casa della maestra e, battendo piano alla porticina verde, senza attender risposta girò la maniglia ed entrò.

Subito dalla saletta a pianterreno gli corse incontro la sua bambinetta seguita con maggior compostezza da Miss Smith.

– Papà!… – e gli saltò tra le braccia. Poi, guardandosi intorno: – dov'è la mamma?

– Te l'ho già detto io, – interpose in fretta la maestrina, anima mistico-poetica, ammiccando cogli occhi al dottor Harding; – è andata nel giardino delle Esperidi a prenderti un fratellino.

– Poteva tralasciare; – disse la piccola Myosotis – potevamo mandare il giardiniere o qualcun altro a prenderlo. E poi, – soggiunse con un piccolo broncio, – non c'era bisogno di fratellini; vero, Papà?

Il Papà arricciandosi nervosamente i baffi grigi si strinse nelle spalle con fare un po' compunto.

– Veramente.... – disse, quasi coll'aria di volersi scusare.

La maestra s'interpose di nuovo: – Bisogna accettare con gratitudine ciò che il buon Dio manda.

– Ma allora, – ribattè Myosotis coll'ostinazione propria all'infanzia – se Dio lo mandava non c'era bisogno che la mamma si disturbasse ad andarlo a prendere.

Suo padre ebbe un pallido sorriso; ma Miss Smith aggrottò le sopracciglia. – Zitta, – disse. – I bambini non devono parlare che quando si rivolge loro la parola.

Indi interrogò collo sguardo il dottor Harding.

– Mah!… – fece egli, e trasse un profondo sospiro. – Non ancora.... Il dottore spera che tra qualche ora....

– Mah! – fece a sua volta Miss Smith.

Ed entrambi fissarono lo sguardo un po' triste, un po' vacuo sulla bambina; e tacquero.

Finalmente Miss Smith propose il rimedio inglese ad ogni più grave guaio.

– Prendiamo una tazza di thè!

Frattanto il grasso cavallo bianco del dottor Williams saliva a passo lento le brevi colline e scendeva a trotto pesante le brevi vallate; e il dottor Williams fece con cura e coscienziosità le sue tre visite. Indi il grasso cavallo bianco riprese la via di Rose Cottage; a passo lento le salite, a trotto pesante le discese; e arrivò al cancelletto verde sul calar della sera.

Francis Harding passeggiava in su e in giù per il malinconico giardino crepuscolare; e si stringeva la testa tra le mani.

– Dottore!… dottore!… – singhiozzò, – aiutatela, aiutatela per amor di Dio.

E il dottore, entrando nella buia anticamera e togliendosi il soprabito, ripetè bonario:

– Ma che, ma che!… Bisogna lasciar fare a Madre Natura.

Lasciarono fare a Madre Natura – vecchia Levatrice cieca, sorda, pazza e perfida – e quella condusse alla vita, su un fiotto di sangue, una fragile creatura novella; e spinse alla Morte, sulla stessa onda purpurea, l'altra e più preziosa esistenza.

·······

– Dov'è la mamma?…Dov'è? – gridò Myosotis, entrando inattesa e sola a Rose Cottage il mattino seguente. La maestra vi si era recata all'alba mentre la bambina dormiva ancora; ma appena desta, Myosotis, sfuggendo alla vecchia serva di Miss Smith, era corsa fuori, e su per la collina a casa sua.

Nel salotto erano radunati silenziosi suo padre, la maestra, il dottore e la vecchia Jessie; questa recava sulle ginocchia un involto di flanella bianca.

Myosotis ripetè la sua domanda: – La mamma dov'è?

Nessuno – nè suo padre, nè il dottore, nè la maestra, nè Jessie – rispose. Forse non lo sapevano. L'unico che poteva saperlo era l'involto di flanella; e quello non aprì bocca.

– Quando torna?… nessuna risposta. Tutti piangevano sommessi.

– È rimasta in quel giardino?… – chiese la bimba avvicinandosi al padre che stava chino coi gomiti sulle ginocchia e il viso chiuso nelle mani.

Il padre scoppiò in singhiozzi poggiando il capo grigio sul fragile omero della sua bambina. Allora pianse anche lei molto forte e a lungo, e tutti gli altri dovettero smettere di piangere per consolarla.

Indi Miss Smith la ricondusse via.

II

Passarono i giorni, e a Myosotis nessuno disse nulla. Per lei, la mamma s'aggirava ancora nel giardino delle Esperidi, aprendo i calici dei fiori per vedere quale contenesse il bambino più bello.

Ma una sera, girando solitaria nel giardino di Miss Smith, vide al cancello il piccolo Joe Sibthorpe che con un fucile di legno faceva finta di volerla uccidere. Ella lo chiamò e gli confidò che s'annoiava assai senza la mamma, e fu grande la sua gioia quando Joe esclamò:

– Ma dev'essere tornata. Ho sentito molti strilli in casa tua.

Myosotis partì subito, correndo per la scorciatoia che conduceva al Cottage; e Joe le trotterellò dietro, alzando il fucile ogni tanto per prendere di mira le fiere che senza dubbio stavano rintanate dietro le siepi.

Il cancelletto di Rose Cottage era chiuso, ma i bimbi girarono dietro la casa e trovarono aperta la porta della cucina. Dabbasso non c'era nessuno, e i due sgambettarono su per la piccola scala di legno.

Ecco che dalla camera di Myosotis, ch'era la prima sul pianerottolo, udirono uscire degli strilli acuti e brevi. Myosotis, spinse piano la porta ed entrò; Joe, col fucile a spall'arm, pronto ad ogni evenienza, la seguì.

Jessie in un grande grembiule bianco, stava dando il bagno a un piccolissimo essere umano, che piangeva, dibattendosi nell'acqua come un rospicciattolo. La donna, appena vide entrare Myosotis, riabbassò gli occhi, e Myosotis notò che anche lei, come la creaturina nell'acqua, piangeva; ma senza tanti strilli.

Joe era rimasto di sasso accanto alla porta.

– Misericordia! Che orrore. Com'è rosso! – disse. – E che bocca!…

Myosotis s'accostò, e dopo breve contemplazione chiese a Jessie: – È un bambino o una bambina?

Jessie non rispose.

Joe corrugò le ciglia con aria saccente.

– Questo, – sentenziò, – non si può dire finchè non sarà vestito!

Quando fu vestito si vide che era una bambina, poichè aveva sulla cuffia dei nastri rosa, e non quelli celesti già preparati in attesa di un fratellino.

– Bisognerebbe metterglieli neri, per la povera sua mamma, – disse cupamente Miss Smith.

Ma Jessie, la fedele domestica, vi si oppose. – Inutile rattristare il papà e la sorellina, – dichiarò recisa.

E la neonata portò i suoi nastri rosa e fu battezzata coi nomi scelti dalla mamma pel fratellino e che potevano adattarsi anche a lei: Leslie Denys Harding.

III

Le due bimbe crebbero in serena innocenza, candide, mansuete e semplici.

Rose Cottage, la casetta bianca e bassa del dottor Harding era lontana anche dal villaggio e nessuno si scomodava mai per andarvi a far visita. Il villaggio di Wild-Forest, sperduto nell'angolo più remoto del Yorkshire, non offriva nè attrattiva al viaggiatore nè seduzione a villeggianti; le medesime antiche famiglie campagnuole vi abitavano da generazioni, ed i tumultuosi eventi di un mondo lontano non giungevano a scuotere i calmi silenzi di quei patriarcali focolari.

Così la giovinezza delle due fanciulle scorreva fuori del mondo, lontana dalla vita, come un ruscello argenteo in un paesaggio lunare.

Poichè la scuola era lontana, Miss Smith veniva lei stessa due volte alla settimana ad impartire loro delle vaghe nozioni d'ogni genere. Di Storia ella impresse i punti secondo lei più importanti nelle chiare memorie delle due fanciulle: Re Canuth che aveva voluto fermare le onde del mare; i due principini assassinati nella Torre di Londra; il principe Clarence che volle affogarsi in una botte di Malvasia; i nomi delle sette mogli di Enrico VIII; la predilezione per il colore celeste dell'attuale regina Mary d'Inghilterra.

I loro studi di Geografia si limitarono ai nomi dei continenti, dei mari e delle 37 contee d'Inghilterra; tutto il resto, visto le condizioni incerte e tumultuarie dell'epoca presente, era inutile impararlo, perchè le cose potevano cambiare ogni giorno.

Impararono i nomi di tutti i fiori nel giardino di Rose Cottage, ed anche di tutti quelli nei boschi; studiarono a memoria le poesie di Mrs Hemans, e s'interessarono molto ai piccoli negri dell'Africa Centrale che hanno la sventura di non portare vestiti e di non leggere la Bibbia.

E così, avendo assolto il suo compito d'educatrice, Miss Smith le abbracciò, le benedisse, e andò a vivere a Leeds.

Dove sposò un capomastro e fu molto felice.

Alla scuola di Wild-Forest venne Miss Jones, una nuova maestra, una maestra di Londra, molto risoluta e moderna. Arrivò a Rose Cottage, non invitata, a fare un breve ma severo esame alle due ragazzine; per sfortuna non chiese nè di Canuth nè dei piccoli negri; per conseguenza trovò che le bimbe erano assai ignoranti e insistette presso il dottor Harding perchè le mandasse a scuola.

E a scuola andarono, ogni giorno, le due biondine, e impararono tutto ciò che ancora mancava alla loro perfetta educazione. Impararono che il mondo è rotondo e appartiene agli inglesi; che gli oceani sono vasti e appartengono agli inglesi; che gli inglesi permettono – generosamente – ad alcune altre nazioni di vivere nel mondo, e ad alcune altre navi – ma poche! – di navigare sui mari. Impararono che bisogna odiare i tedeschi, disprezzare i latini, e aver schifo dei negri. Impararono che il Dio inglese non riceve che la domenica, mentre il plebeo Dio cattolico (che del resto non serve che per gli straccioni, i forastieri e gli Irlandesi) lascia aperte le sue chiese tutti i giorni, ma non bisogna andarci. Impararono che il sentimento è una cosa volgare; che è ridicolo commuoversi, che è indecoroso entusiasmarsi; che la frutta si mangia col coltello e la forchetta, e che le unghie e la coscienza – ma sopratutto le unghie! – vanno tenute pulite.

Terminata così la loro educazione scolastica, le due fanciullette lasciarono la scuola e tornarono a casa, da loro padre.

E da lui appresero altre cose ugualmente utili per affrontare l'esistenza. Appresero quali sono i mezzi che si adoperano a Rio Janeiro e nell'Isola di Sumatra per neutralizzare il veleno dei serpenti; impararono a distinguere la Naja Tripudians – la funesta e terribile cobra egiziana – da altri rettili, quale il Crotalus horridus e il Cerastes cornutus; impararono a conoscere i sintomi determinati dalla puntura degli scorpioni di Columbia e quelli dei ragni del Capo di Buona Speranza; e conobbero la distribuzione geografica, la eziologia e la patogenesi della lebbra e del beri-beri.

Così, preparate ed agguerrite alla vita, si affacciarono le due bionde sorelline alla soglia della giovinezza. Con gli occhi limpidi come il vento guardarono in faccia all'avvenire.

IV

E la vita le salutò, tutta sorrisi. Le condusse, tenera come una mamma, gaia come una amica, pei mattinali sentieri dell'adolescenza.

Myosotis bionda, Leslie biondissima, vagavano fantastiche e sognanti in un mondo d'azzurre irrealità. Credevano ai miracoli e alle visioni, ai poeti e alle fate, agli angeli e agli umani.

Avevano l'abitudine gentile di parlare colle cose immateriali e inanimate.

– Buon giorno, primavera! – diceva Myosotis quando, uscendo al mattino, scorgeva in fiore gli alberi di mandorlo e di pesco.

– Buon giorno, sole, hai dormito bene? – chiedeva Leslie.

E alla luna nuova facevano sempre un inchino e molte raccomandazioni perchè portasse il bel tempo.

Al primo foraneve in Febbraio, alla prima violetta le bimbe facevano gran festa; e la prima rosa che si schiudeva nel giardino, la baciavano come se fosse un'amica tornata dopo lunga assenza.

– Non bisogna parlare colle cose inanimate – ammoniva Miss Jones.

– Inanimate? – chiedeva Leslie un poco stupita. – Siete certa che non hanno anima le rose?…

Miss Jones non ne era certissima.

E le bambine continuarono a salutarle.

Ingenua quanto loro o più di loro era la vecchia Jessie, già domestica in casa della loro madre allorchè questa era ancora signorina; ed ora, divenuta cogli anni bisbetica, brontolona e avara, era pregiata quale perla di gran prezzo dal dottor Harding, e temuta e adorata dalle due bambine.

Ma di tutti il più semplice, il più ingenuo, il più ignaro delle cose della vita era senza dubbio il dottor Harding stesso, nei cui ceruli occhi non fluttuavano che pallidi ricordi di cose passate, o vaghe nebulosità di astruse ricerche scientifiche.

La sua giovinezza egli l'aveva trascorsa tutta nei tropici. Medico nella marina inglese, il destino lo aveva gettato a ventidue anni sulle coste delle Indie orientali. Ivi, il suo spirito indagatore e pietoso era stato profondamente impressionato dalle mostruose malattie che affliggono le razze indigene dei paesi tropicali.

Alto magro taciturno passava come un dio biondo tra le popolazioni nere di laggiù, passava tra i mali senza nome, tra le piaghe e le pestilenze d'ogni sorta, curando, beneficando, studiando il modo di alleviare le febbri, il colera, la dissenteria; esaminando le orribili piaghe del mycetoma e la rossa escrescenza della framboesia che cresce come un mostruoso frutto di lampone sul volto e sulle membra delle sue vittime....

Ma più di tutto il giovane dottore si appassionava allo studio della lebbra. L'idea di scoprire una cura per quell'atroce flagello gli si era fissa nel cervello colla tenacità inflessibile d'una mania. Ben ricordava come per la prima volta gli era entrata nella mente questa idea.

Da quasi due anni, relegato con pochi marinai sulle coste del Malabar, occupato quale ufficiale a sorvegliare la condotta degli uomini che costruivano un canale irriguo, e quale medico a combattere e curare i casi di febbre tropicale e d'insolazione, egli da qualche tempo si sentiva assalito da un'inquietudine strana e febbrile. Era questa una febbre morale quanto fisica. Severamente allevato da suo padre, pastore evangelico scozzese, egli era di natura e per volontà casto di corpo e puro di pensieri. Ma ecco che verso sera, nell'ora di pace dopo la torrida giornata, sdraiato nell'amaca e gustando la fresca brezza del mare che sollevava la tenda della sua casupola, questa irrequietezza, questa tensione di nervi lo assaliva invincibile.

Davanti ai suoi occhi socchiusi ondeggiavano allora delle figure femminili. Talvolta era il ricordo di qualche sua bionda connazionale lontana; ma più spesso lo ossessionava la visione di qualche bruna indiana intravveduta lungo il giorno, sulla spiaggia o nella città vicina. Questi pensieri gli davano un vago senso d'inquietudine e di desiderio.

E quasi sempre, in quell'ora del tramonto, passava davanti al suo bungalow, rapida e silenziosa come un'ombra, una donna sconosciuta.

Alta, snella, velata di un manto azzurro che le copriva il capo, le ombreggiava il volto, e le avviluppava di pieghe armoniose tutto il corpo sottile, ella passava in quell'ora del crepuscolo, esile figura piena di poesia e di mistero.

Ella doveva pur essersi accorta di quel solitario europeo che, sdraiato nell'amaca, fumando, la guardava; poichè nel passare ella rallentava un poco il passo; indi, quasi con voluta civetteria, volgeva via il capo fasciato d'azzurro, come per meglio contemplare il mare....

Francis Harding la vide passare così tutte le sere; finalmente, una sera, la chiamò. Essa fuggì come una gazzella.

L'indomani quando il violento tramonto tropicale spennellava d'arancio e di viola il cielo, ella ripassò, e, come sempre, pur rallentando il passo quasi per farsi chiamare, volse il capo verso l'orizzonte non offrendo agli occhi del giovane che la sottile linea del capo, delle spalle, e delle esili anche. Ed egli con voce risoluta la richiamò.

Ella si fermò di botto e si volse a lui. Era distante forse venti passi, ritta sullo sfondo di quel cielo sfolgorante.

L'oriente rifletteva in una diffusa luce perlacea quel purpureo tramonto.

– Vieni qui, – diss'egli tendendo un braccio verso di lei. – Vieni qui. Voglio parlarti.

Ella non mosse d'un passo, ma deliberatamente, con gesto lento, solenne, quasi ieratico allargò le braccia che stringevano intorno alla persona e al capo il manto azzurro – e levò la faccia verso il cielo.

Orrore!…quel viso era maculato di larghe chiazze bianche....pareva che sulle guancie, sul naso, sulla fronte avesse nevicato....

Un grido di orrore e di pietà sfuggì alla gola dell'uomo. La donna, a capo chino, si allontanò rapida e sparì.

Di quell'incidente rimase per sempre a Francis Harding un brivido di terrore nelle carni. Ma un altro e più terribile ricordo egli doveva portar via dal suo soggiorno in quei tragici luoghi.

In quelle solitudini, lontano dalla civiltà e da ogni relazione sociale, egli aveva fatto la conoscenza d'un ingegnere francese arrivato laggiù per la costruzione d'una ferrovia. Non era certo una persona oltremodo simpatica, e in altre condizioni ed altri luoghi il timido e riservato Harding non avrebbe mai stretto amicizia con Jean Vital, egoista arrogante e amorale. Ma nelle deserte solitudini di quei luoghi, il sensuale libertino francese e il nordico asceta, affratellati dall'isolamento e dall'esilio, si confidavano ogni pensiero.

Così avvenne che Harding apprese da Vital, voluttuario impenitente, ch'egli aveva gettato gli occhi su una donna indigena convivente col quartier-mastro dei marinai inglesi. Era questa un bel tipo di donna color rame, dagli occhi languidi ed astuti sotto le palpebre socchiuse. Johnson, il quartier-mastro inglese che la teneva con sè, era dissoluto e brutale.

Un giorno il francese venne con aria soddisfatta e spavalda a trovare l'amico.

– Ça marche! – esclamò ridendo; e gettandosi sulla sgangherata poltrona a dondolo, vanto e lusso del bungalow di Harding, incrociò le lunghe gambe nei pantaloni bianchi, trasse di tasca un sigaro e narrò al silenzioso dottore la sua fortuna.

– Iersera mentre quel bruto di Johnson era assente, sono andato davanti al loro bungalow e ho fischiato. Lei è uscita sulla porta.... e io subito, là.... à la six-quat'-deux!.... le ho schioccato un bacio sulla bocca.

– Siete imprudente, – disse Harding. – Se quella lo dice a Johnson!

– Bah! non lo dice, – fece Vital, soffiando verso il soffitto basso e nero una lunga boccata di fumo. – E poi, mio caro, in guerra e in amore, la fortuna è per il temerario. – E ridendo dell'aria preoccupata dell'amico, soggiunse: – E ne vuoi la prova? Stasera un sudicio monello negro m'ha seguito mentre lasciavo il cantiere. Credevo che volesse un soldo e gli ho applicato una pedata. Ma lui ha continuato a seguirmi. Allora ho capito che voleva dirmi qualche cosa.

Qui Vital fece una pausa a effetto; ma poichè Harding non lo interrogava, proseguì: – E sai che cosa m'ha detto? M'ha detto: «Stasera, dopo le dieci.... Molto scuro.... Capanna solitaria di là dal ponte di San Juan. Venite. Senza rumore, senza luce».

Harding parve stupito.

– È possibile? – disse.

– Eh!… – e il francese si arricciò i baffetti bruni. – Mi pare chiaro!… Cioè, – soggiunse ridendo, – non sarà chiaro, sarà buio. Quel marmocchio mi ha ripetuto tre volte: «Senza luce. Senza rumore e senza luce».

E senza rumore e senza luce Jean Vital si recò quella notte alla capanna solitaria di là dal ponte di San Juan. Lungo la spiaggia i suoi passi cadevano lievi e silenziosi sulla sabbia; indi volse a destra, traversò il ponte e lasciò dietro di sè le luci del villaggio e la luminosa striscia del mare.

E ben altro lasciò dietro di sè in quell'ora Jean Vital che i suoi focosi venticinque anni conducevano a perdizione.

Seguendo la strada, da qualche anno quasi deserta, vide presto, a destra della via, ergersi – ombra sull'ombra – la capanna abbandonata.

Stava per emettere un breve fischio allorchè ricordò l'ingiunzione del ragazzo: «Senza rumore!» E giunto sulla soglia e spinto l'uscio basso e socchiuso, il buio davanti a lui fu così nero che per istinto cercò in tasca gli zolfanelli.... Ma ecco che gli tornò alla memoria l'ordine tre volte ripetuto dal messaggero: «Senza luce».

Si tolse la mano di tasca e la tese brancolando innanzi a sè; indi sussurrò a bassissima voce il nome della donna:

– «Jamana!…»

Un mormorio inarticolato gli rispose; una mano toccò il suo polso e lo trasse nella capanna.

Un profumo strano e violento gli tagliò per un istante il respiro. Era come un odore di muschio e di bergamotto; e sotto a quella duplice e forte fragranza vagava un altro aroma, dolciastro, languido, quasi impercettibile....

Ma la stretta al suo polso – egli la sentiva calda e tremante – lo traeva innanzi e in giù.... il suo piede toccò una stuoia.... e al suo respiro rapido e ansante rispose, lieve, un sospiro....

·······

L'alba color grigio-perla illuminava fiocamente l'apertura quadrata della finestra, quando un leggero rumore lo svegliò. Prima ancora di ogni altro ricordo, giunse ai suoi sensi assopiti quello strano odore, dandogli una lieve impressione di stordimento.

Senza aprire gli occhi allungò la mano e toccò accanto a sè una coperta ruvida, un posto vuoto.... Allora aprì gli occhi e vide disegnata sullo sfondo grigio del vano della porta, un'ombra. Era un'ombra femminea, ammantata di scuro, che apriva cautamente l'uscio. Gli parve di non ravvisarla. La chiamò.

– Jamana!

Ma la donna non si volse. Spalancò la porta e uscì correndo.

Vital balzò in piedi, e così qual'era, senza giacca e senza scarpe, le fu dietro colla leggerezza rapida d'una pantera. La raggiunse, la ghermì per le braccia, le strappò dal capo lo scialle nero e la guardò.

Un urlo gli sfuggì dalla bocca spalancata. Gittò le braccia in aria, e gli occhi parevano schizzargli dalla testa....

E mentre la donna fuggiva, curva nella polvere, egli ululava, ululava strappandosi i capelli, dilaniandosi le carni, conficcandosi le unghie nella bocca come se volesse strapparsela dal viso. La bocca!…la bocca sua che aveva baciato quell'immonda cosa!…quel volto roso e sfigurato dalla lebbra!

L'aurora lanciava pel cielo nastri di rosa e veli d'oro, allorchè Jean Vital ritraversò il ponte. Parlava forte da solo; gridava, gesticolando, scotendo i pugni al cielo.

Andò a battere alla porta del dottor Harding. Questi si alzò da letto per aprirgli. Sulla soglia vide un essere ch'egli dapprima non riconobbe.

– Lontano!…Stammi lontano – urlò Vital in frenesia, – sono contaminato!

E stramazzò ai piedi di Harding, e sangue e schiuma gli uscivano dalla bocca lacerata....

·······

Passò un anno. Non accadde nulla. Durante quell'anno parve a Jean Vital di trattenere il respiro. Non osava guardarsi in uno specchio per paura di vedere le stimmate orrende del morbo. Non osava guardare in faccia alla gente per paura di scorgere a un tratto nei loro occhi la rivelazione spaventosa.

Passarono due anni. Allora, tremando, egli osò per la prima volta guardarsi in uno specchio. Si trovò magro, con un ciuffo di capelli bianchi sulle tempia, col viso pallido ma d'un pallore chiaro e sano. Allora prese a guardarsi continuamente; si portava intorno uno specchietto e cento volte al giorno se lo toglieva di tasca e si scrutava; si esaminava gli occhi, la bocca, il naso, le gengive, la gola.... Nulla.

Passarono quattro anni. Passarono cinque anni. – Nulla. Jean Vital riprese a lavorare e a vivere. Era rimasto incolume; era sfuggito al contagio. La sua gioventù, il suo sangue sano avevano trionfato della mostruosa contaminazione.

Ed era un uomo felice. Il fatto di essere sano, di avere le carni illese, era per lui una fonte di perenne, estatica esultanza; non era la passiva, quasi inconscia, soddisfazione dell'uomo che gode di una salute normale. No; Vital ogni giorno, ogni momento si compiaceva nel constatare che il suo corpo era incorrotto, il suo sangue mondo, terse le carni vigorose; e questa constatazione gli pareva quasi una vittoria sui fati, una conquista personale della sua robusta virilità.

Passarono otto anni. Vital tornò in Francia. Aveva danari. Pensò a prender moglie. Scelse con prudenza e deliberazione. Scelse la più bella e saggia fanciulla del suo paese. E quando l'ebbe chiesta e ottenuta, se ne innamorò perdutamente, pazzamente, sentendo rinascere in sè la passione scordata o frenata durante i suoi anni di tortura. L'amò con frenesia di gratitudine e di gioia, quasi rappresentasse per lui la liberazione definitiva dall'incubo mostruoso. L'adorò con tale trasporto di riconoscenza e di beatitudine che la fanciulla stessa non lo comprendeva, e ne aveva quasi paura....

Mancava un mese alle nozze. Era il primo d'Agosto e, dopo la giornata canicolare, Vital – che dal principio dell'estate s'era sentito un po' languido e sonnolento – scese con gli amici a fare un bagno nel fiume. Si svestì sulla sponda, parlando e scherzando; gettò giacca e sottovesti sull'erba, indi alzò le braccia per trarre da sopra al capo la camiciola di maglia.... Sostò. Guardò quelle braccia ignude alzate nella gran luce del sole....

Stette un attimo così, immobile, senza respiro. Indi abbassò le braccia e le tese davanti a sè nella luce abbagliante di quel sole estivo. Il terrore lo fulminò.

Sull'avambraccio destro v'era una macchia rossastra, leggermente saliente. Più su, vicino alla spalla, ve n'era un'altra. Sul braccio sinistro.... Sì! sopra la piegatura del gomito, una piccola placca rossa e granulata....

Una nausea profonda gli chiuse la gola. Indi con un ruggito di belva si abbattè, colla fronte in terra.

·······

Il dottor Harding ne ebbe notizia per qualche anno ancora.

Vital errava per il mondo portando con sè la sua disperazione. Harding ne riceveva delle lettere che lo facevano rabbrividire d'orrore e di pietà.

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