Kitobni o'qish: «I misteri del castello d'Udolfo, vol. 3»
CAPITOLO XXII
Montoni fece invano le più esatte ricerche sulla strana circostanza che lo aveva allarmato, e non avendo potuto scoprir nulla, dovette credere che qualcuno de' suoi fosse l'autore d'una burla così intempestiva. Le sue contese colla moglie, a proposito della cessione, divenendo più frequenti, pensò confinarla nella sua camera, minacciandola a una maggior severità se persisteva nel rifiuto.
Se la signora Montoni fosse stata più ragionevole, avrebbe compreso il pericolo d'irritare, con quella lunga resistenza, un uomo come il marito in cui balia ella trovavasi. Non aveva pure obliato di quale importanza fosse per lei la conservazione del possesso de' suoi beni, che l'avrebbero resa indipendente, caso avesse potuto sottrarsi al dispotismo di Montoni. Ma in quel momento aveva una guida più decisiva della ragione, lo spirito cioè della vendetta, che le faceva opporre la negativa alla minaccia, e l'ostinazione alla prepotenza.
Ridotta a non poter uscir dalla camera, sentì finalmente il bisogno ed il pregio della compagnia già sprezzata della nipote, perchè Emilia, dopo Annetta, era la sola persona che le fosse permesso di vedere.
La fanciulla s'informava spesso del conte Morano. Annetta ne sapeva pochissimo, se non che il chirurgo credeva impossibile la di lui guarigione. Emilia affliggevasi di essere la causa involontaria della sua morte. Annetta, che osservava la di lei commozione, l'interpretava a modo suo. Un giorno, essa le entrò in camera tutta affannosa e piangente. « Per carità, troviamo il modo di uscire da questo luogo infernale. Sappiate, » diss'ella, « che siamo alla vigilia di qualche brutta scena in questo maledetto castello. Quei signori tengono tutte le notti conciliaboli, ove si pretende che discutano affari importanti: inoltre, cosa significano tutti i preparativi che si fanno sui bastioni e sulle mura? E poi, quanta gente entra tutti i giorni nel castello con cavalli! e sembra che vi debbano restare, perchè il padrone ha ordinato di somministrar loro il bisognevole. Io ho saputo tutto da Lodovico, che mi ha raccomandato di tacere; ma siccome vi amo quanto me stessa, non ho potuto fare a meno di dirlo anche a voi. Ah! qualche giorno ci ammazzeranno tutti per certo.
– Non sai tu altro, Annetta?
– Come! Non basta tutto questo?
– Sì, ma non basta a persuadermi che ci vogliano uccider tutti. »
Emilia si astenne dal manifestare i suoi timori per non aumentare la paura della cameriera. Lo stato attuale del castello la sorprendeva e la turbava. Appena Annetta ebbe finito, la lasciò sola, per andare a nuove scoperte.
La fanciulla quella sera passò alcune ore tristissime in compagnia della zia. Si disponeva a coricarsi, quando udì un forte colpo alla porta della camera, prodotto dalla caduta di qualche oggetto. Chiamò per sapere cosa fosse, e non le fu risposto. Chiamò una seconda volta senza miglior successo: pensò che qualcuno dei forastieri giunti recentemente nel castello avesse scoperta la sua camera, e vi si recasse con cattive intenzioni. Inquieta, stette attenta, tremando sempre che il rumore si rinnovasse. Si fece invece coraggio; si avvicinò alla porta del corridoio tutta tremante, ed intese un lieve sospiro tanto vicino, che la convinse esservi qualcuno dietro l'uscio. Mentre ascoltava ancora, il medesimo sospiro si fece intendere più distintamente, ed il suo terrore aumentò. Non sapea cosa risolvere, e sentiva sempre sospirare. La sua ansietà divenne sì forte che risolse di aprire la finestra e chiamar gente. Mentre vi si accingeva, le parve udir i passi di qualcuno nella scala segreta, e vincendo ogni altro timore corse verso il corridoio. Premurosa di fuggire, aprì la porta, ed inciampò in un corpo steso al suolo. Mise un grido, e guardando la persona svenuta, riconobbe Annetta. Grandemente sorpresa, fece ogni sforzo per soccorrere l'infelice. Allorchè ebbe ripreso l'uso dei sensi, Emilia l'aiutò ad entrare in camera, e quando potè parlare la ragazza l'assicurò, con una fermezza che scosse fino l'incredulità dell'altra, di aver veduto un'ombra nel corridoio.
« Io aveva inteso strane cose sulla camera attigua, » disse Annetta; « ma siccome è vicina alla vostra, madamigella, non voleva dirvele per non ispaventarvi. Tutte le volte ch'io ci passava accanto, correva a tutta possa; e vi accerto inoltre, che spesso mi parve di sentirvi rumore. Ma stasera, camminando nel corridoio, senza pensare a nulla, ecco veggo apparire un lume, e guardando indietro scorgo una gran larva. L'ho veduta, signorina, distintamente, quanto voi in questo momento. Una gran figura entrava nella camera sempre chiusa, di cui, non tien la chiave altri che il padrone, e la porta serrossi immediatamente.
– Sarà stato il signor Montoni, » disse Emilia.
– Oh! no, non era lui, avendolo lasciato che altercava colla padrona nel suo gabinetto.
– Tu mi fai racconti molto strani, Annetta; stamattina mi hai spaventata colla paura d'un assassinio, ed ora vorresti farmi credere…
– Non vi dirò più nulla; ma però se non avessi avuta gran paura, non sarei svenuta, come ho fatto.
– Era forse la camera dal quadro del velo nero?
– No, signora, è quella più vicina alla vostra: come farò a tornare nella mia stanza? Per tutto l'oro del mondo non vorrei più traversare il corridoio. »
Emilia, commossa da questo incidente, e dall'idea di dovere esser sola tutta la notte, le rispose che poteva stare con lei.
« Oh! no, davvero, » disse Annetta, « io non dormirei ora in questa camera, neppure per mille zecchini. »
Emilia, rammentandosi d'aver udito gente sulla scala insistè perchè passasse la notte secolei, e l'ottenne con molta pena, e dopo che la paura di ripassare il corridoio ve l'ebbe persuasa.
Il dì dopo, Emilia, traversando la sala per andare sulle mura, intese rumore nel cortile e lo scalpito di molti cavalli. Il tumulto eccitò la sua curiosità. Senza andar più oltre, si affacciò ad una finestra, e vide nel cortile una truppa di cavalieri; aveano divise bizzarre ed armamento completo, sebben variato. Portavano essi una giacchetta corta rigata di nero e scarlatto; si avvolgevano in grandi ferraiuoli, sotto uno dei quali vide pendere dalla cintola pugnali di varia grandezza; osservò quindi che quasi tutti ne eran ben provvisti, e parecchi vi aggiungevano la picca ed il giavellotto; portavano in testa berretti all'italiana ornati di pennacchi neri; essa non si rammentava aver mai visti tanti brutti ceffi riuniti. Nel vederli si credette circondata da banditi, e le si affacciò subito alla mente che Montoni fosse il capo di questi birbanti, e il castello il loro luogo di riunione. Questa strana supposizione però fu passeggiera. Mentre guardava, vide uscire Cavignì, Verrezzi e Bertolini vestiti come gli altri; avevano soltanto i cappelli ornati di grandi pennacchi rossi e neri; quando montarono a cavallo, Verrezzi brillava di gioia; Cavignì pareva allegro, ma il suo contegno era riflessivo, e maneggiava il cavallo con estrema grazia. La sua figura amabile, e che parea quella d'un eroe, non era mai apparsa con tanto vantaggio. Emilia, considerandolo, pensò che somigliava a Valancourt, e per vero dire ne aveva tutto il fuoco e la dignità; ma essa cercava invano la dolcezza della fisonomia, e quella schietta espressione dell'anima che lo caratterizzava.
Comparve quindi Montoni, ma senza divisa. Esaminò scrupolosamente i cavalieri, conversò a lungo co' capi, e quando li ebbe salutati, la truppa fece il giro del cortile, e, comandata da Verrezzi, passò sotto la vôlta ed uscì.
Emilia si ritirò dalla finestra, e nella certezza di esser più tranquilla, andò sui bastioni: non vide più lavoranti, ed osservò che le fortificazioni parevano ultimate. Mentre passeggiava assorta nelle sue riflessioni, udì camminare sotto le mura del castello, e vide parecchi uomini, il cui esteriore accordavasi colla truppa partita poco prima.
Presumendo che la zia fosse alzata, andò ad augurarle il buon giorno, e le raccontò quanto aveva veduto; ma essa non volle, e non potè darle contezza di nulla. La riserva di Montoni verso sua moglie, a tal proposito, non era punto straordinaria. Però, agli occhi di Emilia, aggiunse qualche ombra al mistero, e le fece sospettare un gran pericolo o grandi orrori nel progetto da lui concepito.
Annetta tornò ansante, secondo il consueto; la sua padrona le domandò premurosamente cosa vi fosse di nuovo, ed essa le rispose « Ah! signora, nessuno ci capisce nulla. Carlo sa tutto, ma è riservato come il suo padrone. Qualcuno dice che il signor Montoni vuole spaventare il nemico; altri pretendono che voglia prender d'assalto qualche castello, ma ha tanto posto nel suo, che non ha bisogno certo d'andar a carpire quelli degli altri. Lodovico pare che ci veda più di tutti, perchè dice d'indovinare tutti i progetti del padrone.
– E che ti ha detto?
– Mi ha detto che il padrone.... che il signor Montoni è..... è.....
– Che cosa insomma? » disse la signora Montoni impazientandosi.
– Che il padrone si è fatto capo d'assassini, e manda a rubare per conto suo.
– Sei pazza. Come mai puoi tu credere?…
In quella comparve Montoni; Annetta fuggì tutta tremante. Emilia voleva ritirarsi, ma sua zia la trattenne, giacchè il marito l'aveva resa tante volte testimone de' loro diverbi, che non avevane più veruna soggezione.
« Che cosa significa tutto questo? » gli chiese la moglie; « chi sono quegli armati partiti testè e perchè faceste fortificare il castello? voglio saperlo.
– Evvia, ho ben altro da pensare, » rispose Montoni; « fareste meglio ad obbedirmi. Fatemi la cessione de' vostri beni senza tanti contrasti.
– Giammai! Ma quali sono i vostri progetti? Temete un attacco? sarò uccisa in un assedio?
– Firmate questa carta, e lo saprete.
– Qual nemico viene? » lo interruppe la donna: « siete voi al servizio dello Stato? Son io prigioniera fino all'ora della mia morte?
– Potrebbe darsi, » soggiunse Montoni, « se non cedete alla mia domanda; voi non uscirete dal castello se non mi avrete contentato. »
La signora gettò grida spaventose, ma li cessò poscia pensando che i discorsi del marito non fossero che artifizi per estorcerle la donazione. E glielo disse poco dopo, aggiungendo che il di lui scopo non era certo tanto glorioso quanto quello di servir lo Stato; che probabilmente erasi fatto capo di banditi, per unirsi ai nemici di Venezia e devastare il paese.
Montoni la guardò un momento con aria truce; Emilia tremava, e sua zia, per la prima volta, credè aver detto troppo. « Questa notte stessa, » diss'egli, « sarete trascinata nella torre d'oriente, là forse comprenderete il pericolo d'offender un uomo, il cui potere su voi è illimitato. »
La fanciulla si gettò ai suoi piedi, e lo supplicò, piangendo, di perdonare alla zia. Questa, intimorita e sdegnata, ora voleva prorompere in imprecazioni, ora unirsi alle preghiere della nipote. Montoni, interrompendole con una bestemmia orribile, si staccò aspramente da Emilia, che lo teneva pel mantello: cadde essa sul pavimento con tanta violenza, che si fe' male alla fronte, ed egli uscì senza degnarsi di rialzarla. Ella si scosse al pianto della zia, corse a soccorrerla, e trovolla tutta convulsa. Le parlò senza ricevere risposta, ma le convulsioni raddoppiando, fu costretta di andare a chieder soccorso. Traversando la sala, incontrò Montoni, e lo scongiurò di tornare a consolar sua moglie. Allontanossi egli colla massima indifferenza; finalmente, essa trovò il vecchio Carlo che veniva con Annetta. Entrati nel gabinetto, trasportarono la Montoni nella camera attigua. La misero sul letto, ed a gran stento poterono impedire dal farsi male. Annetta tremava e piangeva. Carlo taceva, e sembrava compiangerla.
Allorchè le convulsioni furono alquanto cessate, Emilia, vedendo che sua zia aveva bisogno di riposo, disse: « Andate, Carlo, se avremo bisogno di soccorso vi manderò a cercare; ma intanto, se ve se ne presenta l'occasione, parlate al signor Montoni a favore della vostra padrona.
– Oimè! » rispose Carlo; « ne ho vedute troppe! ho poco ascendente sul cuore del mio padrone. Ma voi, signorina, abbiate cura di voi stessa; mi pare che non istiate troppo bene. »
E partì scuotendo il capo. Emilia continuò a curare la zia, la quale, dopo un lungo sospiro, rinvenne; ma aveva gli occhi smarriti, e riconosceva appena la nipote. La sua prima domanda fu relativa a Montoni. Emilia la pregò di calmarsi e di star in riposo, soggiungendo: « Se volete fargli dire qualcosa, me ne incaricherò io. – No, » rispos'ella languidamente. « Persiste egli ancora a strapparmi dalla mia camera? »
La fanciulla rispose che non aveva detto più nulla, e fece ogni sforzo per distrarla; ma la zia non l'ascoltava, e sembrava oppressa dai pensieri. Emilia, lasciandola sotto la custodia della cameriera, corse a cercar Montoni, e lo trovò sulle mura in mezzo ad un gruppo d'uomini di ciera spaventevole. Egli si esprimeva con vivacità. Infine qualche sua espressione fu ripetuta dalla truppa, e quando si separarono, la fanciulla udì le seguenti parole: Stasera comincia la guardia al tramonto del sole. « Al tramonto del sole, » fu risposto, e si ritirarono.
Emilia raggiunse Montoni, sebbene ei paresse volerla scansare, ed ebbe il coraggio di pregare per la zia, e rappresentargliene lo stato ed il pericolo cui sarebbesi esposta la di lei salute in un appartamento troppo freddo. « Soffre per colpa sua, » rispos'egli, « e non merita compassione. Sa benissimo come deve fare per prevenire i mali che la attendono. Obbedisca, firmi, ed io non ci penserò più. »
A forza di preghiere, ella ottenne che la zia non sarebbe stata rimossa fino al dì seguente. Montoni le lasciò tutta notte per riflettere. Emilia corse ad annunziarle la dilazione. Essa non rispose, ma parea molto pensierosa. Intanto la sua risoluzione sul punto contestato sembrava cedere in qualche cosa. La nipote le raccomandò, come una misura indispensabile di sicurezza, di sottomettersi. « Voi non sapete quel che mi consigliate, » le rispose la donna. « Rammentatevi che i miei beni vi appartengono dopo la mia morte, se io persisto nel rifiuto.
– Io lo ignorava, cara zia; ma questa notizia non m'impedirà certo di consigliarvi un passo dal quale dipende il vostro riposo, e ardisco dire anche la vostra vita. Nessuna considerazione per un sì debole interesse, ve ne scongiuro, non vi faccia esitare un momento a cedergli tutto.
– Siete voi sincera, nipote?
– E potreste dubitarne? »
La signora Montoni parve commossa. « Voi meritate questi beni, cara nipote, e vorrei poterveli conservare: avete una virtù, di cui non vi credeva capace. Ma il signor Valancourt?
– Signora, » interruppe Emilia, « cambiamo discorso, di grazia, e non credete che il mio cuore capace di egoismo. » Il dialogo fini così.
Emilia rimase presso la zia, nè la lasciò che molto tardi.
In quel momento, tutto era tranquillo, e la casa pareva sepolta nel sonno. Traversando le lunghe e deserte gallerie del castello, Emilia ebbe paura senza saper perchè; ma quando, entrando nel corridoio, si rammentò l'avvenimento dell'altra notte, fu assalita da improvviso terrore, e fremè che un oggetto come quello veduto da Annetta non si presentasse innanzi a lei, e che la paura ideale o fondata non producesse il medesimo effetto su i di lei sensi. Non sapeva precisamente di qual camera avesse parlato la donzella, ma non ignorava che dovea passarvi dinanzi. Il suo sguardo inquieto procurava di distinguere nell'oscurità: camminava adagio e con passo incerto. Giunta ad una porta, udì un piccolo rumore; esitò, ma ben presto il suo timore divenne tale, che non ebbe più forza di camminare. D'improvviso, la porta si aprì, una persona, che le sembrò Montoni, apparve, rientrò prontamente nella camera e la chiuse. Al lume ch'era in essa, credette aver distinta una persona vicina al fuoco, in atteggiamento malinconico. Il suo terrore svanì, e fece luogo alla sorpresa: il mistero di Montoni, la scoperta d'un individuo ch'egli visitava a mezzanotte in un appartamento interdetto, e di cui si raccontavano tante cose, eccitò vivamente la di lei curiosità.
Mentre stava perplessa desiderando spiare i movimenti di Montoni, ma temendo d'irritarlo se ne fosse vista, la porta si aprì di bel nuovo e si richiuse per la seconda volta. Allora Emilia entrò bel bello nella camera contigua, e depostovi il lume, si nascose in una vôlta oscura del corridoio, per vedere se la persona che usciva fosse veramente Montoni. Dopo alcuni minuti la porta si aprì per la terza volta; la medesima persona ricomparve: era Montoni; egli guardossi intorno, chiuse e se ne andò. Poco dopo si sentì chiudere al di dentro. Essa rientrò nella sua stanza sorpresa al massimo segno. Era già mezzanotte: essendosi avvicinata alla finestra, intese camminare sul terrazzo sottoposto, e vide parecchie persone moversi nell'ombra; la colpì un rumor d'armi, ed una parola d'ordine detta sottovoce: allora si ricordò degli ordini di Montoni, e comprese che per la prima volta montavano la guardia nel castello; quando tutto fu quieto, se ne andò a riposare.
CAPITOLO XXIII
La mattina seguente, Emilia andò a trovare la zia di buonissim'ora; ella aveva dormito bene, e ricuperati gli spiriti e le forze, ma la di lei risoluzione di resistere al marito era combattuta dal timore. La fanciulla, temendo le conseguenze della sua caparbietà, fece di tutto per persuaderla, ma la signora Montoni, come vedemmo, aveva lo spirito della contraddizione; e quando se le presentavano circostanze disgustose, cercava meno la verità che argomenti da combattere. Una lunga abitudine aveva tanto confermato in lei questa disposizione naturale, che non se ne accorgeva più. Le ragioni di Emilia non fecero che risvegliare il suo orgoglio, anzichè convincerla; e non pensava se non a sottrarsi alla necessità di obbedire sul punto in questione. Se le fosse riuscito di fuggire dal castello, contava già separarsi legalmente, e vivere nell'agiatezza coi beni che le restavano. Emilia lo avrebbe desiderato quanto lei, ma non si lusingava d'un esito favorevole; le dimostrò l'impossibilità di uscire dalla porta, assicurata e guardata con tanta cautela; l'estremo pericolo di confidarsi alla discretezza di un servo, che avrebbe potuto tradirla per malizia o imprudenza; e la vendetta infine di Montoni, se avesse scoperto la trama…
Questa lotta di contrari affetti lacerava il cuore della zia, quando entrò d'improvviso il marito, e senza parlare della di lei indisposizione, le dichiarò venir a rammentarle quanto indarno essa tentasse di resistere ai suoi voleri. Le accordò tutto il giorno per acconsentire alla sua domanda, protestandole, in caso di rifiuto, che la sera medesima l'avrebbe rilegata nella torre di levante; aggiunse che molti cavalieri dovendo pranzare quel giorno istesso nel castello, essa farebbe gli onori della tavola colla nipote. La signora Montoni non voleva accettare, ma riflettendo che durante il pranzo, la sua libertà, sebben ristretta, avrebbe potuto favorire i suoi progetti, acconsentì; il marito ritirossi tosto. L'ordine ricevuto penetrava Emilia di maraviglia e timore; fremeva all'idea di trovarsi esposta a tali sguardi, e le parole del conte Morano non erano fatte per calmarla. Le convenne dunque prepararsi per comparire al pranzo, ma si vestì anche più semplicemente del solito, per evitare d'essere distinta. Questa politica non le riuscì, giacchè, quando tornò dalla zia, Montoni, rimproverandole il suo far dimesso, le prescrisse un abbigliamento più ricercato, adoperando a tal uopo gli ornamenti destinati pel di lei matrimonio con Morano. Adornata col miglior gusto e la massima magnificenza, la bellezza di Emilia non aveva mai brillato tanto. La sua unica speranza in quel punto era che Montoni progettasse meno qualche avvenimento straordinario, che il trionfo dell'ostentazione, spiegando agli occhi dei convitati l'opulenza della sua famiglia. Allorchè entrò nella sala, ov'era ammannito un lautissimo pranzo, il castellano ed i suoi ospiti erano già a mensa; essa andava a prender posto presso la zia, ma Montoni le fe' cenno colla mano; due cavalieri si alzarono, e la fecero sedere in mezzo a loro.
Il più avanzato in età di costoro era grande, aveva lineamenti caratteristici, naso aquilino, occhi incavati penetrantissimi; il di lui volto era magro e sparuto come dopo una lunga malattia.
L'altro, in età di circa quarant'anni, aveva fisonomia diversa; sguardo obliquo, ma volpino, occhi castagni, piccoli ed infossati, volto quasi ovale, irregolare e brutto.
Altri otto personaggi sedevano alla medesima tavola, tutti in divisa, ed avevano tutti un'espressione più o meno forte di ferocia, d'astuzia o di libertinaggio. Emilia li guardava timidamente, rammentandosi la truppa veduta il dì precedente, e si credeva circondata da banditi. Il luogo della cena era un'immensa sala antica ed oscura, illuminata da una sola finestra gotica altissima, dalla quale vedevasi il bastione occidentale e gli Appennini. Ella osservò che Montoni trattava con grand'autorità gli ospiti, i quali ricambiavanlo con dignitosa deferenza. Nel tempo del pranzo non si parlò che di guerra e di politica, di Venezia, dei suoi pericoli, del carattere del doge regnante e dei primari senatori. Finito il pranzo, i convitati, alzatisi, bevvero tutti alla salute di Montoni e alla gloria delle sue imprese. Mentre egli accostava la coppa alla bocca, il vino traboccò spumeggiando e ruppe il cristallo in mille pezzi. Ei faceva uso di quella specie di vetri di Venezia, i quali hanno la proprietà di rompersi allorchè ricevono un liquore avvelenato. Sospettando che qualcuno dei convitati avesse attentato alla sua vita, fece chiuder le porte, e mettendo mano alla spada, lanciò occhiate furibonde su tutti indistintamente, gridando: « Qui c'è un traditore! che tutti quelli che sono innocenti mi aiutino a trovare il colpevole. » I cavalieri proruppero in grida d'indegnazione, e sguainarono le spade. La signora Montoni voleva fuggire, ma il marito le impose di restare, aggiungendo qualche altra cosa che non fu intesa a motivo del tumulto e delle grida. Allora tutti i servi comparvero innanzi a lui, e dichiararono la loro ignoranza. La protesta però non poteva essere ammessa, essendo innegabile che soltanto il vino del castellano era stato avvelenato, per cui bisognava che almeno il dispensiere fosse stato connivente. Quest'uomo, con un altro, la cui fisonomia tradiva la convinzione del delitto, o il timore della pena, fu messo in ceppi e trascinato in un tetro carcere; Montoni avrebbe trattato nella stessa guisa tutti gli ospiti se non avesse temute le conseguenze d'un passo sì ardito: si contentò dunque di giurare che non sarebbe uscito neppur uno, prima che fosse dilucidato quest'affare. Ordinò aspramente alla moglie di ritirarsi, e ad Emilia di accompagnarla.
Mezz'ora dopo comparve nel di lei gabinetto; Emilia fremè vedendo la sua aria truce, gli occhi sfavillanti di rabbia e le labbra livide. « È inutile tenervi sulla negativa, » gridò egli furente alla moglie, « giacchè ho la prova del vostro delitto: non avete alcuna speranza di perdono se non in una sincera confessione; il vostro complice ha svelato tutto. »
Emilia fu colpita dall'atroce accusa. L'agitazione della zia non le permetteva di parlare; la sua faccia passava da un estremo pallore ad un rosso infiammato.
« Risparmiate i discorsi inutili, » disse Montoni, vedendola disposta a parlare; « il vostro contegno basta a tradirvi; or sarete condotta nella torre d'oriente.
– Quest'accusa, » rispose la moglie, che poteva appena articolar parola, « è un pretesto per la vostra crudeltà; sdegno di rispondervi.
– Signore, » disse vivamente Emilia, « questa orribile imputazione è falsa; oso rendermene mallevadrice sulla mia vita. Sì, signore, » soggiunse, « questo non è il momento di usar riguardi. Voi cercate ingannarvi volontariamente, al solo fine di perdere la mia povera zia.
– Se vi è cara la vita, tacete. »
Emilia, alzando gli occhi al cielo, sclamò: « Non c'è più speranza. »
Egli si volse alla moglie, la quale, rimessa dalla sorpresa, ne respingeva i sospetti con veemente asprezza. La rabbia di Montoni aumentava; Emilia, prevedendone le conseguenze, si precipitò ai di lui piedi, abbracciandogli le ginocchia e supplicandolo, piangendo, di calmare il suo furore; ma sordo alle preghiere della nipote e alle giustificazioni della moglie le minacciava fieramente amendue, quando fu chiamato. Uscì chiudendo la porta e portandone seco la chiave. Esse dunque si trovarono prigioniere. La Montoni guardava intorno a sè cercando un mezzo di fuggire. Ma come farlo? Sapeva pur troppo fino a qual punto il castello fosse forte, e con qual vigilanza guardato. Tremava di affidare il suo destino al capriccio d'un servo, di cui conveniva mendicare l'assistenza.
Frattanto intesero gran tumulto e confusione nella galleria; alle volte si sentiva il cozzar delle spade. La provocazione di Montoni, la sua impetuosità, la sua violenza, facevano supporre ad Emilia che le armi sole potessero finire l'orribile contesa. La zia aveva esaurite tutte le espressioni dello sdegno, e la nipote tutte le frasi consolanti. Tacevano amendue in quella specie di calma, che succede nella natura al conflitto degli elementi. Le circostanze di cui Emilia era stata testimone le rappresentavano mille confusi timori, e le sue idee succedevansi in tumultuoso disordine; fu scossa dalla sua meditazione sentendo battere alla porta, e riconobbe la voce di Annetta.
« Mia cara signora, aprite: ho molte cose da raccontarvi, » diceva sottovoce la povera ragazza. – La porta è chiusa, » rispose la padrona. – Sì, lo vedo, signora, ma per carità apritela. – Il padrone ha portato seco la chiave. – O beata Vergine! che sarà di noi? – Aiutaci ad uscire, » disse la Montoni. « Dov'è Lodovico? – Nella sala grande cogli altri, che combatte valorosamente. – Combatte! e chi sono gli altri? – Il padrone, tutti quei signori, e molti altri. – C'è qualche ferito? » disse Emilia con voce tremante. – Sì, signora, ce n'è qualcuno disteso in terra immerso nel sangue. Gran Dio! fate ch'io possa entrare, signora; ah! eccoli che vengono; mi ammazzano sicuramente. – Fuggi, » disse Emilia, « fuggi; noi non possiamo aprirti. »
Annetta ripetè che venivano, e fuggì.
« Calmatevi, zia, » disse Emilia, « per pietà, calmatevi; essi vengono forse per liberarci. Chi sa che il signor Montoni non sia già vinto.
– Eccoli, » gridò la zia, « li sento venire. »
Emilia alzò gli occhi languenti verso la porta, spaventata al maggior segno. Fu messa la chiave nella serratura; la porta si aprì, ed entrò Montoni seguito da tre satelliti. « Eseguite i miei ordini, » disse loro accennando la moglie; essa mise un grido e fu trascinata via sul momento. Emilia cadde priva di sensi sur una sedia: allorchè rinvenne, si vide sola, e guardando per tutta la stanza con occhi smarriti, sembrava interrogare ogni cosa sul destino della zia. Finalmente, si alzò per esaminare, quantunque con poca speranza, se la porta era libera, e la trovò aperta. Si avanzò timidamente nella galleria, incerta ove dovesse andare. Suo primo desiderio fu di ottenere qualche notizia sul destino della zia. Scese nel tinello. A misura che si avanzava, sentiva da lontano voci irate: le facce che incontrava pei numerosi anditi e la confusione che regnava aumentavano il di lei spavento. In fine arrivò nella stanza che cercava, ma non c'era alcuno. Non potendo più reggersi in piedi, si riposò un momento. Riflettè che avrebbe invano cercata la zia nell'immenso laberinto di quel castello, che pareva assediato dai briganti. Pensò dunque a tornare nella sua camera, ma temeva d'incontrarsi in que' feroci, quando un sordo mormorio interruppe il cupo silenzio; il rumore cresceva: distinse qualche voce e sentì passi che s'accostavano. Si alzò per andarsene ma venivano appunto per l'unica via ch'ella potesse seguire: pensò dunque di aspettare che fossero entrati. Udì gemiti, e vide poco dopo comparire un uomo portato da quattro. Atterrita a questo spettacolo, ebbe appena forza bastante per tornare alla sua camera senza poter conoscere chi fosse l'infelice circondato da quella gente, che nella confusione non l'aveano veduta.
Il suo affetto per la zia diveniva sempre maggiore; si ricordava che Montoni l'aveva minacciata di chiuderla nella torre di levante, ed era probabile che tal castigo avesse soddisfatto la di lui vendetta. Risolse dunque, nel corso della notte, di cercare una via per recarsi a quella torre. Sapeva bene che non avrebbe potuto efficacemente soccorrere la zia, ma credè che nel suo tristo carcere sarebbe stata sempre una consolazione per lei l'udire la voce della nipote. Alcune ore passarono così nella solitudine e nel silenzio, e parve che Montoni l'avesse obliata del tutto. Appena fu notte, vennero appostate le sentinelle.
L'oscurità della camera rianimò il terrore di Emilia. Appoggiata alla finestra, fu assalita da mille idee disgustose. « E che! » diceva ella; « se qualcuno di questi banditi, col favor delle tenebre, s'introducesse nella mia camera, cosa avverrebbe di me? » Poi, ricordando l'abitante misterioso della camera vicina, il suo terrore mutò oggetto. « Non è un prigioniero, benchè resti nascosto in quella stanza; non è Montoni che lo chiuda per di fuori, ma è l'incognito stesso che si prende questa cura. » Facendo tutte queste riflessioni, si ritirò dalla finestra, ed accese il lume. Si affrettò quindi ad assicurare alla meglio l'uscio della scala. Questo lavoro l'occupò sino a mezzanotte. Tutto era quieto, nè si udiva che i passi della sentinella sul bastione. Aprì la porta con cautela, e vedendo e sentendo una perfettissima calma, uscì; ma appena ebbe fatti pochi passi, vide un fioco chiarore sui muri della galleria. Rientrò in camera, e chiuse la porta, immaginandosi che forse Montoni andasse a fare la sua visita all'incognito. Dopo mezz'ora circa uscì di nuovo, e non vedendo nessuno, prese la direzione della scala di tramontana, immaginandosi di poter ivi più facilmente trovare la torre. Si fermava spesso, ascoltando con paura il fischiar del vento, e guardando da lontano attraverso l'oscurità dei lunghi androni. Finalmente giunse alla scala che cercava, la quale metteva in due passaggi diversi. Esitò alcun poco, e scelse quello che conduceva in una vasta galleria.