Kitobni o'qish: «I misteri del castello d'Udolfo, vol. 1»
CAPITOLO I
Sulle sponde della Garonna, nella provincia di Guienna, esisteva nell'anno 1584 il castello di Sant'Aubert: dalle sue finestre scoprivansi i ricchi e fertili paesi della Guienna, che si estendevano lungo il fiume, coronati da boschi, vigne ed oliveti. A mezzodì, la prospettiva era circoscritta dalla massa imponente dei Pirenei, le cui cime, or celate nelle nubi, ora lasciando scorgere bizzarre forme, si mostravano talvolta, nude e selvagge, in mezzo ai vapori turchinicci dell'orizzonte, e talora scoprivano le loro pendici, lungo le quali dondolavano grandi abeti neri, agitati dai venti. Spaventosi precipizi contrastavano colla ridente verzura de' prati e delle selve circostanti, e lo sguardo affaticato dall'aspetto di quelle voragini, si riposava alla vista degli armenti e delle capanne dei pastori. Le pianure della Linguadoca si estendevano a tiro di occhio a tramontana ed a levante, e l'orizzonte confondevasi a ponente colle acque del golfo di Guascogna.
Sant'Aubert, accompagnato dalla sposa e dalla figlia, andava spesso a passeggiare sulle sponde della Garonna; egli si compiaceva di ascoltare il mormorio armonioso delle sue acque. Aveva altre volte conosciuto un altro genere di vivere ben diverso da questa vita semplice e campestre; aveva a lungo vissuto nel vortice del gran mondo, ed il quadro lusinghiero della specie umana, formatosi dal suo giovine cuore, aveva subìto le tristi alterazioni dell'esperienza. Nondimeno, la perdita delle sue illusioni non aveva nè scosso i suoi principii, nè raffreddata la sua benevolenza: aveva abbandonata la società piuttosto con pietà che con collera, e si era limitato per sempre al dolce godimento della natura, ai piaceri innocenti dello studio, ed in fine all'esercizio delle domestiche virtù.
Discendeva da un cadetto d'illustre famiglia; ed i suoi genitori avrebbero desiderato che, per riparare alle ingiurie della fortuna, egli avesse ricorso a qualche ricco partito, o tentato d'innalzarsi colle mene dell'intrigo. Per questo ultimo progetto, Sant'Aubert aveva troppo onore e troppa delicatezza; e, quanto al primo, non aveva bastante ambizione per sacrificare all'acquisto delle ricchezze ciò ch'esso chiamava felicità. Dopo la morte del padre sposò una fanciulla amabile, eguale a lui per nascita, non meno che pei beni di fortuna. Il lusso e la generosità di suo padre avevano talmente oberato il patrimonio ricevuto in retaggio, che fu costretto di alienarne porzione. Qualche anno dopo il suo matrimonio, lo vendè a Quesnel, fratello di sua moglie, e si ritirò in una piccola terra di Guascogna, dove la felicità coniugale ed i doveri paterni dividevano il suo tempo colle delizie dello studio e della meditazione.
Da lunga pezza questo luogo eragli caro; vi era venuto spesso nella sua infanzia, e conservava ancora l'impressione dei piaceri ivi gustati; non aveva obliato nè il vecchio contadino incaricato allora d'invigilare sopra di lui, nè i suoi frutti, nè la sua crema, nè le di lui carezze. Que' verdi prati, ove, pieno di salute, di gioia e di gioventù, aveva scherzato tanto in mezzo ai fiori; i boschi, la cui fresca ombra aveva inteso i suoi primi sospiri, e mantenuta la sua riflessiva malinconia, che divenne in seguito il tratto dominante del suo carattere; le passeggiate agresti pe' monti, i fiumi che aveva traversato, le pianure vaste e immense come la speranza dell'età giovanile! Sant'Aubert non si rammentava se non con entusiasmo e con rincrescimento questi luoghi abbelliti da tante rimembranze. Alla perfine, sciolto dal mondo venne a fissarvi il suo soggiorno ed a realizzare così i voti di tutta la sua vita.
Il castello, nello stato d'allora, era molto ristretto; un forestiero ne avrebbe ammirato senza dubbio l'elegante semplicità e la bellezza esteriore; ma vi abbisognavano lavori considerevoli per farne l'abitazione d'una famiglia. Sant'Aubert aveva una specie di affezione per quella parte d'edificio che aveva conosciuta il passato; e non volle mai che ne fosse alterata una sol pietra, dimodochè la nuova costruzione, adattata allo stile dell'antica, fece del tutto una dimora più comoda che ricercata. L'interno, abbandonato alle cure della signora Sant'Aubert, le somministrò occasione di mostrare il suo gusto; ma la modestia che caratterizzava i suoi costumi, le fu sempre di guida negli abbellimenti da lei prescritti.
La biblioteca occupava la parte occidentale del castello, ed era piena delle migliori opere antiche e moderne. Questo appartamento guardava su di un boschetto che, piantato lungo un dolce clivo, conduceva al fiume, ed i cui alti e grossi alberi formavano un'ombra folta e misteriosa. Dalle finestre si scopriva, al disopra delle pergole, il ricco paese che estendevasi all'occidente, e si scorgevano a sinistra gli orribili precipizi dei Pirenei. Vicino alla biblioteca eravi un terrazzo munito di piante rare e preziose. Lo studio della botanica era uno dei divertimenti di Sant'Aubert, ed i monti vicini, che offrono tanti tesori ai naturalisti, lo trattenevano spesso giornate intiere. Nelle sue gite, veniva qualche volta accompagnato da sua moglie, e talvolta dalla figlia: un panierino di vimini per riporvi le piante, un altro pieno di qualche alimento, che non si sarebbe potuto trovare nelle capanne dei pastori, formavano il loro equipaggio; scorrevano così i luoghi più selvaggi, le vedute più pittoresche, e la loro attenzione non era concentrata totalmente nello studio delle menome opere della natura, che non permettesse loro d'ammirarne egualmente le bellezze grandi e sublimi. Stanchi di scavalcar rupi, ove pareano essere stati condotti dal solo entusiasmo, e dove non si scorgevano sul musco altre orme fuor quelle del timido camoscio, cercavano essi un ricovero in que' bei templi di verzura, nascosti in seno delle montagne. All'ombra de' larici e degli alti pini, gustavano di una refezione frugale, bevendo l'acque di una sorgente vicina, e respiravano con delizia gli effluvi delle varie piante smaltanti la terra, o pendenti a festoni dagli alberi e dalle rupi.
A sinistra del terrazzo, e verso le pianure della Linguadoca, eravi il gabinetto di Emilia, benissimo assortito di libri, di disegni, di strumenti musicali, di qualche garrullo uccelletto e di fiori i più ricercati; quivi, occupata nello studio delle belle arti, essa le coltivava con successo, giacchè molto convenivano al gusto ed al carattere di lei. Le sue naturali disposizioni secondate dalle istruzioni dei genitori, avevano facilitato i suoi rapidi progressi. Le finestre di questa stanza si aprivano fino al suolo sul giardino che circondava la casa; e viali di mandorli di fichi, di acacie e di mirti fioriti, conducevano assai lungi la vista fino ai verdi margini irrigati dalla Garonna.
I contadini di questo bel clima, finiti i lavori, venivano spesso verso sera a ballare sulle sponde del fiume. Il suono animato della musica, la vivacità dei loro passi il brio delle movenze, il gusto ed il capriccioso abbigliamento delle villanelle, dava a tutta questa scena un carattere interessantissimo.
La facciata del castello, dalla parte di mezzogiorno, era situata di fronte alle montagne. Al pian terreno eravi una gran sala e due comodi salotti. Il pian superiore, chè eravene un solo, era distribuito in camere da letto, meno una sola stanza, munita d'un largo verone, ove si faceva ordinariamente la colazione.
Nell'aggiustamento esterno, l'affezione di Sant'Aubert per il teatro della sua infanzia, aveva talvolta sacrificato il gusto al sentimento. Due vecchi larici ombreggiavano il castello, e ne impedivano alquanto la vista; ma Sant'Aubert diceva qualche volta, che se li vedesse seccare, avrebbe forse la debolezza di piangerli. Piantò vicino a questi larici un boschetto di faggi, di pini e di frassini alpini; su di un alto terrazzo, al disopra del fiume, eranvi parecchi aranci e limoni, i cui frutti, maturando tra i fiori, esalavano nell'aere un ammirabile e soave profumo.
Unì loro alcuni alberi d'un'altra specie, e colà, sotto un folto platano le cui frondi stendevansi fino sul fiume, amava sedere nelle belle sere estive tra la consorte ed i figliuoli. Traverso il fogliame vedeva il sole tramontar nel lontano orizzonte, ne scorgeva gli ultimi raggi risplendere, venir meno e confondere a poco a poco i purpurei riflessi colle tinte grige del crepuscolo. Ivi pure amava egli leggere e conversare colla moglie, a far giuocare i figliuoletti, ad abbandonarsi ai dolci affetti, compagni consueti della semplicità e della natura. Spesso pensava, colle lagrime agli occhi, come que' momenti fossero le cento volte più soavi de' piaceri rumorosi e delle tumultuose agitazioni del mondo. Il suo cuore era contento; chè avea il raro vantaggio di non desiderar maggior felicità di quella onde fruiva. La serenità della coscienza comunicavasi alle sue maniere, e, per uno spirito come il suo, dava incanto alla stessa felicità.
La caduta totale del giorno non lo allontanava dal suo platano favorito; amava quel momento in cui gli ultimi chiarori si spengono, in cui le stelle vengono a scintillare l'una dopo l'altra nello spazio, e a riflettersi nello specchio delle acque; istante patetico e dolce, in cui l'anima delicata schiudesi ai più teneri sentimenti, alle contemplazioni più sublimi. Quando la luna, cogli argentei raggi, traversava il fronzuto fogliame, Sant'Aubert restava ancora; e spesso si faceva portare, sotto quell'albero a lui caro, i latticini ed i frutti che componevano la sua cena. Allorchè la notte faceasi più cupa, l'usignuolo cantava, ed i di lui armoniosi accenti risvegliavangli nel fondo dell'anima una dolce malinconia.
La prima interruzione della felicità che aveva conosciuta nel suo ritiro, fu cagionata dalla perdita di due maschi: essi morirono in quell'età in cui le grazie infantili hanno tanta vaghezza; e sebbene, per non affliggere soverchiamente la sposa, egli avesse moderata l'espressione del suo dolore, e si fosse sforzato di sopportarlo con fermezza, non aveva filosofia bastante da reggere alla prova di simile sciagura. Una figlia era ormai la sua unica prole. Invigilò attentamente sullo sviluppo del di lei carattere, e si occupò del continuo a mantenerla nelle disposizioni più adatte a formarne la felicità. Ella aveva annunziato fin dall'infanzia una rara delicatezza di spirito, affezioni vive ed una docile benevolenza; ma lasciava travedere nondimeno troppa suscettività per godere di una pace durevole: avanzandosi alla pubertà, questa sensibilità diede un tuono riflessivo ai suoi pensieri, e una dolcezza alle maniere, che, aggiungendo grazia alla beltà, la rendevano molto più interessante alle persone che l'avvicinavano. Ma Sant'Aubert aveva troppo buon senso per preferire le attrattive alla virtù; egli era troppo avveduto per non sapere quanto queste siano pericolose a chi le possiede, e non poteva esserne molto contento. Procurò dunque di fortificare il di lei carattere, di suefarla a signoreggiare le inclinazioni ed a sapersi dominare: le insegnò a non cedere tanto facilmente alle prime impressioni, e a sopportare con calma le infinite contrarietà della vita. Ma per insegnarle a vincere sè medesima, ed a prendere quel grado di dignità tranquilla, che sol può domare le passioni, e innalzarci al disopra dei casi e delle disgrazie, aveva bisogno egli stesso di qualche coraggio, e non senza grande sforzo parea vedere tranquillamente le lacrime ed i piccoli disgusti, che la sua previdente sagacità cagionava talvolta ad Emilia.
Questa interessante fanciulla somigliava alla madre; ne aveva la statura elegante, i delicati lineamenti; aveva al par di lei, gli occhi azzurri, languidi ed espressivi; ma per quanto belle ne fossero le fattezze, l'espressione però della sua fisonomia, mobile come gli oggetti che la colpivano, dava soprattutto al di lei volto un'attrattiva irresistibile.
Sant'Aubert coltivò il suo spirito con estrema cura. Le comunicò una tintura delle scienze, ed una esatta cognizione della più squisita letteratura. Le insegnò il latino e l'italiano, desiderando che potesse leggere i sublimi poemi scritti in queste due lingue. Annunziò essa, fino dai primi anni, un gusto deciso per le opere di genio, a questi principii aumentavano il diletto e la soddisfazione di Sant'Aubert. – Uno spirito coltivato, – diceva egli, – è il miglior preservativo al contagio del vizio e delle follie: uno spirito vuoto ha sempre bisogno di divertimenti, e s'immerge nell'errore per evitare la noia. Il movimento delle idee, forma, della riflessione, una sorgente di piaceri, e le osservazioni fornite dal mondo medesimo, compensano i pericoli delle tentazioni ch'esso offre. La meditazione e lo studio sono necessarie alla felicità, tanto in campagna quanto in città; in campagna esse prevengono i languori di un'apatia indolente, e somministrano nuovi godimenti pel gusto e l'osservazione delle grandi cose; in città, esse rendono la distrazione meno necessaria, e per conseguenza meno pericolosa. —
La di lei passeggiata favorita era una peschiera situata in un boschetto vicino, sulla riva di un ruscello, che, scendendo dai Pirenei, spumava a traverso gli scogli, e fuggiva in silenzio sotto l'ombra degli alberi; da questo sito si scuoprivano fra le fronzute selve, i più bei siti dei paesi circonvicini; l'occhio si smarriva in mezzo alle eccelse rupi, alle umili capanne dei pastori, ed alle vedute ridenti lungo il fiume: in questo luogo delizioso si recava bene spesso anche Sant'Aubert e sua madre a godere il rezzo ne' calori estivi, e verso sera, all'ora del riposo, ci veniva a salutare il silenzio e l'oscurità, ed a prestar ascolto ai queruli canti della tenera Filomela; talvolta ancora portava la musica; l'eco svegliavasi al suono dell'oboe, e la voce melodiosa di Emilia addolciva i lievi zeffiri che ricevevan e portavano lunge da lei la sua espressione ed i suoi accenti.
Un giorno, Emilia lesse in un canto del tavolato i versi seguenti scritti col lapis:
Ingenui figli del sentir più puro
Che sì poco spiegate il mio dolore,
Versi miei, se avverrà che in questo oscuro
Sacro alla pace taciturno orrore
Un oggetto gentil mai si presenti,
L'amor mio gli narrate e i miei tormenti.
Quel dì che nel mio core il suo sembiante
Le amorose destò prime scintille,
Ah! fatal giorno! ahi sventurato amante!
Contro il vivo fulgor di sue pupille
Indifeso mi stava e senza tema
Della vaga di lor possanza estrema.
E ripiena d'angelico diletto
Già sentia palpitar l'alma nel seno:
Ma l'inganno svanì; l'amato oggetto
Da me volse le piante in un baleno,
E lasciommi in partir tutti i più forti
D'invincibile amor crudi trasporti.
Questi versi non erano indirizzati ad alcuno: Emilia non poteva applicarli a sè medesima, sebbene fosse, senza alcun dubbio, la ninfa di quelle boscaglie: ella scorse rapidamente il circolo ristretto delle sue conoscenze, senza poterne fare l'applicazione, e restò nell'incertezza: incertezza molto meno penosa per lei, di quello sarebbe stata per uno spirito più ozioso, non avendo occasione di occuparsi a lungo d'una bagattella, e d'esagerarne l'importanza pensandovi del continuo. L'incertezza, che non le permetteva di supporre che quei versi le fossero indirizzati, non l'obbligava neppure di adottare l'idea contraria; ma il piccolo moto di vanità da lei sentito non durò molto, e ben presto lo dimenticò per i suoi libri, i suoi studi e le sue buone opere.
Poco tempo dopo, la sua inquietudine fu eccitata da un'indisposizione del padre; esso fu colto dalla febbre, che, senza essere molto pericolosa, non mancò di dare una scossa sensibile al di lui temperamento. La signora Sant'Aubert e sua figlia lo assistettero con molta premura, ma la sua convalescenza fu lenta, e mentre egli ricuperava la salute, la di lui sposa perdeva la sua. Appena fu ristabilito, la prima visita fu alla peschiera: un paniere di provvisioni, i libri, ed il liuto di Emilia vi furono mandati dapprima; della pesca non se ne parlava, perchè Sant'Aubert non prendeva verun piacere alla distruzione degli esseri viventi.
Dopo un'ora di passeggio e di ricerche botaniche, fu servito il pranzo: la soddisfazione provata pel piacere di rivedere ancora quel luogo favorito, riempì i commensali del più dolce sentimento: la cara famiglia parea ritrovare la felicità sotto quelle ombre beate. Sant'Aubert discorrea con singolar allegria: ogni oggetto ne rianimava i sensi; l'amabile frescura, il diletto che si prova alla vista della natura dopo i patimenti d'una malattia ed il soggiorno di una camera da letto, non ponno del certo nè comprendersi, nè descriversi nello stato di perfetta salute; la verzura delle selve e de' pascoli, la varietà de' fiori, l'azzurra vôlta de' cieli, l'olezzo dell'aere, il lene murmure delle acque, il ronzio de' notturni insetti, tutto sembra allora vivificar l'anima e dar pregio all'esistenza. La Sant'Aubert, rianimata dalla gaiezza e dalla convalescenza dello sposo, obliò la sua indisposizione personale: passeggiò pe' boschi, e visitò le situazioni deliziose di quel ritiro: conversava essa col marito e colla figlia, e riguardavali spesso con un grado di tenerezza che le faceva versar lagrime. Sant'Aubert, accortosene, le rimproverò teneramente la sua emozione: ella non potè che sorridere, stringere la di lui mano, quella di Emilia, e piangere davvantaggio. Sentì egli che l'entusiasmo del sentimento le diveniva quasi penoso; una trista impressione s'impadronì dei suoi sensi, e gli sfuggirono sospiri. – Forse, diceva tra sè, forse questo momento è il termine della mia felicità, come ne è il colmo; ma non abbreviamolo con dispiaceri anticipati; speriamo che non avrò sfuggita la morte per avere da piangere io stesso i soli esseri interessanti che me la fanno temere. —
Per uscire da questi cupi pensieri, o forse piuttosto per intrattenervisi, pregò Emilia di andar a cercare il liuto, e suonargli qualche bel pezzo di tenera musica. Nell'avvicinarsi alla peschiera, essa fu sorpresa di sentire le corde del suo strumento toccate da una mano maestra, ed accompagnata da un canto lamentevole, che cattivò la di lei attenzione. Ascoltò in profondo silenzio, temendo che un indiscreto movimento non la privasse d'un suono o non interrompesse il suonatore. Tutto era tranquillo nel padiglione, e non sembrando che ci fosse alcuno, ella continuò ad ascoltare; ma finalmente la sorpresa e il diletto fecero luogo alla timidezza; questa aumentò pella rimembranza dei versi scritti a matita, da lei già veduti, e titubò se doveva o no ritirarsi all'istante.
Nell'intervallo, la musica cessò; Emilia riprese coraggio, e si avanzò, sebben tremando, verso la peschiera, ma non ci vide nessuno: il liuto giaceva sul tavolino, e tutto il resto stava come ce lo aveva lasciato. Emilia principiò a credere di avere inteso un altro istrumento, ma si ricordò benissimo di aver lasciato, nel partire, il suo liuto vicino alla finestra; si sentì agitata senza saperne il motivo; l'oscurità, il silenzio di quel luogo, interrotto sol dal lievissimo tremolio delle foglie, aumentò il suo timore infantile; volle uscire, ma si accorse che si indeboliva, e fu obbligata a sedere; mentre procurava di riaversi, i suoi occhi incontraron di nuovo i versi scritti col lapis; sussultò come se avesse veduto uno straniero, poi sforzandosi di vincere il terrore, alzossi e si avvicinò alla finestra; altri versi erano stati aggiunti ai primi, e questa volta il suo nome ne formava il soggetto.
Non le fu più possibile di dubitare che l'omaggio non fosse a lei diretto, ma non le fu meno impossibile d'indovinarne l'autore: mentre ci pensava, sentì il romore di qualche passo dietro l'edifizio; spaventata, prese il liuto, fuggì ed incontrò i genitori in un sentieruzzo lungo la radura.
Salirono tutti insieme sopra un poggetto coperto di fichi, d'onde si godeva il più bel punto di vista delle pianure e delle valli della Guascogna: sedettero sull'erba, e mentre i loro sguardi abbracciavano il grandioso spettacolo, respiravano in riposo i dolci profumi delle piante sparse in quel luogo incantevole. Emilia ripetè le canzoni più gradite ai genitori, e l'espressione con cui le cantò ne raddoppiò il diletto. La musica e la conversazione ve li trattennero fino all'imbrunire: i candidi veli che segnavan di sotto a' monti il veloce corso della Garonna avean cessato d'esser visibili; era un'oscurità più malinconica che trista. Sant'Aubert e la sua famiglia si alzarono lasciando con dispiacere quel sito. Ahimè! La signora Sant'Aubert ignorava come non dovesse ritornarvi mai più!
Giunta alla peschiera, essa si accorse di aver perduto un braccialetto, che si era tolto pranzando, ed avea lasciato sulla tavola, nell'andare al passeggio. Fu cercato con molta premura, specialmente da Emilia, ma invano, e convenne rinunziarvi. La Sant'Aubert aveva in gran pregio questo braccialetto, perchè conteneva il ritratto di sua figlia; e questo ritratto, fatto da poco, era di perfettissima somiglianza. Quando Emilia fu certa di tal perdita, arrossì, e divenne pensierosa. Un estraneo si era adunque introdotto nella peschiera in loro assenza; il liuto smosso ed i versi letti non le permettevano di dubitarne: si poteva dunque concludere con fondamento, che il poeta, il suonatore ed il ladro erano la medesima persona. Ma sebbene que' versi, la musica ed il furto del ritratto formassero una combinazione notevole, Emilia si sentì irresistibilmente aliena dal farne menzione, e si propose soltanto di non visitare più la peschiera senza essere accompagnata da qualcuno dei genitori.
Nel tornare a casa, la fanciulla pensava a quanto le era accaduto; Sant'Aubert si abbandonava al più dolce godimento, contemplando i beni che possedeva. La sua sposa era conturbata ed afflitta dalla perdita del ritratto; avvicinandosi a casa, distinsero un romore confuso di voci e di cavalli; parecchi servi traversarono i viali, ed una carrozza a due cavalli arrivò nello stesso punto davanti la porta d'ingresso del castello. Sant'Aubert riconobbe la livrea del cognato, e trovò difatti i coniugi Quesnel nel salotto. Essi mancavano da Parigi da pochissimi giorni, e recavansi alle loro terre distanti dieci leghe dalla valle, Sant'Aubert gliele aveva vendute da qualche anno. Quesnel era l'unico fratello della moglie di Sant'Aubert; ma la diversità di carattere avendo impedito di rafforzare i loro vincoli, la corrispondenza tra essi non era stata molto sostenuta. Quesnel si era introdotto nel gran mondo; amava il fasto, e mirava a divenire qualcosa d'importante; la sua sagacità, le sue insinuazioni avevano quasi ottenuto l'intento. Non è dunque da stupire se un uomo tale non sapesse apprezzare il gusto puro, la semplicità e la moderazione di Sant'Aubert, e non vi ravvisasse se non se picciolezza di spirito e totale incapacità. Il matrimonio di sua sorella aveva mortificato assai la sua ambizione, essendosi lusingato ch'essa avrebbe formato un parentado più adatto a servire ai suoi progetti. Egli aveva ricevute proposte confacentissime alle sue speranze; ma la sorella, che a quell'epoca venne richiesta da Sant'Aubert, si accorse, o credè accorgersi, che la felicità e lo splendore non erano sempre sinonimi, e la sua scelta fu presto fatta. Qualunque fossero le idee di Quesnel a tal proposito, egli avrebbe sacrificato volentieri la quiete della sorella all'innalzamento della propria fortuna; e quand'essa si maritò, non potè dissimularle il suo disprezzo per i di lei principii, e per l'unione ch'essi determinavano. La Sant'Aubert nascose l'insulto allo sposo, ma per la prima volta, forse, concepì qualche risentimento. Conservò la sua dignità, e si condusse con prudenza; ma il di lei riservato contegno avverti abbastanza Quesnel di ciò ch'ella sentiva.
Nell'ammogliarsi, egli non seguì l'esempio della sorella; la sua sposa era un'Italiana, ricchissima erede; ma il costei naturale e l'educazione ne facevano una persona frivola quanto vana.
Si erano prefissi di passare la notte in casa di Sant'Aubert, e siccome il castello non bastava ad alloggiare tutti i domestici, furono mandati al vicino villaggio. Dopo i primi complimenti e le disposizioni necessarie, Quesnel cominciò a parlare delle sue relazioni ed amicizie. Sant'Aubert, il quale aveva vissuto abbastanza nel ritiro e nella solitudine perchè questo soggetto gli paresse nuovo, lo ascoltò con pazienza ed attenzione, ed il suo ospite credè ravvisarvi umiltà e sorpresa insieme. Descrisse vivamente il piccolo numero di feste, che le turbolenze di quei tempi permettevano alla corte di Enrico III, e la sua esattezza compensava l'arroganza: ma quando arrivò a parlare del duca di Joyeuse, di un trattato segreto, ond'egli conosceva le negoziazioni colla Porta, e del punto di vista sotto al quale Enrico di Navarra era veduto alla corte, Sant'Aubert richiamò l'antica esperienza, e si convinse facilmente che il cognato tutto al più poteva tenere l'ultimo posto alla corte; l'imprudenza dei suoi discorsi non poteva conciliarsi colle sue pretese cognizioni: pure Sant'Aubert non volle mettersi a discutere, sapendo troppo bene che Quesnel non aveva nè sensibilità, nè criterio.
La Quesnel, nel frattempo, esprimeva il suo stupore alla Sant'Aubert sulla vita trista che menava, diceva essa, in un cantuccio così remoto. Probabilmente, per eccitare l'invidia, si mise poscia a narrare le feste da ballo, i pranzi, le veglie ultimamente date alla corte, e la magnificenza delle feste fatte in occasione delle nozze del duca di Joyeuse con Margherita di Lorena, sorella della regina; descrisse colla stessa precisione e quanto aveva veduto, e quanto non erale stato concesso di vedere. La fervida immaginazione di Emilia accoglieva que' racconti coll'ardente curiosità della gioventù, e la Sant'Aubert, considerando la figlia colle lacrime agli occhi, comprese che se lo splendore accresce la felicità, la sola virtù però può farla nascere.
Quesnel disse al cognato: « Sono già dodici anni che ho comprato il vostro patrimonio. – All'incirca, » rispose Sant'Aubert, reprimendo un sospiro. – Sono ormai cinque anni che non vi sono stato, » riprese Quesnel; « Parigi ed i suoi dintorni sono l'unico luogo ove si possa vivere; ma d'altra parte, io sono talmente occupato, talmente versato negli affari, ne sono tanto oppresso, che non ho potuto senza grandissima difficoltà, ottenere di assentarmi per un mese o due. » Sant'Aubert non diceva nulla, e Quesnel seguitò: « Sonomi maravigliato spesso, che voi, assuefatto a vivere nella capitale, voi, che siete avvezzo al gran mondo possiate dimorare altrove, sopratutto in un paese come questo, ove non si sente parlare di nulla, e dove si sa appena di esistere. – Io vivo per la mia famiglia e per me, » disse Sant'Aubert; « mi contento in oggi di conoscere la felicità, mentre anch'io per lo passato ho conosciuto il mondo.
– Ho deciso di spendere nel mio castello trenta o quarantamila lire in abbellimenti, » soggiunse Quesnel, senza badare alla risposta del cognato; « mi son proposto di farci venire i miei amici nella prossima estate. Il duca di Durfort, il marchese di Grammont spero che mi onoreranno della loro presenza per un mese o due. »
Sant'Aubert l'interrogò su' suoi progetti di abbellimento; si trattava di demolire l'ala destra del castello per fabbricarvi le scuderie. « Farò in seguito, » aggiunse egli, « una sala da pranzo, un salotto, un tinello, e gli alloggi per tutti i domestici, poichè adesso non ho da allogarne la terza parte.
– Tutti quelli di mio padre vi alloggiavano comodamente, » riprese Sant'Aubert, rammentandosi con dispiacere l'antica abitazione, « ed il di lui seguito era pur numeroso.
– Le nostre idee si sono un po' ingrandite, » disse Quesnel; « ciò ch'era decente in quei tempi, or non parrebbe più sopportabile. »
Il flemmatico Sant'Aubert arrossì a tai parole, ma l'ira fe' presto luogo al disprezzo.
« Il castello è ingombro d'alberi, » soggiunse Quesnel, « ma io conto di dargli aria.
– E che! voi vorreste tagliare gli alberi?
– Certo, e perchè no? essi impediscono la vista; c'è un vecchio castagno che stende i rami su tutta una parte del castello, e cuopre tutta la facciata dalla parte di mezzogiorno; lo dicono così vecchio, che dodici uomini starebbero comodamente nel suo tronco incavato: il vostro entusiasmo non giungerà fino a pretendere che un vecchio albero inutilissimo abbia la sua bellezza od il suo uso.
– Buon Dio! » sclamò Sant'Aubert; « voi non distruggerete quel maestoso castagno, che esiste da tanti secoli, e fa l'ornamento della terra! Era già grosso quando fu fabbricata la casa; da giovine io mi arrampicava spesso su' di lui rami più alti; nascosto tra le sue foglie, la pioggia poteva cadere a diluvio, senza che una sola goccia d'acqua mi toccasse: quante ore vi ho passate con un libro in mano! Ma perdonatemi, » continuò egli rammentandosi che non era inteso, « io parlo del tempo antico. I miei sentimenti non sono più di moda, e la conservazione di un albero venerabile non è, al par d'essi, all'altezza de' tempi odierni.
– Io lo atterrerò per certo, » disse Quesnel, « ma in sua vece potrò ben piantare qualche bel pioppo d'Italia fra i castagni che lascierò nel viale. La signora Quesnel ama molto i pioppi, e mi parla spesso della casa di suo zio nei dintorni di Venezia, ove questa piantagione fa un effetto superbo.
– Sulle sponde della Brenta, » rispose Sant'Aubert, « ove il suo fusto alto e diritto si sposa ai pini, a' cipressi, e pompeggia intorno a portici eleganti e svelti colonnati, deve effettivamente adornare quei luoghi deliziosi, ma fra i giganti delle nostre foreste, accanto ad una gotica e pedante architettura!
– Questo può essere, caro signor mio, » disse Quesnel, « io non voglio disputarvelo. Bisogna che voi ritorniate a Parigi, prima che le nostre idee possano avere qualche rapporto. Ma, a proposito di Venezia, ho quasi voglia di andarci nella prossima estate. Può darsi ch'io diventa padrone della casa di cui vi parlava, e che dicono bellissima. In tal caso rimetterò i miei progetti di abbellimento all'anno venturo, e mi lascierò trascinare a passare qualche mese di più in Italia. »