Kitobni o'qish: «Viaggi di Ali Bey el-Abbassi in Africa ed in Asia, v. 1»
CENNI
SULL'AUTORE DI QUESTI VIAGGI
Nell'autunno scorso noi abbiamo conosciuto qui di persona un Principe Mammelucco egiziano, di nome Ali Bey di Solimano. Era egli uno de' ventiquattro Bey, ossieno Principi, che formavano l'aristocrazia militare straniera imperante in Egitto prima che alle invasioni francese ed inglese succedesse in quella sì celebre ed importante Provincia lo stabilimento del dominio assoluto del Gran Signore. Il nostro Ali Bey dagli avvenimenti condotto in Europa, ha avuto campo d'apprenderne varie lingue, di erudirsi negli elementi di varie scienze, e sopra tutto di conoscere e ben meditare sui nostri costumi, sulle arti e leggi nostre. Nè v'ha dubbio che se la fortuna avesse a restituirlo allo stato, in cui trovossi quando l'ultima volta l'armata turca pose piede in Egitto, e fu tra il Visire e i Mammelucchi stipulato accordo, essendo allora egli capo de' Mammelucchi, e signore del Cairo, non adoperasse gli acquistati lumi per introdurre in quel paese utili istituzioni, e fondare, com'egli diceva, sulla base della civiltà de' Cofti, e della libertà pubblica, un imperio benefico. Il nostro Ali Bey, nato in Tiflis di assai distinta famiglia, rapito dai Lesghi, generazione barbara del monte Caucaso, ebbe per due o tre anni a correre co' suoi rapitori, e co' mercanti di schiavi, ai quali i suoi rapitori lo vendettero, per molti paesi dell'Oriente, avendo in quella occasione vedute parecchie città poste sul mar Caspio; poi la Persia, Bagdad, Bassora, Damasco, Gerusalemme, Aleppo, Smirne, Costantinopoli, e il Cairo finalmente, ove fu venduto per l'ultima volta, ed entrò fra i Mammelucchi della casa di Soliman-Bey, imperante allora in Egitto.
La grazia, che trovò nel suo padrone, e più di tutto verosimilmente il suo bel garbo, la vivacità del suo spirito, la facilità sua s'apprendere le arti cavalleresche de' Mamelucchi, e il suo coraggio, di cui ebbe a dar prove fin d'allora in parecchj incontri, lo portarono giovinetto ancora di ventidue anni ad essere uno dei 24 Bey, ne' quali era concentrata la signoria dell'Egitto; e in questa qualità gli toccò la sua volta il comando della carovana della Mecca, e l'onor singolare di entrare solo, come è di costume, nel Santuario della gran Kaaba, e togliendone il vecchio padiglione, attaccarvi di nuovo; cerimonia presso i Musulmani sacra e solennissima, che nella loro opinione costituisce santo colui, il quale alla medesima è prescelto.
Il nostro Ali Bey ci ha narrato non solo la serie di singolari avvenimenti succedutigli in quel viaggio, ma di più la notabile avventura, che ito egli alla Mecca con quell'interno senso di fede e di religione, che conceputo aveva per la superstiziosa educazione datagli dagl'Imani d'Egitto, musulmano a più prove, fu ad un tratto condotto a dover conoscere l'impostura di que' dottori fanatici. Imperciocchè avendogli essi detto prima della sua partenza dal Cairo, che quanto era felicissimo per la sua destinazione di entrare nel secreto santuario della Kaaba, altrettanto guardar si doveva, penetrato che fosse colà, di volgere gli occhi in alto, perchè avrebbe subitamente veduta la Maestà di Dio, e ne sarebbe restato abbacinato a pieno, egli, che in cuor suo preferiva sì alta visione alla conservazione degli occhi, entro sè medesimo ragionando, che se gli avvenisse di veder Dio, niuna voglia, e niun bisogno avrebbe avuto più di vedere le cose del mondo; operando secondo questo proposito finì col guardare quanto mai potè al lacunare del sacrario della Kaaba, nè altro vide che travi di cedro. La Maestà di Dio restò nascosta a' suoi occhi, come a quelli degli altri uomini; nè d'altro restò certo che dell'insidia tesa al suo spirito da quegl'Imani impostori, che come su quel punto, così non dubitò, che non ingannassero i deboli sopra moltissimi altri.
Ora di tutti i suoi Viaggi, e di tutte le cose occorsegli in Egitto, e fuori, e della sua venuta in Francia, e della parte presa nella guerra del 1814, e di quanto in essa, e dopo gli è seguito, disse a noi avere già stesa amplissima relazione, poichè e parla e scrive assai bene in francese, e volerla pubblicare quanto prima per le stampe in Parigi, verso dove allora s'incamminava dopo avere visitata l'Italia. Nè abbiamo noi mancato di vivamente sollecitarlo a ciò fare, certi essendo, che molte cose ci saranno fatte palesi per esso lui, che da niun Viaggiatore europeo potremmo giammai sapere, ammenochè non foss'egli nelle circostanze di quel Battema bolognese, i cui Viaggi vengono riportati dal Ramusio.
Ma nel mentre, che facevamo codeste considerazioni sui Viaggi del nostro Principe Mammelucco egiziano, ci sono capitati sotto gli occhi quelli di un altro Ali Bey di più nobile stirpe, e più famosa, quale si è quella degli Abbassidi, chiarissimi singolarmente per l'onore del Califfato da essi tenuto parecchj secoli, e per la protezione, che accordarono alle arti, e scienze, promotori risolutissimi di ogni maniera di civiltà e di bel costume; e quantunque Pontefici sommi della Religione Maomettana, sì fieramente, come è noto, propagata col ferro, e colla strage, tollerantissimi di ogni altra contraria alla medesima; di modo che nel vastissimo loro imperio, e in quella ammirabile città di Bagdad, loro residenza, famosa per oltre ventimila moschee, una delle quali dicesi essere stata capace di cento mila persone, niuno mai nè ebreo, nè cristiano fu a motivo di Religione inquietato in alcuna maniera.
In qual luogo dell'Asia questo Ali Bey sia nato, e come sia passato in Europa, noi lo sapremo quando vengano pubblicati altri suoi scritti, siccome l'Editore di questi Viaggi ci fa sperare poter in breve succedere. Basterà per ora prevenire i nostri Associati, che sicuramente troveranno questi Viaggi e curiosissimi, ed importantissimi, perciocchè sono appunto e fatti e scritti da uomo musulmano; il che è grande singolarità, e da tale musulmano, che nulla fa vedere, che in alcun modo sappia di prevenzione o nazionale, o settaria; che parla di cose, che un musulmano solo poteva essere in istato di vedere e riferire con verità; e che in fine parla di tutto da uomo nelle nostre lingue europee, come nella sua nativa, istrutto, e pieno conoscitore delle nostre scienze, i cui principj egli applica ad ogni opportunità in argomenti sia di astronomia, e di geografia, sia di fisica, e di storia naturale.
Noi non intratterremo più a lungo su di ciò i nostri leggitori, non dovendo noi diminuir loro il piacere della sorpresa, che avranno scorrendo questi Viaggi; e del quale siamo certi che ci faranno merito per la deliberazione in che siamo venuti di preferirli al momento ad altri, che avevamo pur pronti.
VIAGGI
in AFFRICA ed in ASIA
FATTI DAL 1803 AL 1807
«Sia lode a Dio, a lui che è altissimo ed immenso, a lui che ne ammaestra coll'uso della penna ad uscire dall'ignoranza! Lode a Dio che ci guida alla vera fede d'Islam, fino al termine del pellegrinaggio, e fino alla Santa Terra.»
«Questo libro è del religioso, principe, dottore, sapiente, scheriff pellegrino, Ali Bey figlio d'Othman principe degli Abassidi, servitore della casa di Dio.»
Dopo molt'anni passati ne' paesi cristiani per apprendere nelle loro scuole le scienze della natura, e le arti utili all'uomo nello stato di società, risolsi infine di tornare ne' paesi musulmani, e nell'atto di soddisfare al sacro dovere del pellegrinaggio alla Mecca, determinai di osservare le costumanze, gli usi e la natura delle contrade che dovrò attraversare, onde ricavare profitto dai travagli di così lungo viaggio, e renderli utili ai miei concittadini ne' paesi che dopo tante fatiche, sceglierò per mia patria.
CAPITOLO PRIMO
Arrivo a Tanger. – Interrogatorio. – Presentazione al governatore. – Stabilimento d'Ali Bey nella sua casa. – Preparativi per andare alla moschea. – Festa natale del profeta. – Marabout. – Visita al Kadi. – Congedo del suo introduttore.
Dietro la presa risoluzione essendo tornato in Ispagna nell'aprile del 1803, m'imbarcai a Tariffa sopra un piccolo battello; ed attraversato in quattr'ore lo stretto di Gibilterra, entrai nel porto di Tanja o Tanger alle dieci ore del mattino, il giorno 29 giugno dello stesso anno, mercoledì 9 del mese vabiul-anal dell'anno 1218 dell'egira.
La sensazione che prova colui che fa la prima volta questo tragitto brevissimo con può paragonarsi che all'effetto d'un sogno. Passando in così corto spazio di tempo in un mondo affatto nuovo, e che non ha veruna rassomiglianza con quello che si è lasciato; si trova come trasportati in un altro pianeta.
In tutte le contrade del mondo gli abitanti de' paesi limitrofi più o meno uniti da reciproche relazioni, amalgamano, per così dire, e confondono i loro idiomi, le usanze, i costumi, talchè si passa gradatamente dagli uni agli altri, e quasi senz'avvedersene; ma questa costante legge della natura non è comune agli abitanti delle due coste dello stretto di Gibilterra, i quali, malgrado la vicinanza loro, sono gli uni agli altri così stranieri quanto un francese lo sarebbe ad un chinese. Nelle nostre contrade del Levante, se noi osserviamo progressivamente l'abitante dell'Arabia, della Siria, della Turchia, della Valacchia, dell'Allemagna, una lunga serie di transizioni ne indica in qualche modo tutti i gradi che separano l'uomo barbaro dall'uomo civilizzato: ma qui l'osservatore tocca in un solo mattino gli estremi della catena della civilizzazione, e nella piccola distanza di due leghe e due terzi, che è la più breve tra le due coste1, trova la differenza di venti secoli.
Avvicinandoci a terra si presentarono a noi alcuni Mori; uno de' quali, che mi si disse essere il capitano del porto, avvilupato in una specie di sacco grossolano con cappuccio, colle gambe ed i piedi ignudi, tenendo una gran canna in mano, entrò nell'acqua chiedendo il certificato di sanità, che gli fu dato dal mio padrone; indi rivoltosi a me, fecemi le seguenti interrogazioni.
Capitano. Di dove venite?
Ali Bey. Da Londra, per Cadice.
C. Non parlate voi il moresco?2
A. No.
C. Qual è adunque la vostra patria?
A. Aleppo.
C. E dove trovasi Aleppo?
A. Nello Scham (la Siria).
C. Che paese è Scham?
A. È a levante presso la Turchia.
C. Voi dunque siete Turco?
A. Non sono Turco, ma il mio paese è sotto il dominio del Gran Signore.
C. Ma voi siete musulmano?
A. Sì.
C. Avete passaporti?
A. Sì, ne tengo uno di Cadice.
C. E perchè non è di Londra?
A. Perchè il governatore di Cadice lo ritenne, rilasciandomi questo.
C. Datemelo.
Io lo passai al capitano, il quale, dando ordine di non permettere ad alcuno di sbarcare, partì per mostrare il mio passaporto al Kaïd ossia governatore. Questi lo mandò al console di Spagna perchè lo riconoscesse; il quale avendolo dichiarato autentico, me lo rimise per mezzo del vice-console, che venne al mio battello con un Turco chiamato Sid Mohamed, capo dei cannonieri della piazza, che il governatore aveva incaricato di farmi nuove interrogazioni.
Mi furono rinnovate quelle del capitano del porto, dopo di che partirono per farne rapporto al Kaïd.
Ricomparve in appresso il capitano coll'ordine del governatore per il mio sbarco. Scesi tosto a terra facendomi condurre al Kaïd appoggiato a due mori, perchè quando attraversai la Spagna avevo riportata una grave ferita alla gamba, rovesciandosi la mia vettura.
Il Kaïd mi accolse gentilmente: e dopo avermi fatte press'a poco le medesime interpellazìoni, diede ordine di allestirmi una casa, e mi congedò complimentandomi ed offrendomi i suoi servigi.
Dopo averlo ringraziato uscj accompagnato dalle stesse persone, e fui condotto alla bottega d'un barbiere. Il turco che mi aveva interrogato nel battello andò e tornò più volte senza poter procurarsi la chiave della casa destinatami, il di cui proprietario trovavasi in campagna. Sopraggiunta la notte il mio turco recò del pesce da mangiarsi con lui; e quando, dopo avere leggiermente cenato, mi disponevo a coricarmi sopra una specie di banca da letto, alcuni soldati della guardia del Kaïd entrarono bruscamente, ordinandomi di ripassare dal Kaïd.
Io mi alzai e mi lasciai condurre dal Kaïd, il quale aspettavami con impazienza alcuni passi fuori della porta, e mi fece salire in una camera, ove trovavasi il suo segretario, ed il suo kiàhia, ossia luogotenente governatore. Dopo essersi scusato perchè non mi ritenne la mattina, soggiunse gentilmente, che voleva essermi ospite finchè fosse preparata la mia casa. Fummo serviti di caffè senza zuccaro, e più volte ripetute le interrogazioni, e le risposte sul conto mio; e finalmente dopo un'abbondante cena, di cui ne gustai pochissimo, mi coricai come gli altri sullo stesso tappeto.
Nel dopo pranzo dello stesso giorno aveva sbarcata la mia valigia ov'era tutto il mio equipaggio. Ne offrj la chiave alla dogana; dove non si volle nè visitarla, nè ricevere alcuna mancia. Questa valigia mi accompagnò costantemente finchè fui collocato nella mia casa.
All'indomani dopo merenda il padrone del battello mi pregò di chiedere al Kaïd il permesso di caricare alcune vittovaglie: al che mi rifiutai, non credendomi entrato così avanti nell'amicizia del governatore, per azzardare tali inchieste. Si pranzò a mezzogiorno; durante il quale chiesi spesso notizie della mia casa, e non ebbi in risposta che dei sì; ma verso sera mi fu dato avviso ch'era allestita. Presi allora congedo da Kaïd che mi offrì di nuovo i suoi servigi, e fui condotto al nuovo mio domicilio.
Vidi entrando ch'erasi consumato l'antecedente giorno ad imbiancarne i muri, ed a coprire il palco di tutte le camere d'uno strato di due in tre pollici di argilla, che non era peranco perfettamente asciutta. Feci molti ringraziamenti per la cura presa nell'abbellire la mia abitazione; ed ammirai nello stesso tempo la rara semplicità dei costumi di un popolo, che s'accontenta di simili case, e che nè pure conosce probabilmente l'uso delle finestre nelle fabbriche delle case; di modo che le camere non ricevono aria e luce che dalla porta d'un andatojo, che mette sul cortile. A fronte di tali inconvenienti, era tale il mio desiderio, o dirò meglio l'estremo bisogno ch'io avevo di trovarmi finalmente solo e pienamente libero, che ricevetti questo cattivo alloggio come un singolare beneficio, e ne approfittai in sul momento. Per questa prima notte mi coricai sopra una stuoja, valendomi della valigia per guanciale, e d'un drappo di lana per ricoprirmi.
All'indomani, venerdì primo luglio, feci comperare quanto strettamente occorrevami per gli usi domestici della casa, stuoje per coprire il suolo e parte delle pareti, alcuni tappeti, un materasso, cuscini ed altri utensiglj.
Le usanze de' Marocchini sono in Europa pochissimo conosciute, perchè coloro che vi vengono, sogliono d'ordinario adottare i costumi dei Turchi delle reggenze. Il Marocchino non copre mai le gambe; ha pantoffole gialle assai grossolane, ove non entra il tallone; la veste principale consiste in una specie di grandissimo drappo bianco di lana chiamato hhaïk, entro il quale s'avviluppa dal capo fino ai piedi. Perchè desiderando ancor io di vestire come gli altri, sacrificai le mie calze e le mie gentili pantoffole turche, avvolgendomi in un immenso hhaïk, e lasciando le gambe ed i piedi ignudi, ad eccezione della punta che entrava nelle mie enormi e pesanti papuzze.
Era venerdì, onde dovendo andare alla moschea per le preghiere del mezzogiorno, il mio turco m'istruì intorno al rito del paese alquanto diverso da quello dei turchi. Ma ciò non bastava: mi dovetti far radere nuovamente il capo, quantunque già raso pochi dì prima a Cadice: e quest'operazione fu ancora eseguita dallo stesso turco, la di cui inesorabil mano mi rese la cute tutta rossa ad eccezione d'una ciocca di capelli nel mezzo. Dalla testa passò a radere tutte le altre parti del corpo, non lasciando indizio di quanto il nostro santo profeta proscrisse nella sua legge quale orribile impurità. Mi condusse poi al bagno pubblico ove facemmo il nostro lavacro legale. Ma di ciò più diffusamente altrove, come pure delle cerimonie della preghiera alla moschea ove s'andò a mezzodì, chiudendosi in tal modo le pie opere di questo giorno.
Nella susseguente mattina di sabbato ebbe principio la solennità d'Elmouloud, o natività del nostro Santo profeta, che dura otto giorni; ne' quali vengono circoncisi i fanciulli. Ogni giorno mattina e sera alcuni musici eseguiscono con grossolani e sconcertati stromenti varie suonate innanzi alla porta del Kaïd.
In questi giorni festivi ci siamo recati a fare le nostre divozioni in un eremitaggio, o luogo sacro posto a duecento tese dalla città, ove si venerano le spoglie mortali d'un santo; e serve ad un tempo d'abitazione ad un altro santo vivo, fratello del defunto, che riceve le offerte per l'uno e per l'altro. Vedesi da questo lato della città il cimitero dei musulmani.
Il sepolcro del santo situato nel centro della cappella era ricoperto di varj pezzi di stoffa assai sdruscita tessuta di seta, cotone, oro ed argento. Stavano in un angolo alcuni Mori, che cantavano a coro pochi versetti del Corano3.
Poi ch'ebbimo fatte le nostre preghiere al sepolcro si passò a visitare il santo vivo, che vidimo in mezzo ad altri Mori nell'orto vicino alla cappella. Egli ci accolse di buon garbo, ed il mio Turco, dopo esserci seduti, gli raccontò la mia storia. Il santo ringraziava Dio d'ogni cosa, ma in particolare d'avermi ricondotto nella terra de' fedeli credenti. Mi prese per mano, e fatta un'orazione sotto voce, mi pose la sua sul petto, e ne recitò un'altra; dopo di che ci separammo. Quest'uomo vestiva come gli altri abitanti.
Di là si andò a trovare il Fakih Sidi Abderrahmam-Mfarrasch capo dei fakih ossia dottori della legge, imam o capo della principale moschea di Tanger, e Kadi, val a dire giudice del cantone. Questo venerabil vecchio rispettato da tutto il paese, è in grandissima riputazione presso lo stesso Re di Marocco. Ascoltò con molta attenzione il racconto delle mie avventare fattogli dal Turco, e mi accertò del suo parziale attaccamento. Poi ch'ebbi soddisfatto a queste convenienze, desideravo di potermi liberamente occupare intorno ai miei affari, ma l'incessante compagnia del mio Turco riuscivami infinitamente molesta, perchè non poteva travagliare nè giorno nè notte. Avrei voluto tenerlo alcun poco lontano, ma non m'arrischiavo di farlo, temendo che avesse avuto commissione dal Kaïd di osservare da vicino tutti i miei andamenti, nel qual caso i miei tentativi potevano avere disgustose conseguenze. Pure siccome s'incaricava ogni giorno de' miei piccoli affari, e dell'economia domestica, non senza qualche suo profitto, non fu difficile trovare veri o falsi pretesti di mostrarmi scontento di lui; in seguito ai quali essendo venute in chiaro, che non aveva verun appoggio presso il Kaïd, l'allontanai interamente, dopo averlo per altro generosamente regalato, onde compensarlo de' servigi resimi ne' primi giorni, e non inimicarmelo.
Ricuperata in tal modo la mia libertà, ripresi le mie favorite occupazioni.
CAPITOLO II
Circoncisione. – Descrizione di Tanger. – Fortificazioni. – Servizio militare. – Corsa de' cavalli. – Popolazione. – Carattere degli abitanti. – Costumi.
Dissi che nella festa del Mouloud i Mori fanno circoncidere i loro fanciulli: operazione che si eseguisce fuori di città nella cappella sopra accennata, operazione solennizzata dalla famiglia del neofito. Per andare al luogo del sacrificio riunisconsi alcuni giovanetti che portano fazzoletti, cinture, ed ancor de' cenci sospesi a canne o bastoni a guisa di stendardi. Tengono dietro a questo gruppo due suonatori di cornamuse, e due o più tamburri, lo che forma una musica insoffribile per chiunque avvezzò l'orecchio alla musica europea. S'avvanza dietro ai suonatori il padre, o il parente più prossimo colle persone invitate, che circondano il fanciullo, montato sopra un cavallo colla sella ricoperta d'una stoffa rossa: ma se il neofito è troppo piccolo vien portato in collo da un uomo a cavallo. Tutti gli altri camminano a piedi. D'ordinario il neofito è vestito di una specie di mantello dì tela bianca, cui viene sovrapposta un'altra tela di color rosso, ornata di varj nastri; ed ha coperto il capo da una fascia di seta. Ai due lati del cavallo vedonsi due uomini con un fazzoletto di seta in mano, con cui scacciano le mosche dal fanciullo e dal cavallo. Chiudono la processione alcune femmine avviluppate negli enormi loro hhaïks.
Quantunque in ogni giorno della festa del Mouloud si circoncidessero dei bambini, aspettai l'ultimo, perchè mi fu detto, che ve n'erano assai più che ne' precedenti; ed in fatti quel giorno tutte le strade erano affollate di popolo e di soldati coi loro fucili.
Io sortj di casa a dieci ore del mattino, ed attraversando la folla per recarmi alla cappella, mi scontrai in accompagnamenti di tre, di quattro, ed ancora di più fanciulli, che venivano condotti assieme alla circoncisione. La campagna vedevasi coperta di cavalli, di soldati, di abitanti, di Arabi, di crocchj, di donne affatto coperte, sedute all'ombra degli alberi, e in certe cavità del terreno, le quali nell'atto che i fanciulli passavano presso di loro mandavano acute strida, indizio presso questa gente d'allegrezza, e d'incoraggiamento.
Arrivato che fui all'eremitaggio, attraversai il cortile in mezzo ad infinito popolo, ed entrato nella cappella, trovai ciò che ardisco chiamare un vero macello. Stavano presso al sepolcro del santo cinque uomini coperti della sola camicia, e d'un pajo di mutande, colle maniche rimboccate fino alle spalle. Quattro di costoro sedevano in faccia alla porta della cappella, il quinto era in piedi presso alla porta per ricevere le vittime. Due de' seduti tenevano in mano gli stromenti del sacrificio, e gli altri due una borsa o piccolo sacco pieno di una polvere astringente.
Dietro ai quattro ministri eran collocati circa venti fanciulli di età e di colore diverso, i quali, come vedremo ben tosto, avevano pure le loro incombenze: al di là dei fanciulli, ed a non molta distanza, un'orchestra uguale alla già descritta, eseguiva suonate affatto discordi.
Allorchè arrivava un neofito, il padre o la persona che ne faceva le veci, lo precedeva: entrava nella cappella, baciava il capo al ministro principale, e gli faceva alcuni complimenti. Si conduceva dopo il fanciullo, il quale era preso all'istante da un uomo vigoroso, che rimboccatogli l'abito, lo presentava all'esecutore per il sacrificio. In quell'istante la musica suonava con strepito, ed i venti fanciulli seduti dietro ai ministri mandando alte grida, richiamavano lo sguardo della vittima alla volta della cappella, che indicavano coll'alzar l'indice. Stordito da tanto romore, il fanciullo alzava il capo, ed allora il ministro prendendo la pelle del prepuzio tirava assai forte e con un colpo di forbici la tagliava. In pari tempo un altro gettava la polvere astringente sulla ferita, ed un terzo la copriva di filaccie assicurandole con una benda, indi si portava fuori il fanciullo sulle braccia. Quantunque fatta assai grossolanamente, l'operazione non durava più di mezzo minuto. Lo schiamazzar de' giovanetti, ed il frastuono della musica m'impedivano d'udire le grida delle vittime, le quali esprimevano coi loro gesti l'acuto dolore che soffrivano. Ogni fanciullo veniva posto in appresso sul dorso di una femmina; che lo riportava a casa coperto del suo hhaïk, ed accompagnato dal corteggio di prima.
Presso ai neofiti campagnuoli vidi molti militari e beduini maneggiare con mirabile destrezza i lunghissimi loro fucili, che tiravano nelle gambe gli uni degli altri in segno d'amicizia.
Udj raccontare da alcuni cristiani, che taluno di loro visitando i paesi Mussulmani, fecero i loro viaggi con piena sicurezza, coll'addottare le loro costumanze; ciò che io non posso credere, a meno che non siansi preventivamente assoggettati alla circoncisione, della qual cosa sogliono informarsi tosto che vedono uno straniero; e quando io giunsi a Tanger, ne fecero inchiesta ai miei domestici ed a me medesimo.
La città di Tanger offre dalla banda del mare una prospettiva abbastanza vaga. La sua figura d'anfiteatro, le case bianche, quelle de' consoli regolarmente fabbricate, le mura della città, l'alcassaba, ossia castello, che la signoreggia dall'alto d'un colle, la baja vasta e circondata di ridenti colline, formano tutt'insieme un complesso di cose che illudono il viaggiatore: illusione che sparisce all'istante che entra nell'interno della medesima, ove si vede circondato da tutto quanto può riunire assieme la più ributtante meschinità.
Tranne la strada principale passabilmente larga, e che attraversa alquanto tortuosamente la città da levante a ponente, tutte le altre sono in modo anguste ed irregolari, che tre persone di fronte vi passano a stento. Bassissime sono quasi tutte le case, talchè il passaggiero può toccarne colla mano il tetto affatto piano, e coperto d'argilla. Le case dei consoli sono abbastanza ben fatte, ma quelle degli abitanti hanno appena qualche finestra, o piuttosto pertugio d'un piede quadrato al più, e moltissime uno spiraglio largo uno o due pollici, ed alto un piede. La principale strada vedesi in alcuni luoghi mal selciata, altrove abbandonata alla semplice natura ed ingombrata d'enormi sassi, che niuno si prende la cura di appianare.
Le mura della città sono ridotte ad un estremo stato di deperimento. Sono qua e là interrotte di torri rotonde o quadrate, e dalla banda di terra circondate da larga fossa ugualmente in rovina, e ridotta a coltura.
Sulla diritta della porta a mare sonovi due batterie l'una quasi a fior d'acqua di quindici pezzi di cannone, l'altra più alta di undici. La seconda batte il mare di fronte, ed ha pure una piccola piattaforma con due cannoni per difesa della porta, l'altra batte ugualmente il mare e la spiaggia. Altri dodici cannoni trovansi sopra la più elevata parte delle mura. Tutti questi cannoni di vario calibro sono di fabbrica europea, ma i carri sono del paese, e tanto malfatti, che quelli dei cannoni da 12 a 24 non reggerebbero ad un quarto d'ora di fuoco. Due informi tronchi con tre o quattro traversi, un debolissimo asse e due ruote formate di grosse tavole quasi prive di ferramenti compongono il carro: è tutto coperto di color nero, ma lo credo di legno di quercia. Nella parte orientale della spiaggia sonovi tre altre batterie.
Le maggiori navi ch'io vedessi entrare in porto non eccedevano la portata di 250 tonnellate, ma quantunque la baja sia alquanto esposta ai venti di levante, la sua situazione è molto bella; e sono di sentimento che vi si potrebbe formare con piccolissima spesa un eccellente porto.
Dalla banda di terra Tanger non ha altra difesa che il muro e la fossa rovinati, senza cannoni. Al nord il muro della città si riunisce a quello del vecchio castello alcassaba, posto sopra un'eminenza, e dove trovasi un sobborgo ed una moschea.
E perchè i Mori non conoscono affatto il servizio militare, lasciano d'ordinario le loro batterie senza guardia. Soltanto presso alla porta del Kaïh trovasi un piccolo corpo di guardia, ed un altro corpo di guardia viene rappresentato, quantunque effettivamente non esista, da alcuni fucili posti a porta a mare, ove al più alcune volte si vedono due o tre soldati. Ogni giorno in sul far della sera, mentre il Kaïh passeggia o sta seduto sulla spiaggia, alcuni soldati fanno la ceremonia di mutar la guardia; ma poco dopo tutti ritornano alle loro case.
L'avviso della ritirata vien dato alle dieci della sera con un colpo di fucile tirato in su la piazza; ove nello stesso tempo viene collocata una sentinella, la quale ogni cinque minuti dà la parola ad un'altra posta alla porta a mare, gridando assassa, cui l'altra risponde alabata. I Mori fanno le loro fazioni sempre seduti, e d'ordinario disarmati, lo che è comodo assai.
Nelle guerre d'Affrica il fantaccino non ha veruna considerazione, di modo che le forze d'ogni potentato viene calcolata sul numero de' loro cavalli, e per tale ragione i Mori si esercitano principalmente nel cavalcare. A Tanger fannosi tali esercizj lungo la spiaggia, facendo correre i cavalli sull'arena ancor bagnata dalla bassa marea. Con questi continuati esercizj si rendono eccellenti cavalieri. Adoperano selle assai pesanti, con arcioni altissimi assicurati sul cavallo da due cinghie che serrano il cavallo, una passandogli sotto le coste, e l'altra obbliquamente per i fianchi sotto il basso ventre. Hanno cortissime staffe per montare, ed i loro speroni sono formati da due ferri appuntati lunghi circa otto pollici. Con questo equipaggio, e con un morso durissimo martirizzano talmente i poveri cavalli, che frequentemente spargono sangue dai fianchi e dalla bocca.
Essi non conoscono che una sola manovra: tre o quattro cavalieri, e talvolta anche più, partono assieme mettendo altissime grida, e presso alla metà della corsa scaricano il loro fucile senza unione di tempo o di luogo. Talvolta l'uno corre dietro l'altro sempre gridando, e nell'atto di raggiungerlo scarica il suo colpo tra le gambe del cavallo.
Nè solo trattano duramente adoperandoli i loro cavalli, ma non curansi pure di metterli al coperto; lasciandoli per lo più in aperta campagna, in un cortile con i piedi d'avanti assicurati ad una corda tirata orizzontalmente tra due pivoli, senza testiera, e senza cavezza. Gettano loro della paglia in terra, e danno un poco d'orzo in un piccolo sacco che viene sospeso alla loro testa. Per lo più danno la paglia al cavallo due o tre volte al giorno, e soltanto una volta la biada verso sera. Quando viaggiano non sogliono fermarsi finchè non giungano al luogo destinato a passarvi la notte; e non mangiano prima di sera. Avvezzati ugualmente all'ardente sole della state, ed alle continue pioggie dell'inverno, si conservano grassi e sani, lo che mi persuaderebbe che il reggime degli Affricani debba preferirsi a quello degli Europei, che rende i cavalli soverchiamente dilicati, e poco destri ne' grandi movimenti militari; se altronde non si dovesse aver riguardo alla diversità dei climi.