Sovrana, Rivale, Esiliata

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“Più tardi,” disse Irrien. D’impulso ne spinse una in direzione del sacerdote. “Che non mi venga detto che non rispetto gli dei. Non accetto che mi vengano dati ordini, però. Prendi questa e sacrificala. Immagino che questo farà loro piacere?”

Il sacerdote fece un altro profondo inchino. “Qualsiasi cosa vi faccia piacere, Prima Pietra, appagherà gli dei.”

Era una buona risposta. Sufficiente a sedare l’umore di Irrien. Strinse una mano attorno al braccio dell’altra damigella. La donna aveva lo sguardo scioccato e ovviamente si rendeva conto di quanto fosse appena stata vicina alla morte.

L’altra iniziò a gridare mentre la trascinavano verso l’altare.

Ma Irrien non se ne curò. Non si curò neanche in modo particolare della schiava che trascinò con sé mentre lasciava la stanza. I deboli non avevano importanza. La cosa che gli dava da pensare era che c’era uno stregone invischiato nei suoi affari. Irrien non sapeva cosa significasse, ma era fortemente irritato di non capire cosa intendesse Daskalos.

Gli ci volle buona parte del tragitto fino alla sala reale per convincersi che non importava. Chi poteva mai immaginare come si comportavano e cosa volevano dire coloro che si occupavano di magia? La cosa importante era che Irrien avesse i suoi progetti con l’Impero, e fino a quel punto quei progetti stavano procedendo esattamente come aveva desiderato.

Quello che sarebbe successo poi sarebbe stato ancora meglio, anche se c’era una nota amara in questo. Cosa voleva quello stregone dal bambino? Cosa aveva inteso dire sostenendo che l’avrebbe trasformato in un arma? In qualche modo il solo pensiero faceva rabbrividire Irrien, e lui odiava quella sensazione. Sosteneva di non temere nessun uomo, ma questo Daskalos…

Ne aveva una grande paura.

CAPITOLO QUATTRO

Tano sapeva che avrebbe dovuto stare a guardare l’orizzonte, ma in quel momento tutto quello che poteva fare era guardare Ceres con un misto di orgoglio, amore e stupore. Si trovava a prua della loro piccola imbarcazione e toccava l’acqua con la mano mentre si dirigevano fuori dal porto andando al largo. Attorno a loro l’aria continuava a luccicare e la nebbiolina che definiva la loro invisibilità sembrava far vorticare la luce che vi passava attraverso.

Un giorno, Tano lo sapeva, l’avrebbe sposata.

“Penso sia sufficiente,” le disse Tano sottovoce. Vedeva lo sforzo sul suo volto. Il potere stava chiaramente riscuotendo il suo prezzo.

“Solo… un po’… di più.”

Tano le mise una mano sulla spalla. Da qualche parte dietro di lui udì Jeva sussultare, come se la donna del Popolo delle Ossa si aspettasse di vederlo scaraventare via dal potere. Ma Tano sapeva che Ceres non avrebbe mai fatto una cosa del genere a lui.

“Siamo liberi,” disse. “Non c’è nessuno dietro di noi.”

Vide Ceres guardarsi attorno con ovvia sorpresa quando vide l’acqua profonda che stavano ora solcando. C’era voluta così tanta concentrazione per tenere quel potere al suo posto? Ad ogni modo non c’era nessuno dietro di loro adesso: solo l’oceano vuoto.

Ceres sollevò la mano dall’acqua e barcollò leggermente. Tano la prese e la sostenne. Dopo tutto quello che aveva passato, era sorpreso che fosse riuscita a mostrare una tale forza. Ora voleva essere lì per lei. Non solo per un po’, ma sempre.

“Tutto bene,” disse Ceres.

“Molto di più,” la rassicurò Tano. “Sei sorprendente.”

Più sorprendente di quanto avrebbe potuto credere. Non si trattava solo del fatto che Ceres era bellissima, intelligente e forte. Non era solo il fatto che era potente o che sembrava mettere con tale insistenza il bene degli altri davanti al proprio. Erano tutte quelle cose, ma c’era anche qualcosa di speciale oltre tutto ciò.

Era la donna che lui amava, e dopo quello che era successo in città, era la sola donna che amava. Tano si trovò a pensare a cosa questo significasse. Ora potevano stare insieme. Sarebbero stati insieme.

Allora lei sollevò lo sguardo e lo fissò, poi si sporse per baciarlo. Fu un momento dolce e delicato, pieno di tenerezza. Tano si trovò a desiderare che potesse durare per sempre e che non ci fosse nient’altro di cui dovevano occuparsi.

“Hai scelto me,” disse Ceres toccandogli il viso mentre si staccavano.

“Ti sceglierò sempre,” disse Tano. “E ci sarò sempre per te.”

Ceres sorrise, ma Tano poté cogliere la sfumatura di incertezza nella sua espressione. Non poteva certo biasimarla per questo, ma allo stesso tempo avrebbe voluto vederla più sicura. Avrebbe voluto cacciare quell’insicurezza e fare in modo che tutto fra loro fosse perfetto. Era stato sul punto di chiederle altro, ma sapeva quando non era il caso di insistere troppo con le cose.

“Anche io ho scelto te,” lo rassicurò Ceres, ma allo stesso tempo si tirò indietro. “Devo andare da mio padre e mio fratello.”

Andò al punto dove si trovavano Berin, Sartes e Leyana. Una famiglia che appariva del tutto felice insieme. Una parte di Tano avrebbe voluto semplicemente andare lì ed esserne parte. Voleva essere parte della vita di Ceres e sospettava che anche lei lo desiderasse, ma sapeva anche che ci voleva tempo perché le cose tra loro si sistemassero.

Proprio per questo motivo non corse da lei. Rimase invece a considerare il resto delle persone presenti sulla barca. Per un’imbarcazione così piccola, ce n’erano davvero tanti. I tre combattenti che Ceres aveva salvato si stavano occupando dei remi anche se ora che erano lontani dal porto avrebbero potuto issare la piccola vela. Akila stava sdraiato da un lato e una matricola che Sartes aveva liberato gli stava premendo la ferita.

Jeva stava venendo verso di lui.

“Sei un idiota se le permetti di allontanarsi da te,” gli disse.

“Un idiota?” ribatté Tano. “Non c’è alcun altro modo di ringraziare qualcuno che ti ha appena salvata?”

Vide la donna del Popolo delle Ossa scrollare le spalle. “Sei un idiota anche per aver fatto questo. Rischiare la propria vita per salvare qualcun altro è una cosa stupida.”

Tano inclinò la testa di lato. Non era certo di poterla mai capire. Poi di nuovo pensò, dando un’occhiata a Ceres, che questa considerazione si poteva applicare a più di una persona.

“Rischiare la propria vita è ciò che si fa per gli amici,” le disse.

Jeva scosse la testa. “Io non avrei messo a repentaglio la mia vita per te. Se è tempo per te di unirti agli spiriti dei tuoi antenati, che allora sia. È addirittura un onore.”

Tano non era certo di cosa farsene di quell’affermazione. Era seria? Se era davvero così, era un po’ ingrata dato il rischio che lui e Ceres avevano corso per salvarla.

Se avessi saputo che era un tale onore fare da polena per una delle navi della Prima Pietra, ti avrei permesso di farlo,” le disse Tano.

Jeva lo guardò leggermente accigliata. Sembrava che ora toccasse a lei capire se stava parlando seriamente o no.

“Tu stai scherzando,” disse lei, “ma avresti dovuto lasciarmi lì. Te l’ho detto: solo un pazzo rischia la propria vita per gli altri.

Era una filosofia troppo cruda per Tano.

“Bene,” disse. “Almeno sono contento che tu sia viva.”

Jeva sembrò pensare per un momento o due. “Anche io sono contenta. Il che è strano. I morti saranno scontenti di me. Forse ho altro da fare. Ti seguirò fino a che scoprirò di che si tratta.”

Lo disse con voce neutra, come se fosse una cosa già stabilita in cui Tano non avesse niente da dire. Si chiese come dovesse essere, camminare in mezzo al mondo con la certezza che fossero i morti i responsabili della vita.

“Non è strano?” le chiese.

“Strano cosa?” rispose Jeva.

“Vivere la tua vita dando per scontato che siano i morti a prendere tutte le decisioni.”

Lei scosse la testa. “Non tutte. Ma loro ne sanno più di noi. Loro sono più di noi. Quando parlano dovremmo ascoltarli. Guardati.”

Questo fece accigliare Tano. Lui non era un membro del Popolo delle Ossa, e non era fatto per ricevere ordini dai morti.

“Io?”

“Saresti nelle circostanze in cui ti trovi se non fosse per decisioni che hanno preso i tuoi genitori e i loro predecessori?” chiese Jeva. “Sei un principe. Tutto il tuo potere è basato sui morti.”

In un certo senso aveva ragione, ma Tano non era sicuro che fosse la stessa cosa.

“Quello che decido di fare lo decido per i vivi, non per i morti,” disse.

Jeva rise come se fosse una barzelletta particolarmente simpatica, poi socchiuse leggermente gli occhi. “Oh, sei serio. Anche da noi ci sono persone che parlano così. Per lo più sono dei pazzi. Però questo è un mondo di folli, quindi chi sono io per giudicare? Adesso dove andiamo?”

Tano non aveva una risposta da darle al riguardo.

“Non ne sono sicuro,” ammise. “Mio padre mi ha detto dove potrei scoprire qualcosa sulla mia vera madre, poi una ex regina mi ha detto che lei si trova da qualche altra parte.”

“Allora bene,” disse Jeva. “Dovremmo andare. Notizie del genere da parte dei morti non si dovrebbero ignorare. Oppure potremmo tornare alla terra del mio popolo. Ci accoglierebbero dicendoci cosa ne è stato della nostra flotta.”

Non sembrava scoraggiata dalla prospettiva di dover fare rapporto di tantissimi morti tra la sua gente. Sembrava anche guardare verso Ceres molto spesso, lanciandole occhiate di ovvia ammirazione.

“È proprio in tutto e per tutto quello che hai detto essere. Qualsiasi cosa ci sia fra voi, risolvila.”

La fece sembrare una cosa facile e diretta, come se fosse semplice quanto dirlo. Tano dubitava che le cose potessero mai essere così facili.

 

“Ci sto provando.”

“Provaci meglio,” disse lei.

Tano avrebbe voluto. Avrebbe voluto andare da Ceres e dichiararle il suo amore. Di più, avrebbe voluto chiederle di essere sua. Pareva che aspettassero da una vita che questo succedesse.

Jeva gli fece cenno di allontanarsi. “Vai. Vai da lei.”

Tano non era abituato ad essere congedato a quel modo, ma doveva ammettere che Jeva si era fatta l’idea giusta approposito di Ceres. Allora si avvicinò a lei e agli altri e la trovò più seria di quanto si sarebbe aspettato.

Suo padre si girò e gli strinse la mano.

“Sono contento di rivederti, ragazzo,” disse. “Se non fossi venuto, le cose sarebbero potute rivelarsi difficili.”

“Avreste trovato una via,” ipotizzò Tano.

“Ora dobbiamo trovare la nostra di via,” rispose Berin. “Pare che tutti qui vogliano andare in posti diversi.”

Tano vide Ceres fare un cenno con la testa, confermando quell’affermazione.

“I combattenti pensano che dovremmo andare nei deserti liberi e diventare mercenari,” disse. “Sartes dice di sgattaiolare nelle campagne che circondano l’Impero. Io invece pensavo di tornare verso l’Isola delle Nebbie.”

“Jeva parlava invece di tornare dal suo popolo,” disse Tano.

“E tu?” chiese Ceres.

Pensò di dirle delle terre delle montagne di nuvola, di sua madre scomparsa, della possibilità di trovarla. Pensò di poter vivere ovunque, ovunque insieme a Ceres. Ma poi guardò verso Akila.

“Andrò ovunque andrai tu,” disse, “ma non penso che Akila sopravviverà a un lungo viaggio.”

“Lo penso anche io,” confermò Ceres.

Tano la conosceva abbastanza bene da sapere che aveva già pensato a dove andare. Era sorpreso che non avesse già preso il comando. Ma poteva immaginare il perché: l’ultima volta che era stata al comando aveva perso Delo, prima per mano di Stefania e poi a causa degli invasori.

“Va tutto bene,” le disse Tano toccandole un braccio. “Mi fido di te. Ovunque deciderai di andare, ti seguirò.”

E immaginava che non sarebbe stato l’unico. La famiglia di Ceres sarebbe andata con lei; i combattenti avevano giurato di seguirla, anche se stavano parlando di andare a cercare avventura altrove. Per quanto riguardava Jeva… beh, Tano non poteva affermare di conoscere quella donna tanto bene da sapere cosa avrebbe fatto, ma avrebbero sempre potuto lasciarla da qualche parte, se voleva.

“Non possiamo raggiungere la nave di trafficanti che ti ha portato a Delo,” disse Ceres. “Anche se sapessimo dove si trova, questa piccola imbarcazione non potrebbe mai andare tanto veloce. E se tentassimo di allontanarci troppo… temo che Akila non ce la farebbe.”

Tano annuì. Aveva visto la ferita che la Prima Pietra aveva inflitto all’amico. Akila era sopravvissuto fino a quel punto con la forza di volontà, ma aveva bisogno di un vero guaritore, e presto.

“Allora dove andiamo?” chiese Tano.

Ceres lo guardò, poi si girò verso gli altri. Sembrava ancora quasi spaventata di dire quello che doveva dire.

“C’è solo un posto,” disse infine. Alzò la voce in modo che tutti sulla nave potessero sentirla. “Dobbiamo andare ad Haylon.”

Suo padre e suo fratello subito iniziarono a scuotere la testa. Anche alcuni dei combattenti non aveva un’espressione contenta.

“Haylon non è un posto sicuro,” disse Berin. “Ora che Delo è caduta, sarà un bersaglio.”

“E allora dobbiamo dare loro una mano a difendersi,” disse Ceres. “Magari non ci saranno persone che tenteranno di tirarcela via da sotto i piedi questa volta.”

Era un buon punto. Delo era caduta per un sacco di motivi: la massa della flotta di Cadipolvere, la gente che non era rimasta a combattere, la mancanza di stabilità mentre Stefania conduceva il suo colpo di stato. Magari le cose sarebbero andate diversamente ad Haylon.

“Non ha una sua flotta,” sottolineò Tano. “Ho persuaso la maggioranza ad aiutare Delo.”

Provò un’ondata di senso di colpa per questo. Se non avesse convinto Akila ad aiutarli, un sacco di brava gente non sarebbe morta e Haylon avrebbe avuto i mezzi per difendersi. Il suo amico ora non sarebbe stato steso e ferito sul ponte della loro barca, in attesa di assistenza.

“Abbiamo scelto… noi di venire,” riuscì a dire Akila da dove era sdraiato.

“E se non hanno una flotta, è una ragione più che sufficiente per tentare di aiutarli,” disse Ceres. “Pensateci tutti: è l’unico posto vicino che ci sia amico. Ha tenuto a bada l’Impero quando era tanto forte che Cadipolvere non osava attaccare. Ha bisogno del nostro aiuto. E anche Akila. Andremo ad Haylon.”

Tano non poteva discutere. E poi vide gli altri che si radunavano attorno a loro. Ceres aveva sempre avuto l’abilità di farlo. Era stato il suo nome, non quello di Tano, a portare lì il Popolo delle Ossa. Era stata lei a persuadere gli uomini di Lord West e la ribellione. Lo impressionava sempre di più ogni volta che lo faceva.

Era il minimo che Tano la seguisse dove voleva andare, ad Haylon o oltre. Per il momento poteva tenere da parte il suo tentativo di risalire alle proprie origini. Era Ceres che contava: Ceres e gestire il danno che Cadipolvere avrebbe arrecato se si fossero allargati oltre Delo. L’aveva sentito sul molo a Porto Sottovento: non sarebbe stata una rapida razzia e basta.

“C’è un problema se vogliamo andare ad Haylon,” sottolineò Sartes. “Per arrivarci dovremmo passare attraverso la flotta di Cadipolvere. Era la direzione da cui provenivano, giusto? E non penso che adesso siano tutti fermi nel porto di Delo.”

“No, è vero,” confermò Tano ripensando a cosa aveva visto a Cadipolvere. C’erano intere flotte di navi che ancora non avevano neanche salpato per l’Impero: le navi delle altre Pietre stavano aspettando di vedere cosa sarebbe successo, o forse stavano raccogliendo provviste in modo da potersi unire al saccheggio.

Sarebbero stati una vera minaccia se la loro piccola barca avesse tentato di navigare verso Haylon seguendo la rotta diretta. Sarebbe semplicemente stata una questione di fortuna se avessero incontrato i loro nemici sulla via, e Tano non era certo che Ceres sarebbe stata in grado di ritirare fuori il suo trucchetto dell’invisibilità per ingannarli.

“Dovremo fare il giro largo,” disse. “Seguiremo la costa fino a che ci saremo liberati di ogni rotta che loro potrebbero prendere, poi raggiungeremo Haylon dalla parte opposta.”

Poté subito vedere che gli altri non erano felici di quel pensiero, e Tano immaginò che non si trattasse solo per il tempo in più che ci avrebbero messo. Sapeva cosa significasse prendere quella rotta.

Fu Jeva a dirlo.

“Seguire quella rotta ci porterebbe attraverso il Passaggio dei Mostri,” disse. “Sarebbe quasi meglio rischiare contro Cadipolvere.”

Tano scosse la testa. “Ci seguirebbero se ci vedessero. Almeno in questo modo abbiamo una possibilità di scamparla senza essere scoperti.”

“Abbiamo anche una possibilità di essere mangiati,” sottolineò la donna del Popolo delle Ossa.

Tano scrollò le spalle. Non vedeva opzioni migliori. Non c’era tempo per andare da nessun’altra parte, e nessuna via migliore di quella. Potevano rischiare in questo modo o starsene fermi lì fino alla morte di Akila, ma Tano non avrebbe abbandonato l’amico a quel modo.

Ceres sembrava pensarla allo stesso modo.

“E che Passaggio dei Mostri sia. Issiamo le vele!”

CAPITOLO CINQUE

Ulren, la Seconda Pietra, si avvicinava alla torre pentagonale con la calma determinazione di un uomo che aveva tramato tutto ciò che sarebbe successo da adesso in poi. Attorno a lui la polvere della città roteava nella sua solita danza infinita facendogli venire voglia di tossire o di coprirsi la bocca. Ulren non fece né l’uno né l’altro. Quello era il momento di apparire forte.

C’erano guardie alle porte, come sempre, verosimilmente pagate da tutte le cinque Pietre, ma in verità solo dagli uomini di Irrien. Ecco perché incrociarono le lance in segno di sfida, un piccolo promemoria perché qualsiasi Pietra inferiore restasse al proprio posto.

“Chi va là?” chiese uno.

Ulren sorrise. “La nuova Prima Pietra di Cadipolvere.”

Ebbe un momento per vedere lo stupore sui loro occhi prima che i suoi uomini si facessero avanti dalla polvere sollevando le loro balestre. Non aveva il grosso peso di armi che possedeva Irrien, né le spie astute di Vexa, la ricchezza di Kas o i nobili amici di Borion, ma aveva un po’ di tutto questo e ora, finalmente, aveva avuto il coraggio di mettere a frutto le sue risorse.

Si godette la vista dei colpi di balestra che trafiggevano i petti delle guardie che lo avevano trattenuto così tante volte. Era una cosa sciocca, ma era pur sempre un momento per cui valesse la pena lasciarsi un po’ andare alla frivolezza. Questo era il momento in cui arrivava a fare tutto quello che aveva sempre desiderato.

Aprì la porta con la sua chiave ed entrò nella torre illuminata. Chi mai poteva dire che la l’aria piena di fumo della lampada all’interno era migliore di quella all’esterno? Eppure anche quello sembrava bello e dolce in questo momento.

“Fate veloce,” disse agli uomini e alle donne che lo seguivano. “Colpite rapidamente.”

Si sparpagliarono, il bagliore delle loro armi che si attenuava nella penombra. Quando delle guardie arrivarono da uno dei corridoi, si lanciarono in avanti in silenzio, colpendo senza riserbo. Ulren non si fermò a guardare il sangue e la morte. Ora niente di tutto questo aveva importanza.

Si incamminò risalendo le rampe di scale apparentemente infinite che portavano alla sala più alta. Lo aveva fatto così tante volte, e ogni volta con l’aspettativa che si sarebbe presentato come qualcosa di inferiore, secondo o terzo, o ancora meno in una città dove la Prima delle cinque Pietre aveva il posto che contava.

Era quello il crudele gioco della città agli occhi di Ulren. Tutti che lottavano per essere i numeri uno, cinque che lavoravano insieme, ma tutti consapevoli che la Prima Pietra era il più forte. Ulren complottava per essere il primo da così tanto tempo che neanche ricordava un momento in cui avesse desiderato qualcosa di diverso.

Era stato cauto, anche se questo avrebbe sempre dovuto essere suo. Aveva costruito il suo potere a partire dalla terre della sua famiglia, ma aggiungendone, prendendosi cura delle sue risorse nel modo in cui un giardiniere avrebbe potuto curare una pianta. Era stato molto paziente, estremamente paziente. Si era fatto lentamente strada fino ai pressi del trono della Prima Pietra.

Poi era arrivato Irrien, e lui aveva dovuto essere ulteriormente paziente.

Attorno a Ulren le uccisioni continuavano mentre lui saliva le scale. I servitori che indossavano i colori della Prima Pietra morivano, uccisi dai suoi uomini. Nessuna esitazione, nessun rimorso. Cadipolvere era una terra dove addirittura uno schiavo dall’aspetto innocente poteva tenere nascosto un pugnale, sperando di assumere più potere.

Un soldato attaccò dall’ombra e Ulren lottò con lui corpo a corpo cercando di esercitare tutta la sua forza.

L’uomo era forte, anche se forse era solo l’età che giocava a suo favore. Ulren trovava che ora il proprio corpo fosse dolorante quando si trovava nel ring da allenamento a casa sua, e le ragazze schiave che un tempo andavano da lui piuttosto desiderose, ora dovevano nascondere le loro espressioni di disgusto e sgomento. C’erano stati giorni in cui era entrato nelle sue stanze e la cosa non l’aveva minimamente preoccupato.

Ma non aveva perso un solo briciolo della sua astuzia. Si girò con la forza della spinta dell’avversario e gli mise un piede dietro a una gamba mentre nel frattempo lo spingeva con tutte le sue forze. Il soldato inciampò e poi cade volando nel vuoto in mezzo alla spirale di scale che portava in cima alla torre pentagonale. Ulren lasciò che fossero i suoi uomini a finirlo. Gli bastava non essere apparso debole.

“È tutto al suo posto nel resto della città?” chiese a Travlen, il sacerdote che aveva ceduto al suo ordine di seguirlo.

“Sì, mio signore. Mentre parliamo i vostri guerrieri stanno colpendo quelli della gente di Irrien che ancora restano in città. Un certo numero delle sue compagnie d’affari hanno offerto di venire dalla vostra parte, mentre per quelle che non l’hanno fatto mi è stato detto che il massacro è stato sufficiente da poter appagare gli dei.”

 

Ulren annuì. “Bene. Accettate chiunque voglia unirsi a noi, poi vedete chi potrebbe sostituire quelli che sono a capo delle imprese. Non ho tempo per i traditori.”

“Sì, mio signore.”

“Per gli dei,” disse Ulren, “ma queste scale non finiscono mai?”

Un altro uomo avrebbe considerato l’idea di spostare il cuore del potere di Cadipolvere una volta ottenutone il controllo, ma Ulren sapeva bene che non era il caso. In una terra come quella la tradizione era solo un modo in più per mantenere il controllo.

Raggiunsero il piano più alto, dove servitori e schiavi tagliavano frutta e portavano acqua, attendendo a qualsiasi capriccio delle altre Pietre. Ulren si portò lì, i suoi guerrieri che si posizionavano attorno a lui.

“C’è qui qualche schiavo o servitore della Prima Pietra?” chiese.

Alcuni si fecero avanti. Come avrebbero potuto fare qualcosa di diverso? Irrien li aveva abbandonati lì. Forse li voleva al loro posto quando fosse tornato. O forse semplicemente non gli importava. Ulren diede un’occhiata agli uomini e donne lì presenti. Immaginò che Irrien si sarebbe gustato la paura sui loro volti in quel preciso istante. Avevano passato abbastanza tempo vicino alla Prima Pietra da sapere esattamente quale genere di uomo fosse suo rivale.

Ma a Ulren non importava. “Da questo momento siete tutti miei schiavi. I miei uomini decideranno quali di voi vale la pena di tenere, e quali verranno offerti ai templi come sacrificio.”

“Ma io sono un uomo libero,” disse lamentandosi uno degli uomini presenti.

Ulren gli si avvicinò e lo pugnalò con una lama seghettata, che gli trapassò lo sterno uscendo dalla schiena.

“Un uomo libero che ha deciso di stare dalla parte sbagliata. C’è qualcun altro che desidera morire?”

Invece di rispondere si inginocchiarono. Ulren li ignorò e si avvicinò alle grandi porte doppie che segnavano l’ingresso principale della camera del consiglio. C’erano altre entrate, una per ciascuna delle Pietre. Il luogo era così organizzato per mostrare la loro indipendenza. Di certo consentiva loro una via di fuga se ce ne fosse stato bisogno.

Ma non pensava che sarebbero fuggiti da questo. Non se faceva le cose in modo appropriato. Ulren fece segno alla sua gente di stare indietro e aspettare. C’erano dei modi precisi di fare queste cose. Era una cosa che Irrien non aveva mai capito essendo un barbaro della polvere. Era un vantaggio che la Seconda Pietra aveva sulla Prima, e ora intendeva farlo valere.

Tese una mano e uno dei suoi servitori gli passò la sua tunica nera d’ufficio. Ulren se la avvolse attorno e tenne il cappuccio tirato indietro mentre avanzava dalle porte. Aveva ancora la spada insanguinata in mano: meglio essere chiari su come stavano andando le cose.

Si avvicinò a una delle alte finestre e guardò verso la città. La polvere rendeva difficile vedere qualcosa, ma lui poteva immaginare cosa stava succedendo sotto. I guerrieri che si muovevano attraverso le strade, dando la caccia a coloro che Irrien aveva lasciato lì. Sarebbero seguite le grida che proclamavano il cambiamento. I mascalzoni sarebbero diventati i mercanti a cui ora dovevano le loro tasse. La città stava cambiando sotto la polvere e Ulren si era assicurato che mutasse come voleva lui.

Lo stesso era cauto. Era stato già pronto una volta in passato a prendere il posto della Prima Pietra. Aveva preparato i più forti mercenari, costruito una rete di segreti solo per scoprire una sommossa che andava a prendere il trono prima che ci potesse arrivare lui.

Chi era stato la Prima Pietra al tempo? Maxim? Thessa? Era difficile ricordarlo, dato che il governo della città era cambiato così spesso a quei tempi. L’unica cosa che contava era che Irrien era arrivato e si era preso ciò che sarebbe altrimenti diventato suo. Ulren era sopravvissuto accettandolo. Ora la Prima Pietra aveva esagerato, ed era giunta l’ora di ripetersi.

Entrò nella stanza dove le cinque Pietre prendevano le loro decisioni. Gli altri erano già lì, come aveva sperato che sarebbe stato. Kas si stava accarezzando la barba a tre punte con preoccupazione. Vexa stava leggendo un rapporto. Borion aveva l’atteggiamento borioso di un uomo che sa che ci sono dei problemi.

“Che succede?” chiese.

Ulren non sprecò il suo tempo con le smancerie. “Ho deciso di sfidare Irrien per prendergli il posto.”

Guardò la reazione degli altri. Kas continuò ad accarezzarsi la barba. Vexa sollevò un sopracciglio. Borion fu quello con la reazione più visibile, ma del resto Ulren se l’era aspettato. Di quanti sfidanti aveva avvisato Irrien, il damerino? Quante volte aveva dato una mano con i debiti al gioco dell’altro?

“Irrien non è qui per essere sfidato,” sottolineò Borion.

Come se non ci fossero precedenti simili. Pensava che Ulren non avesse visto tutte le permute del consiglio al suo tempo essendo una delle Pietre?

“Allora la cosa dovrebbe essere più facile, no?” disse Ulren. Si portò avanti per prendere il trono di Irrien.

Con sua sorpresa Borion si portò davanti a lui e sguainò una lama sottile.

“E pensi di poterti proclamare Prima Pietra?” gli chiese. “Un vecchio che ha preso il suo posto tanto tempo fa, che nessuno neppure se lo ricorda? Che tiene il posto di Seconda Pietra più che altro perché Irrien non vuole rogne?”

Ulren si portò verso un punto libero del pavimento, levandosi di dosso la tunica e avvolgendola attorno a un braccio.

“È per questo che pensi che mi attenga a questa posizione?” disse. “Vuoi veramente provare a combattere con me, ragazzo?”

“Sono anni che lo voglio, ma Irrien ha sempre continuato a dirmi di no,” disse Borion. Sollevò la spada in posizione da duellante. Ulren sorrise.

“Questa è la tua ultima possibilità di vivere,” disse Ulren, anche se a dire il vero era passato tanto tempo da quando un uomo gli aveva puntato contro una lama. “Ti invito a notare che Kas e Vexa hanno più buon senso e non tentano un affronto del genere. Metti da parte la tua arma e prendi posto. Potresti addirittura essere capace di salire di una posizione.”

“Perché salire di una quando posso uccidere un vecchio e risalirne tre?” ribatté Borion.

Si lanciò in avanti e Ulren dovette ammettere che il ragazzo era veloce. Probabilmente Ulren era stato più rapido in gioventù, ma era un sacco di tempo fa. Aveva avuto un sacco di tempo per apprendere le doti della guerra, e un uomo che giudica la distanza nel modo giusto non doveva essere veloce. Fece roteare la sua tunica appallottolata e catturò con essa la spada di Borion.

“Tutto qui, vecchio?” chiese la Quinta Pietra. “Trucchetti?”

Ulren rise, poi attaccò nel mezzo della risata. Borion fu abbastanza rapido da saltare indietro, ma non senza che la lama di Ulren gli graffiasse il petto.

“Non sottovalutare i trucchetti, ragazzo,” disse Ulren. “Un uomo sopravvive in qualsiasi modo possibile.”

Fece un passo indietro e aspettò.

Borion gli si lanciò addosso. Ovvio. I giovani reagivano, si muovevano secondo le loro emozioni. Non pensavano. Oppure non pensavano abbastanza. Borion tentò una misura d’astuzia, con delle finte che Ulren aveva visto centinaia di volte nella sua vita. Quello era il pericolo di essere giovane: si pensava di aver inventato delle cose che invece avevano portato molti altri prima ad essere uccisi.

Ulren si fece di lato e gettò il mantello sul giovane mentre avanzava. Borion si dimenò sotto al tessuto nel tentativo di liberarsi, e in quel momento Ulren colpì. Si avvicinò, afferrò il braccio di Borion in modo che non potesse prendere la spada, e poi iniziò a pugnalarlo.

Lo fece metodicamente, con consistenza, con la pazienza che si era costruito in anni di combattimenti. Ulren poté vedere il sangue che filtrava attraverso il mantello che avvolgeva Borion, ma non si fermò fino a che l’altro uomo non fu caduto. Aveva visto uomini rialzarsi dalle peggiori ferite. Non aveva intenzione di rischiare nulla.

Rimase fermo respirando affannosamente. Era stato già più che sufficiente salire tutte quelle scale. Uccidere un uomo lo faceva sentire ora quasi come se i polmoni stessero per uscirgli dal petto, ma Ulren mascherò quella sensazione. Si portò verso il trono di Irrien mettendosi prima dietro ad esso.

Bepul matn qismi tugadi. Ko'proq o'qishini xohlaysizmi?