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Kitobni o'qish: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9», sahifa 15

Shrift:

§. I. L'Avvocazione in Napoli si vide a questi tempi in maggior splendore e dignità

Per le cagioni ne' precedenti libri accennate, essendosi questa Città per la sua ampiezza e magnificenza e per lo gran numero di suoi Nobili e Cittadini resa uguale alle maggiori Città del Mondo, e divenuta Capo e Metropoli d'un non men grande, che nobilissimo Regno, pieno d'un maraviglioso numero di Baroni, di Principi, di Duchi, di Marchesi e di Conti; e tenendovi ancora in quello interessi considerabili molti altri Principi Sovrani, e le Corone istesse d'Europa, come il Re di Polonia, Savoja, Neomburgh, Toscana, Modena, Parma, ed altri; e dove tutte le cause si giudicano dal Consiglio di S. Chiara, maggiore anche, per questo riguardo, del Parlamento di Parigi, che non tiene alcuna autorità sopra gli altri Parlamenti del Regno di Francia: l'Avvocazione presso di noi crebbe in somma stima, e riputazione. E maggiore si vide a questi tempi, quando per le tante rivoluzioni, calamità e disordini accaduti, fu veduto il Regno tutto pieno di liti, e si suscitarono cause di Stati grandissimi e d'eredità opulentissime; onde gli Avvocati crebbero assai più di stima per lo bisogno, che se n'avea nella difesa delle cause, nel consigliare i loro testamenti, i contratti, e di regolare le loro case, dipendendo da' loro consigli le facoltà, non men dei signori, che de' privati, ed anche de' principi sovrani, per gl'interessi che vi tengono. Quindi grandemente si offesero quando nel 1629 il Duca d'Alcalà Vicerè voleva obbligargli ad esporsi ad esame, e si risolsero concordemente d'astenersi più tosto da esercizio cotanto nobile, che sottoporsi ad una tal vergognosa censura. Antonio Caracciolo, famoso Avvocato di que' tempi, sostenne nel Collateral Consiglio le costoro ragioni; e di fatto, per non ricevere quest'oltraggio, s'astennero d'andare più a' Tribunali; e Giovan Vincenzo Macedonio, fermo nella sua deliberazione, contentossi di non far più l'Avvocato, per non si sottomettere a questa censura. Quindi è, che tuttavia i primi Baroni del Regno cercan d'avergli benevoli, ed in qualunque occasione, che loro si presenta, fanno per li loro Avvocati ciò, che non farebbero per se medesimi: trattano con loro con sommo rispetto, nè solamente danno loro il primo luogo nelle loro carrozze, ma frequentano le loro Case, e si sentono favoriti, qualora in concorso d'altri sono preferiti nell'udienze.

Rilussero ancora più gli Avvocati in questi tempi, perchè pian piano andavansi dirozzando di quella prima ruvidezza; e quando prima, per avvezzarsi a parlar bene, il loro studio era solamente posto nelle orazioni del Cieco d'Adria, essendosi nel principio di questo secolo, cioè nel 1611 aperta in Napoli l'Accademia degli Oziosi cominciavano ad avvezzarsi meglio nell'arte dell'eloquenza, con andarsi sempre più la nostra natia favella depurando dall'antica rozzezza; e se bene, come suole accadere in tutte le arti, in questi principj i nostri Avvocati non acquistarono gran fama di Oratori, e pure, secondo la testimonianza, che a noi ne rendè l'eloquentissimo Francesco d'Andrea, fiorirono a' questi principj tre famosi Avvocati, insigni per la fama d'eloquenza. Antonio Caracciolo, che fu poi Reggente, era comunemente chiamato fiume d'eloquenza, essendo dotato d'una vena naturale, ed abbondante, che accompagnata da non affettata modestia e da una gratissima maniera di rappresentare, rapiva gli animi di chi l'ascoltava. Giovanni Camillo Cacace, pur egli, come si è detto, innalzato poi al Reggentato, non dovea niente alla natura, ma tutto all'arte, ed essendo per natura timido, prese animo di darsi all'Avvocazione da due orazioni, che fece nella Accademia degli Oziosi con molto plauso: onde poi anche nelle cause si premeditava il discorso a mente con eloquenza più regolata che abbondante, ma con maggior dottrina, ed argomenti più efficaci del Caracciolo. Octavio Vitagliano (che poco curando il Ministerio, co' denari guadagnati coll'Avvocazione fondò la Casa de Duchi dell'Oratino) fu come un mezzo tra il Caracciolo e Cacace: ebbe discorso vigoroso e naturale, ma non avea nè la dolcezza del primo, nè tutta la dottrina del secondo.

Ne' tempi che seguirono, narra l'istesso Francesco d'Andrea, che essendo egli giovane, ebbe occasione d'ammirare D. Diego Moles padre del Reggente Duca di Parete: avea egli nobile aspetto, gratissima voce, e si spiegava nobilissimamente, e senz'affettazione: ardeva dove bisognava: le parole erano anche scelte e proprie; ed in somma, egli dice, che non sapeva altro, che desiderarvi: Pietro Caravita, pur famoso Avvocato di questi tempi, ch'era emolo del Moles e lo superava in dottrina, ma di lunga inferiore nell'arte del dire, non d'altro il censurava, che dell'impararsi a mente il discorso: ciò che se era vero, tanto maggiore era il suo artificio, poichè non se gli conosceva, e pareva, che le parole se gli suggerissero nel medesimo tempo che le diceva. Comunemente però era stimato più facondo Gerolamo di Filippo, Fiscal di Camera e poi Reggente, il quale aveva una affluenza naturale, accompagnata ancora dall'arte, ed una maniera più dolce ed affabile; ma secondo il giudicio, che ne dà l'Andrea, poco imprimeva, ed era affatto privo di que' requisiti tanto necessarj ad un perfetto Oratore: il suo discorso era più pieno di parole, che di cose, tal che il Conte di Pennaranda soleva di lui dire, mentr'era Avvocato Fiscale in Camera, che avea molti pampani, e poca uva; onde di forza, e di efficacia nel dire non poteva paragonarsi col Moles.

Fiorirono ancora a questi tempi Giulio Caracciolo, di cui l'Andrea dice, che avea anche un discorso aggiustato, tal che pareva premeditato; non avea però molta facondia, ma suppliva col decoro e con certo contegno di cavaliere; e per la qualità della nascita prese gran nome tra la Nobiltà; ma morto quasi nel principio della sua carriera, fu più famoso per quel che si stimava che avrebbe fatto, che per quel che fece. Bartolommeo di Franco acquistò pur nome di grande Avvocato, ma solo nelle cause de' rei avea una maniera sua propria, colla quale parlava le tre e le quattro ore, senza però dispiacere; fu più famoso però per le minuzie, che osservava ne' processi, e per li difetti, che apparivano intorno l'ordine giudiciario, che per rappresentar bene la giustizia, che il più delle volte non avea; tal che il Consigliere Arias de Mesa soleva dire, ch'egli avrebbegli data una cattedra primaria de Ordine Judiciorum con duemila ducati di salario l'anno per istruire gli Avvocati e Proccuratori; ma gli avrebbe impedito l'uso dell'Avvocazione. Francesco Maria Prato credea essere un grand'Oratore; ma a giudicio dell'Andrea e di tutti gli altri, non potea riporsi nè anche tra' mediocri: avea egli una maniera affettata, ed un accento Leccese, che più tosto lo rendea ridicolo, benchè non gli mancasse dottrina, per quant'era necessario all'uso del Foro e dell'orare. Si pregiava di parlar Spagnuolo; onde due cause celebri, che si trattarono in Collaterale in presenza del Vicerè Duca d'Arcos, le parlò in lingua spagnuola: ciò che non s'era fatto da nessun altro prima, com'egli se ne pregia in uno de' suoi volumacci dati alle stampe; ma le perdè tutte due, ed una fu quella della Congregazione di S. Ivone, che la guadagnò l'Andrea, essendo ancor giovane d'età di 22 anni, contro i PP. Gesuiti, che volevano aprirne un'altra del medesimo istituto nella Casa professa, della quale il Reggente Capecelatro nel suo secondo tomo ne porta la decisione. Paolo Malangone pur presso il volgo s'acquistò fama d'un grand Oratore, per un suo discorsetto pulitino rappresentato con grata e piacevole voce, ma nudo affatto d'ogni dottrina, anche della più comunale; onde non si ravvisava in lui cosa, che non fosse sotto assai la mediocrità, non consistendo l'eloquenza nelle sole parole, ma assai più nel vigore e nella robustezza delle ragioni. Fabio Crivelli avea pure una vena abbondantissima, sicchè parlava le tre e le quattro ore senza stancarsi, e per far pompa della sua abilità solea ripetere tutto ciò che s'era detto dall'Avversario e spesso con maggior giro di parole, per poi doverlo confutare.

Più di costoro rilusse in questi medesimi tempi il famoso Giuseppe di Rosa, poi Consigliere, celebre per le sue dotte, e profonde opere legali, che ci lasciò. Alla molta sua dottrina accoppiò ancora il pregio di spiegar senza pampani e con proprietà di parole i suoi sensi; ma perchè gli spiegava in maniera, che pareva che più tosto insegnasse, che orasse, perciò comunemente fu reputato più dotto, ch'eloquente.

Ma sopra tutti costoro s'innalzò poi a questi medesimi tempi l'incomparabile Francesco d'Andrea, lume maggiore della gloria de' nostri Tribunali, al qual dobbiamo non solo d'aver egli restituita in quelli la vera arte d'orare; ma molto più, per avere nel nostro Foro introdotta l'erudizione, ed il disputar gli articoli legali secondo i veri principj della Giurisprudenza, e secondo l'interpetrazione de' più eruditi Giureconsulti, de' quali presso noi rara era la fama ed il nome, applicando la loro dottrina all'uso del Foro, ed alle nostre controversie forensi. Egli fu il primo, che facesse risuonare nelle Ruote del nostro S. C. il nome di Cujaccio, e degli altri Eruditi. Egli tolse ancora la barbarie nello scrivere; ed egli fu il primo, che cominciasse a dettare le allegazioni in culto stile, imitando i più purgati Scrittori, ed a disputar gli articoli, non già secondo lo vulgari maniere, ma da limpidissimi fonti delle leggi derivando le conclusioni, le adattava al caso, valendosi delle interpetrazioni di Cujaccio, e degli altri eruditi, non discompagnandole dalle comuni tradizioni de' Dottori, come si vede dalle sue prime allegazioni, che tra l'opere del Moccia41, e del Consigliere Staibano42, furono impresse.

Dal suo esempio furon poi mossi gli altri a trattar le cose istesse del nostro Foro con più pulitezza e candore: onde Marcello Marciano nipote del primo Marcello, e figliuolo del Reggente Gianfrancesco, che fu dal Conte di Castrillo fatto Giudice di Vicaria e dal Conte di Pennaranda creato Consigliere, e dal medesimo passato poi in Camera Avvocato Fiscale, donde nel principio del governo di D. Pietro Antonio d'Aragona andò Reggente in Ispagna: nel tempo che fu Fiscale distese alcune allegazioni, intitolate Exercitationes Fiscales, con molta pulitezza e candore; e nell'ozio, che ebbe nella Corte di Madrid, perfezionò alcuni altri trattati legali, come quello De Incendiariis, dove vengono, secondo il metodo tenuto dagli altri eruditi, interpetrate molte difficili, ed oscure leggi, che su questa materia s'adducono: siccome fece nell'altro intitolato De Indiciis delictorum; ma in nessun altro mostrò quanto sopra questi studj si fosse avanzato, quanto in quello, che intitolò de Prejudiciis, che dalla morte prevenuto non potè condurlo a fine, nel quale superò Giacomo Revardo, che prima di lui avea trattato del medesimo soggetto. Ma non avendo avuto egli il piacere di veder in sua vita perfezionate queste sue opere, essendo a' 28 ottobre 1670 morto in Ispagna, furono da poi date alla luce in Napoli da Gianfrancesco Marciano suo figliuolo nell'anno 1680, nel qual tempo il Consigliere Gennaro d'Andrea, poi Reggente, (il quale seguitando l'esempio del suo gran fratello Francesco, sopra molti si distinse ancora nello scrivere, per l'eleganza e pulitezza dello stile, come lo dimostrano le sue allegazioni) volle a quest'edizione far precedere una sua epistola al Lettore, nella quale commendando la dottrina e l'eleganza dello stile, non ebbe difficoltà di dire, che se morte non avesse interrotto il bel disegno, ed avesse dato tempo all'Autore di por l'ultima mano a queste, ed altre insigni sue opere, che meditava, Napoli non avrebbe che invidiare a' più famosi Giureconsulti dell'altre città d'Europa. nè la Savoja si compiacerebbe tanto del suo Fabro, nè la Francia del suo cotanto rinomato Cujaccio43.

Nè noi a questo insigne Giureconsulto Francesco d'Andrea dobbiamo solamente d'aver egli ne' nostri Tribunali introdotta l'erudizione, l'arte dell'orare ed il vero modo di disputar gli articoli legali e dello scrivere pulitamente, ma anche molto gli devono i Cattedratici, per aver egli pure nella nostra Università degli Studj proccurato, che la Giurisprudenza e l'altre scienze s'insegnassero con miglior metodo e dottrina di quello, che s'era praticato prima, secondo l'uso comunale e senz'alcuna erudizione. Alessandro Turamino, di cui si è favellato ne' precedenti libri avea lasciato un suo discepolo, che lo superò intorno al modo d'insegnare e d'interpretar le leggi: costui fu Giannandrea di Paolo, uomo eruditissimo ed oratore eccellente, da cui l'Andrea che gli fu discepolo si pregiava aver appresa la vera maniera d'intender le leggi per li loro principj, e di saper distinguere le vere opinioni de' nostri Dottori dalle false. Fin che visse, dice egli, nelli nostri studj fiorì il vero modo di insegnare e d'interpretare le leggi. Emmanuel Roderigo Navarro fiorì pure a questi tempi nella nostra Università occupando la Cattedra Primaria Vespertina di legge civile; e dopo lui, il cotanto famoso presso di noi Giulio Capone. Ma per contrario Giandomenico Coscia Lettor Calabrese44 che ne' medesimi tempi s'avea presso il volgo acquistata gran fama, e teneva un infinito numero di scolari, reggendo la Cattedra primaria mattutina de' Canoni, e ch'ebbe gran contese di precedenza col Navarro, avea avvilito il mestiere: costui goffo al segno maggiore, e privo d'ogni erudizione, insegnava scipitamente la legge a' nostri giovani. Tal che, morto Giannandrea di Paolo, era presso noi quasi ch'estinto il vero modo d'insegnare.

Ma restituiti da poi, come si disse, i pubblici Studj dal Conte d'Onnatte, il nostro Andrea proccurò, che ritrovandosi in quelli occupar la Cattedra delle Istituzioni D. Giambatista Cacace45, il quale per essere stato discepolo di Giannandrea di Paolo, insegnava quei primi elementi con maniera diversa dagli altri, con metodo ed erudizione, e secondo il modo tenuto dagli autori eruditi; ed insegnando parimente costui in questa Università la Rettorica con molto profitto degli ascoltatori, per essere versato nella lingua latina, e non meno in verso, che in prosa: proccurò l'Andrea per l'opinione, che a questi tempi s'avea acquistata, di accreditarlo maggiormente, e predicar il suo valore, e mandovvi da lui ad apprender le Istituzioni e la Rettorica Gennaro suo fratello, dal cui esempio mossi gli altri, fur poste in piedi due Cattedre ne' nostri Studj, quella delle Istituzioni e della Rettorica, concorrendovi gran numero di scolari ad apprenderle.

Parimente egli rimise in questa Università la cattedra di Matematica, e quel che fu più, proccurò, che l'occupasse Tommaso Cornelio famoso Filosofo e Medico di que' tempi, il quale insegnandola secondo il metodo tenuto da' migliori e più valenti Matematici, fece sì, che unita la sua opera a quella di M. Aurelio Severino, ancor egli famoso Filosofo e Medico di questi tempi, e Lettore primario de' nostri Studj (delle cui opere il Nicodemo46 tessè lunghi cataloghi), presso di noi pian piano cominciasser i nostri giovani ad aver buon gusto delle buone lettere, e della Filosofia, e della Medicina, e cominciassero a deporre gli antichi pregiudicj delle Scuole.

Nè contento questo insigne Giureconsulto di tutto ciò, per l'amicizia ch'e' si proccurò di que' pochi veri letterati, che fiorivano a' suoi tempi, d'Ottavio di Felice, vecchio assai erudito, e che avea consumata quasi tutta la sua vita nello studio della lingua greca e della morale d'Aristotele: di D. Camillo Colonna, uomo eruditissimo, di sublime intendimento, e gran Filosofo: del cotanto appresso noi rinomato Camillo Pellegrino, e d'alcuni pochi altri: avea egli assai più distese queste cognizioni, e proccurato, per mezzo della sua eloquenza, diffonderle in altri; ed essendo a questi tempi, come si è detto, opportunamente venuto in Napoli Tommaso Cornelio, a cui Napoli deve tutto ciò, che ora si sa di più verisimile nella Filosofia e nella Medicina, l'Andrea fu il primo che abbracciasse quella maniera da colui proposta di filosofare, ed il Cornelio per mezzo suo fece venire in Napoli l'opere di Renato delle Carte, di cui sino a quel tempo n'era stato presso noi incognito il nome; tal ch'essendosi restituita nel medesimo tempo l'Accademia degli Oziosi sotto il Governo del Duca di San Giovanni, dov'esercitavansi gli Accademici in recitarvi varie lezioni, egli fra l'altre ne recitò due, che per la novità diede molto che dire, nell'una delle quali dimostrò su quali deboli fondamenti s'appoggiasse la volgar Filosofia delle Scuole, e nell'altra quanto dovesse per conseguenza esser preferita la novella maniera di filosofare. E quantunque essendo poc'anni da poi soppravvenuto il contagio, bisognasse tralasciare tutti questi studj, nulladimanco quello poi cessato, e restituite le cose allo stato primiero, si ripigliaron da lui con maggior fervore e con maggior successo: poichè cresciuto assai più in opinione ed autorità, ebbe molti, che lo seguirono, tanto che poi, col correr degli anni, si videro presso noi introdotte e stabilite le buone lettere in tutte le discipline, nella maniera, che sarà narrata ne' seguenti libri di quest'Istoria.

CAPITOLO V
Politia delle nostre Chiese di questi tempi, insino al Regno di Carlo II

Ne' Regni di Filippo III e IV siccome si è potuto osservare da' precedenti libri, si regolavano presso noi gli Ecclesiastici affari, secondo le varie mutazioni delle Corti. I Pontefici Romani pur troppo intrigati negl'interessi de' Principi, dando ora timore, ora gelosia, costringevan quelli ad usar tutti i mezzi perchè pendessero dal lor partito. Si erano ancora intrigati a maneggiar essi le paci tra' Principi guerreggianti, riputando esser proprio lor ufficio, come comuni Padri e Pastori di ridurgli a concordia: quindi spedivano Nunzj e Legati per trattarle e s'arrogavano grand'autorità nelle composizioni. Ma il Cardinal Mazzarini ruppe ogni velo, e ad onta del Pontefice Alessandro VII non volle accettare la di lui mediazione nella pace de' Pirenei, nella quale non permise, che altri, ch'egli, e D. Luigi di Haro v'avessero parte: ciò, che sensibilmente trafisse l'animo di quel Pontefice e della sua Corte; essendosi da quest'esempio poi veduto, che nell'altre paci seguite in appresso tra' Principi d'Europa, le meno considerate furono le mediazioni ed interposizioni de' Nunzj della Corte Romana.

Secondo la buona corrispondenza, ovver poca soddisfazione, che passava tra la Corte di Spagna con quella di Roma, si regolavano da' nostri Vicerè le contese giurisdizionali. Non si soffrivan torti, quando erano in urta e si resisteva con più vigore e fortezza all'intraprese. Quando per la poca soddisfazione, che i Ministri Spagnuoli ricevevano dalla Corte di Roma furono spediti da Madrid il Vescovo di Cordova, e D. Giovanni Chiumazzero al Pontefice Urbano VIII con segrete istruzioni di minacciargli la convocazione d'un nuovo Concilio, affinchè togliesse i molti aggravj, che s'inferivano ne' Regni di Spagna dalla Corte di Roma per le pensioni che imponeva a favor degli stranieri e per l'eccessiva quantità delle medesime, anche sopra i beneficj curati: per le Coadjutorie con futura successione: per le resignazioni de' beneficj curati: per le dispense ed altre provvisioni, che venivano da Roma, e per le gravi spese, che s'estorquevan per la loro spedizione: per le reservazioni de' beneficj: per gli spogli crudeli, che si praticavano nella morte dei Prelati: per le vacanze de' Vescovadi e per le altre intollerabili gravezze, ch'esercitava in que' Regni la Nunziatura di Spagna47: non minori gravezze soffriva il nostro Regno dalla Nunziatura di Napoli.

Deludendosi le concordie passate co' Capitoli e Cleri di tutte le Chiese Cattedrali, ed interpetrandole a lor modo, le tasse s'esigevan con molto rigore ed ingiustizia; poichè provvisti dalla Dataria molti di quei benefici, ch'erano stati compresi nella tassa, in persona di Cardinali e d'altri Prelati di quella Corte, riputati immuni da tutte le gravezze, venivano a sostener tutto il peso i rimanenti beneficj. Continuava pure la Camera Appostolica a far crudeli spogli nelle morti de' Vescovi, Abati e degli altri Beneficiati non inclusi nella convenzione, con tanta asprezza de' Commessarj, che in tempo della loro infermità, e quando aveano maggior bisogno di conforto e d'assistenza, si vedevano co' proprj occhi saccheggiate le loro stanze e spogliati di tutto ciò che tenevano. Negli spogli de' Vescovadi, Badie ed altri Beneficj non compresi nella concordia, si facevan lecito i Nunzj di procedere contro i laici, imputati d'aver occupati beni appartenenti alle Chiese o Beneficj vacanti, ed alla Camera Appostolica per cagion di tali spogli, con propria autorità sequestrandogli per mezzo de' suoi Commessarj e di scomunicare i possessori e tutti coloro, che in ciò loro avessero dato impedimento.

Erano ancora insoffribili le gravi estorsioni, che si facevano nel lor Tribunale, esigendo da' litiganti e da tutti coloro, che aveano di essi bisogno, sotto pretesto di diritti e sportule, eccessive somme più di quello, che si pratica negli altri Tribunali Regj della città e del Regno; e la cagione dell'eccesso veniva, perchè la Corte di Roma vuol tener molti Ministri in quel Tribunale, ma non vuol pagargli del proprio con assegnamento di provvisione, o soldo, come si pratica negli altri Tribunali; ma vuol che se lo procaccino essi dagli emolumenti de' diritti, o propine; onde avveniva, che i poveri litiganti erano escoriati insino all'ossa dalla rapacità ed ingordigia de' Curiali. Non minore era il disordine ed il pregiudicio, che si apportava alla Regal Giurisdizione per l'infinito numero de' laici, che dalla città e da tutte le Diocesi del Regno, pretendevansi sottrarre dalla giurisdizione del Re con farsi ascrivere, per mezzo di loro patenti, al servigio di questo Tribunale, chi per Attuarj, chi per Cursori, onde si commettevano infinite frodi, e n'esenzionavano moltissimi, non per bisogno che n'avessero, ma per maggior smaltimento delle loro patenti, che vendevano a carissimo prezzo, persuadendo, che fossero di tal virtù ed efficacia, che gli rendessero esenti dal Foro laicale, e che per ciò dovessero esser franchi ed immuni da qualunque pagamento così Regio, come delle Università. Pretendevano ancora i Nunzj, che tutti della lor famiglia così armata, come domestica, e del lor Palazzo fossero immuni ed esenti dalla Regal Giurisdizione; onde nacquero per ciò fra noi disordini gravissimi, e sovente i nostri Vicerè ebbero a contrastar per questa immunità pretesa da' lor familiari, non pure con gli Arcivescovi, ma eziandio coi Nunzj, i quali, anche per delitti gravissimi, prendevan protezione de' ribaldi, sol perchè erano della famiglia del lor palazzo.

Fecero valere i nostri Vicerè i Regali diritti con molta fortezza e vigore per tutto il tempo, che durarono le male soddisfazioni d'ambedue le Corti, e mentre durò la missione del Vescovo di Cordova e del Chiumazzero; ma il Pontefice Urbano punendo, come si disse, l'affare in trattati, che faceva prolongare con varie difficoltà, profittossi del tempo; poichè gli Spagnuoli, sempre più percossi da maggiori sciagure, furono costituiti in istato di non doversi maggiormente disgustare la Corte di Roma; onde riuscita vana la lor missione, rimasero, non pure in Ispagna, ma nel nostro Regno le gravezze, che dal Tribunal della Nunziatura erano a noi cumulate; e gli Ecclesiastici più arditi, che mai, non tralasciavano di tentar delle nuove intraprese supra la Regal Giurisdizione.

Per lo gran numero delle Chiese, e per li frequenti delitti, che succedevano nella città e nel Regno, fu riputato di doversi trovar compenso agl'intollerabili abusi della pretesa immunità delle Chiese cotanto dagli Ecclesiastici ingrandita, e della quale si mostravano ora più che mai forti difensori, nell'istesso tempo, che conoscevano la principal cagione di tanti delitti esser l'immunità delle Chiese così stranamente estesa, che rendeva più baldanzosi i ribaldi a commettergli. Si pensò spedir in Roma il Consigliere Antonio di Gaeta per ottener dal Pontefice qualche riforma alla Bolla di Gregorio; ma, come si è veduto, riuscì pure questa missione inutile e senz'effetto, profittandosi la Corte di Roma delle nostre sciagure, e della debolezza, nella quale vedeva allora essersi ridotta la Corte di Spagna.

41.Moccia Silva, etc.
42.Staiban. tom. 2.
43.V. Nicod. Addiz. alla Bibl. del Toppi, p. 163.
44.V. Toppi Biblioth. in Gio. Domenico Coscia.
45.V. Toppi Biblioth. pag. 130.
46.Nicodem. ad Bibl. Toppi, fol. 167.
47.V. il Memoriale di Chiumazzero al P. Urbano, etc.
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