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Kitobni o'qish: «Il Corsaro Nero», sahifa 5

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CAPITOLO VII. UN DUELLO FRA GENTILUOMINI

La colazione, contrariamente alle previsioni di Carmaux, fu poco allegra ed il buon umore mancò, non ostante quell’eccellente prosciutto, il formaggio piccante e le bottiglie del povero notaio.

Tutti cominciavano a diventare inquieti per la brutta piega che prendevano gli avvenimenti, a causa di quel disgraziato giovanotto e del suo matrimonio. La sua sparizione misteriosa, unitamente a quella del servo, non avrebbe di certo mancato di spaventare i parenti ed erano da aspettarsi presto delle nuove visite di servi o di amici, o, peggio ancora, di soldati o di qualche giudice o di qualche alguazil.

Quello stato di cose non poteva assolutamente durare a lungo. I filibustieri avrebbero fatto ancora altri prigionieri, ma poi sarebbero certamente venuti i soldati, e non uno alla volta per farsi prendere.

Il Corsaro ed i suoi due marinai avevano ventilati parecchi progetti, ma nemmeno uno era sembrato buono. La fuga per il momento era assolutamente impossibile; sarebbero stati di certo riconosciuti, arrestati e senz’altro appiccati come il povero Corsaro Rosso ed i suoi sventurati compagni. Bisognava attendere la notte; era però poco probabile che i parenti del giovanotto dovessero lasciarli tranquilli.

I tre filibustieri, ordinariamente cosí fecondi di trovate e di astuzie al pari di tutti i loro compagni della Tortue, si trovavano in quel momento completamente imbarazzati.

Carmaux aveva suggerita l’idea di indossare le vesti dei prigionieri e di uscire audacemente, ma si era subito accorto dell’impossibilità di realizzare il suo piano, non potendosi utilizzare il costume del giovanotto, perché nessuno avrebbe potuto indossarlo, e poi la cosa era stata giudicata troppo pericolosa, coi soldati che battevano le campagne vicine. Il negro era invece tornato alla sua prima idea, cioé di recarsi ad acquistare delle divise di alabardieri o di moschettieri; anche questo per il momento era stato scartato, essendo costretti ad aspettare la notte per poterla effettuare con qualche successo.

Stavano pensando e ripensando per scovare qualche nuovo progetto, che fornisse loro il mezzo di uscire da quella situazione, che diveniva di minuto in minuto piú imbarazzante e pericolosa, quando un terzo individuo venne a battere alla porta del notaio.

Questa volta non si trattava di un servo, bensí d’un gentiluomo castigliano, armato di spada e di pugnale, qualche parente forse del giovanotto o qualcuno dei padrini.

– Tuoni! – esclamò Carmaux. – È una processione di gente che viene a questa dannata casa!… Prima il giovanotto, poi un servo, ora un gentiluomo, piú tardi sarà il padre dello sposo, poi i padrini, gli amici eccetera. Finiremo per fare il matrimonio qui!…

Il castigliano, vedendo che nessuno si era affrettato ad aprire, aveva cominciato a raddoppiare i colpi, alzando e lasciando cadere senza posa il pesante battente di ferro. Quell’uomo doveva essere certo poco paziente e probabilmente ben piú pericoloso del giovanotto e del servo.

– Và, Carmaux, – disse il Corsaro.

– Temo però, comandante, che non sia cosa facile prenderlo e legarlo Quell’uomo è solido, ve lo assicuro, ed opporrà una resistenza disperata.

– Ci sarò anch’io e tu sai che le mie braccia sono robuste.

Il Corsaro, avendo visto in un angolo della stanza una spada, qualche vecchia arma di famiglia che il notaio aveva conservata, l’aveva presa e dopo avere provata l’elasticità della lama se l’era appesa al fianco, mormorando:

– Acciaio di Toledo: darà da fare al castigliano.

Carmaux ed il negro avevano in quel frattempo aperta la porta che minacciava di venire sfondata sotto i furiosi ed incessanti colpi del battente ed il gentiluomo era entrato collo sguardo crucciato, la fronte aggrottata e la sinistra sulla guardia della spada, dicendo con voce collerica:

– Occorre il cannone qui, per farsi aprire?…

Il nuovo venuto era un bell’uomo sulla quarantina, alto di statura, robusto, dal tipo maschio ed altero, con due occhi nerissimi ed una folta barba pure nera, che gli dava un aspetto marziale.

Indossava un elegante costume spagnuolo di seta nera e calzava alti stivali di pelle gialla, colle trombe dentellate, e speroni.

– Perdonate signore, se abbiamo tardato, – rispose Carmaux, inchinandosi grottescamente dinanzi a lui, – ma eravamo occupatissimi.

– A fare che cosa? – chiese il castigliano.

– A curare il signor notaio.

– È ammalato forse?

– È stato preso da una potentissima febbre, signore.

– Chiamatemi conte, furfante.

– Scusatemi signor conte; io non avevo l’onore di conoscervi.

– Andatevene al diavolo!… Dov’è mio nipote?… Sono due ore che è venuto qui.

– Noi non abbiamo veduto nessuno.

– Tu vuoi burlarti di me!… Dov’è il notaio?…

– È a letto, signore.

– Conducimi subito da lui.

Carmaux che voleva attirarlo in fondo al corridoio prima di fare segno al negro di porre in opera la sua prodigiosa forza muscolare, si mise innanzi al castigliano; poi, appena giunse alla base della scala, si volse bruscamente, dicendo:

– A te, compare!

Il negro si gettò rapidamente sul castigliano; questi, che si teneva probabilmente in guardia e che possedeva un’agilità da dare dei punti ad un marinaio, con un solo salto varcò i tre primi gradini, scartando Carmaux con un urto violento e snudò risolutamente la spada gridando:

– Ah!… Mariuoli!… Che cosa significa questo attacco? Ora vi taglierò gli orecchi!…

– Se volete sapere che cosa significa questo attacco, ve lo spiegherò io, signore, – disse una voce.

Il Corsaro Nero era comparso improvvisamente sul pianerottolo, colla spada in pugno, ed aveva cominciato a scendere i primi gradini.

Il castigliano si era voltato senza però perdere di vista Carmaux ed il negro, i quali si erano ritirati in fondo al corridoio, mettendosi di guardia dinanzi alla porta. Il primo aveva impugnata la lunga navaja ed il secondo s’era armato di una traversa di legno, arma formidabile nelle sue mani.

– Chi siete voi, signore? – chiese il castigliano senza manifestare il minimo timore. – Dalle vesti che indossate vi si potrebbe credere un gentiluomo, ma l’abito non fa sempre il monaco o potreste esser anche qualche bandito.

– Ecco una parola che potrebbe costarvi cara, mio gentiluomo, – rispose il Corsaro.

– Bah!… Lo si vedrà piú tardi.

– Siete coraggioso, signore; tanto meglio. Vi consiglierei però di deporre la spada e di arrendervi.

– A chi?…

– A me.

– Ad un bandito che tende un agguato per assassinare a tradimento le persone?…

– No, al cavaliere Emilio di Roccanera, signore di Ventimiglia.

– Ah!… Voi siete un gentiluomo!… Vorrei almeno sapere allora perché il signore di Ventimiglia cerca di farmi assassinare dai suoi servi.

– È una supposizione affatto vostra, signore; nessuno ha mai pensato ad assassinarvi. Si voleva disarmarvi e tenervi prigioniero per qualche giorno e nient’altro.

– E per quale motivo?

– Onde impedirvi di avvertire le autorità di Maracaybo che qui mi trovo io, – rispose il Corsaro.

– Forse che il signor di Ventimiglia ha dei conti da regolare colle autorità di Maracaybo?

– Non sono troppo amato da loro o meglio da Wan Guld, il quale sarebbe troppo felice di avermi in sua mano, come io sarei ben lieto di averlo in mio potere.

– Non vi comprendo signore, – disse il castigliano.

– Ciò non vi interessa. Orsú, volete arrendervi?

– Oh!… E voi lo pensate! Un uomo di spada cedere senza difendersi?

– Allora mi costringete ad uccidervi. Non posso permettervi di andarvene, o io ed i miei compagni saremmo perduti.

– Ma chi siete voi infine?

– Dovreste ormai averlo indovinato: noi siamo filibustieri della Tortue. Signore, difendetevi, perché ora vi ucciderò.

– Lo credo dovendo fare fronte a tre avversari.

– Non preoccupatevi di loro, – disse il Corsaro, indicando Carmaux ed il negro. – Quando il loro comandante si batte hanno l’abitudine di non immischiarsene.

– In tal caso spero di mettervi presto fuori di combattimento. Voi non conoscete ancora il braccio del conte di Lerma.

– Come voi non conoscete quello del signore di Ventimiglia. Conte, difendetevi!…

– Una parola se me lo permettete. Che cosa avete fatto di mio nipote e del suo domestico?

– Sono prigionieri assieme al notaio, ma non inquietatevi per loro. Domani saranno liberi e vostro nipote potrà impalmare la sua bella.

– Grazie, cavaliere.

Il Corsaro Nero s’inchinò lievemente, poi scese rapidamente i gradini ed incalzò il castigliano con tanta furia, che questi fu costretto a retrocedere di due passi.

Per alcuni istanti nell’angusto corridoio si udí solo lo stridore dei ferri. Carmaux ed il negro, appoggiati contro la porta, colle braccia incrociate assistevano al duello senza parlare, cercando di seguire cogli sguardi il fulmineo guizzare delle lame. Il castigliano si batteva splendidamente, da spadaccino valente, parando con grande sangue freddo e vibrando stoccate bene dirette; dovette ben presto convincersi però d’avere dinanzi un avversario dei piú terribili e che possedeva dei muscoli d’acciaio.

Dopo le prime botte, il Corsaro Nero aveva riacquistata la sua calma. Non attaccava che di rado, limitandosi a difendersi come se volesse prima stancare l’avversario e studiare il suo gioco. Fermo sulle sue gambe nervose, col corpo diritto, la mano sinistra avanzata orizzontalmente, gli occhi lampeggianti, pareva che giocasse.

Invano il castigliano aveva cercato di spingerlo verso la scala colla segreta speranza di farlo cadere, vibrandogli una tempesta di stoccate. Il Corsaro non aveva fatto un solo passo indietro ed era rimasto irremovibile fra quello scintillio della lama, ribattendo i colpi con una rapidità prodigiosa, senza uscire di linea.

D’improvviso però si slanciò a fondo. Battere di terza la lama dell’avversario con un colpo secco, legarla di seconda e fargliela cadere al suolo, fu un colpo solo.

Il castigliano, trovandosi inerme, era diventato pallido e si era lasciato sfuggire un grido. La punta scintillante della lama del Corsaro rimase un istante tesa, minacciandogli il petto, poi subito si rialzò.

– Voi siete un valoroso, – disse, salutando l’avversario. – Voi non volevate cedere la vostra arma: ora io me la prendo, ma vi lascio la vita.

Il castigliano era rimasto immobile col piú profondo stupore scolpito in viso. Gli sembrava forse impossibile di trovarsi ancora vivo. Ad un tratto fece rapidamente due passi innanzi e tese la destra al Corsaro, dicendo:

– I miei compatrioti dicono che i filibustieri sono uomini senza fede, senza legge, dediti solamente al ladronaggio di mare; io posso ora dire come fra costoro si trovano anche dei valorosi, che in fatto di cavalleria e di generosità possono dare dei punti ai piú compiti gentiluomini d’Europa. Signor cavaliere, ecco la mia mano: grazie!…

Il Corsaro gliela strinse cordialmente, poi raccogliendo la spada caduta e porgendola al conte rispose:

– Conservate la vostra arma, signore; a me basta che voi mi promettiate di non adoperarla, fino a domani, contro di noi.

– Ve lo prometto, cavaliere, sul mio onore.

– Ora lasciatevi legare senza opporre resistenza. Mi rincresce dovere ricorrere a questa necessità; ma non posso farne a meno.

– Fate quello che credete.

Ad un cenno del Corsaro, Carmaux si avvicinò al castigliano e gli legò le mani, poi lo affidò al negro, il quale s’affrettò a condurlo nella stanza superiore a tenere compagnia al nipote, al servo ed al notaio.

– Speriamo che la processione sia finita, – disse Carmaux, rivolgendosi verso il Corsaro.

– Io credo invece che fra poco altre persone verranno ad importunarci, – rispose il capitano. – Tutte queste misteriose sparizioni non tarderanno a creare dei gravi sospetti fra i familiari del conte e del giovanotto, e le autorità di Maracaybo vorranno immischiarsene. Noi faremo bene a barricare le porte e prepararci alla difesa. Hai osservato se vi sono armi da fuoco in questa casa?…

– Ho trovato nel granaio un archibugio e delle munizioni, oltre ad una vecchia alabarda arrugginita ed una corazza.

– Il fucile potrà servirci.

– E come potremo resistere, comandante, se i soldati verranno ad assalire la casa?…

– Lo si vedrà poi; ti assicuro che, vivo, Wan Guld non mi avrà mai!… Orsú, prepariamoci alla difesa. Piú tardi, se avremo tempo, penseremo alla colazione.

Il negro era tornato, lasciando Wan Stiller a guardia dei prigionieri. Messo al corrente di ciò che si doveva fare, si mise alacremente all’opera.

Aiutato da Carmaux, portò nel corridoio tutti i mobili piú pesanti e piú voluminosi della casa, non senza provocare, da parte del povero notaio, una sequela di proteste affatto inutili. Casse, armadi, tavoli massicci, canterani furono accumulati contro la porta, in modo da barricarla completamente.

Non contenti, i filibustieri rizzarono con altre casse ed altri mobili una seconda barricata alla base della scala, per potere contrastare il passo agli assalitori, nel caso che la porta non avesse potuto piú resistere.

Avevano appena terminati quei preparativi di difesa, quando videro Wan Stiller scendere la scala a precipizio.

– Comandante, – disse, – nella viuzza si sono aggruppati parecchi cittadini e tutti guardano verso questa casa. Io credo che ormai si siano accorti che qui succedono delle misteriose sparizioni d’uomini.

– Ah!… – si limitò ad esclamare il Corsaro, senza che un muscolo del suo viso si fosse alterato.

Salí tranquillamente la scala e si affacciò alla finestra che dominava la viuzza tenendosi nascosto dietro le persiane.

Wan Stiller aveva detto il vero. Una cinquantina di persone, divise in vari gruppetti, ingombravano l’opposta estremità della viuzza. Quei borghesi parlavano con animazione e s’indicavano vicendevolmente la casa del notaio, mentre alle finestre delle case vicine si vedevano apparire e scomparire gli inquilini.

– Ciò che temevo sta per succedere, – mormorò il Corsaro, aggrottando la fronte. – Orsú, se devo morire anch’io in Maracaybo, cosí doveva essere scritto sul libro del mio destino. Poveri fratelli miei, caduti forse invendicati!… Oh!… Ma la morte non è ancora giunta e la fortuna protegge i filibustieri della Tortue… Carmaux, a me!…

Il marinaio sentendosi chiamare non aveva indugiato ad accorrere, dicendo:

– Eccomi, mio comandante.

– Tu mi hai detto d’aver trovato delle munizioni.

– Un barilotto di polvere della capacità di otto o dieci libbre, signore.

– Lo collocherai nel corridoio, dietro la porta e vi metterai una miccia.

– Lampi!… Faremo saltare la casa?

– Sí, se sarà necessario.

– Ed i prigionieri?

– Peggio per loro se i soldati vorranno prenderci. Noi abbiamo il diritto di difenderci e lo faremo senza esitare.

– Ah!… Eccoli… – esclamò Carmaux che teneva gli occhi fissi sulla viuzza.

– Chi?

– I soldati, comandante.

– Va’ a prendere il barile, poi verrai a raggiungermi assieme a Wan Stiller. Non dimenticare l’archibugio.

Alla estremità della viuzza era comparso un drappello di archibugieri comandati da un tenente e seguito da un codazzo di curiosi. Erano due dozzine di soldati, perfettamente equipaggiati come se si recassero alla guerra, con fucili, spade e misericordie alla cintura.

Accanto al tenente, il Corsaro scorse un vecchio signore, dalla barba bianca, armato di spada, e sospettò che fosse qualche parente del conte o del giovanotto. Il drappello si fece largo fra i borghesi che ingombravano la viuzza e fece alt a dieci passi dalla casa del notaio, disponendosi su una triplice linea e preparando i fucili come se dovessero aprire senz’altro il fuoco.

Il tenente osservò per alcuni istanti le finestre, scambiò alcune parole col vecchio che gli stava vicino, poi si avvicinò risolutamente alla porta e lasciò cadere il pesante martello, gridando:

– In nome del Governatore, aprite!…

– Siete pronti, miei prodi? – chiese il Corsaro.

– Siamo pronti, signore, – risposero Carmaux, Wan Stiller ed il negro.

– Voi rimarrete con me e tu, mio bravo africano, sali al piano superiore e guarda se puoi scoprire qualche abbaino che ci permetta di fuggire sui tetti.

Ciò detto aprí le imposte e curvandosi sul davanzale, chiese:

– Che cosa desiderate, signore?…

Il tenente vedendo comparire, in luogo del notaio, quell’uomo dai lineamenti arditi, con quell’ampio cappello nero adorno della lunga piuma nera, era rimasto immobile guardandolo con stupore.

– Chi siete voi? – gli chiese, dopo qualche istante. – Io domando del notaio.

– Per lui rispondo io, non potendo egli muoversi, per il momento.

– Allora apritemi: ordine del Governatore.

– E se io non volessi?

– In tal caso non risponderei delle conseguenze. Sono accadute delle cose assai strane in questa casa, mio gentiluomo, ed ho avuto l’ordine di sapere che cosa è avvenuto del Signor Pedro Conxevio, del suo servo, e di suo zio, il conte di Lerma.

– Se vi preme di saperlo, vi dirò che sono in questa casa vivi tutti, anzi di buon umore.

– Fateli scendere.

– È impossibile, signore, – rispose il Corsaro.

– Vi intimo di obbedire o farò sfasciare la porta.

– Fatelo, vi avverto però che dietro la porta ho fatto collocare un barilotto di polvere e che al primo vostro tentativo di forzarla, io darò fuoco alla miccia e farò saltare la casa assieme al notaio, al signor Conxevio al servo ed al conte di Lerma. Ora provatevi, se l’osate!…

Udendo quelle parole pronunciate con voce calma, fredda, recisa e con tono da non ammettere alcun dubbio sulla terribile minaccia, un fremito di terrore aveva scossi i soldati ed i curiosi che li avevano seguiti, anzi parecchi di questi si erano affrettati a prendere il largo, temendo che la casa fosse lí lí per saltare in aria. Perfino il tenente aveva fatto involontariamente alcuni passi indietro.

Il Corsaro era rimasto tranquillamente alla finestra come se fosse un semplice spettatore, non perdendo però di vista gli archibugi dei soldati mentre Carmaux e Wan Stiller, che si trovavano dietro di lui, spiavano le mosse dei vicini, i quali erano accorsi in massa sulle terrazze e sui poggiuoli.

– Ma chi siete voi? – chiese finalmente il tenente.

– Un uomo che non vuol essere disturbato da chicchessia, nemmeno dagli ufficiali del governatore, – rispose il Corsaro.

– Vi intimo di dirmi il vostro nome.

– A me non garba affatto.

– Vi costringerò.

– Ed io farò saltare la casa.

– Ma voi siete pazzo.

– Quanto lo siete voi.

– Ah! Insultate?

– Niente affatto, signor mio, rispondo.

– Finitela!… Lo scherzo è durato troppo.

– Lo volete? Ehi, Carmaux… Và a mettere fuoco al barile di polvere!…

CAPITOLO VIII. UNA FUGA PRODIGIOSA

Udendo quel comando un immenso urlo di terrore si era alzato non solo fra la folla dei curiosi, ma anche fra i soldati. Soprattutto i vicini e non a torto, poiché saltando la casa del notaio sarebbero di certo crollate anche quelle occupate da loro, urlavano a squarciagola, come già si sentissero mandare in aria dallo scoppio.

Borghesi e soldati si erano affrettati a sgombrare mettendosi in salvo all’estremità della viuzza, mentre i vicini si precipitavano all’impazzata giú dalle scale, cercando di portare con loro almeno gli oggetti piú preziosi. Tutti ormai erano certi che quell’uomo, qualche pazzo secondo alcuni, dovesse davvero mettere in esecuzione la terribile minaccia.

Solo il tenente era rimasto coraggiosamente al suo posto, ma dagli sguardi ansiosi che lanciava verso la casa, si poteva comprendere che se fosse stato solo, o non avesse avuti quei galloni di comandante, non si sarebbe di certo fermato colà.

– No!… Fermatevi, signore!… – aveva gridato. – Siete pazzo?

– Desiderate qualche cosa? – gli chiese il Corsaro, colla sua solita voce tranquilla.

– Vi dico di non mettere in esecuzione il vostro triste progetto.

– Volentieri, purché mi lasciate tranquillo.

– Lasciate in libertà il conte di Lerma e gli altri e vi prometto di non seccarvi.

– Lo farei volentieri se voleste accettare prima le mie condizioni.

– Quali sarebbero?

– Di fare ritirare le truppe, innanzi tutto.

– Poi?

– Procurare, a me ed ai miei compagni, un salvacondotto firmato dal Governatore, per poter lasciare la città senza venire disturbati dai soldati che battono la campagna.

– Ma chi siete voi, per avere bisogno di un salvacondotto?… – chiese il tenente, il cui stupore aumentava insieme ai sospetti.

– Un gentiluomo d’oltremare, – rispose il Corsaro, con nobile fierezza.

– Allora non vi necessita alcun salvacondotto per lasciare la città.

– Al contrario.

– Ma allora voi avete qualche delitto sulla coscienza. Ditemi il vostro nome, signore.

In quell’istante un uomo che portava attorno al capo una pezzuola macchiata in piú luoghi di sangue e che si avanzava penosamente, come se avesse una gamba storpiata, giunse presso il tenente.

Carmaux, che si teneva sempre dietro il Corsaro, spiando i soldati, lo vide ed un grido gli sfuggí.

– Lampi!… – esclamò.

– Che cos’hai, mio bravo? – chiese il Corsaro volgendosi vivamente.

– Noi stiamo per venire traditi, comandante. Quell’uomo è uno dei biscaglini che ci hanno assaliti colle navaje.

– Ah!… – fece il Corsaro, alzando le spalle.

Il biscaglino, poiché era proprio uno di quelli che avevano assistito al duello della taverna e che poi avevano aggredito i filibustieri coi loro smisurati coltelli, si volse verso il tenente, dicendogli:

– Voi volete sapere chi è quel gentiluomo dal feltro nero, è vero?

– Sí, – rispose il tenente. – Lo conosci tu?

– Carrai!… È stato uno dei suoi uomini che mi ha conciato in questo modo. Signor tenente, badate che non vi sfugga!… Egli è uno dei filibustieri!…

Un urlo, ma questa volta non piú di spavento, bensí di furore, scoppiò da tutte le parti, seguito da uno sparo e da un grido di dolore. Carmaux, ad un cenno del Corsaro, aveva alzato rapidamente il moschettone, e con una palla ben aggiustata aveva abbattuto il biscaglino.

Era troppo!… Venti archibugi si alzarono verso la finestra occupata dal Corsaro, mentre la folla urlava a squarciagola:

– Accoppate quelle canaglie!…

– No, prendeteli ed appiccateli sulla plaza.

– Arrostiteli vivi!…

– A morte!… A morte!…

Il tenente con un rapido gesto aveva fatto abbassare i fucili, e spintosi sotto la finestra, disse al Corsaro, che non si era mosso dal suo posto, come se tutte quelle minacce non lo riguardassero:

– Mio gentiluomo, la commedia è finita: arrendetevi!

Il Corsaro rispose con un’alzata di spalle.

– Mi avete capito? – gridò il tenente, rosso di collera.

– Perfettamente, signore.

– Arrendetevi o farò abbattere la porta.

– Fatelo, – rispose freddamente il Corsaro. – Vi avverto solo che il barile di polvere è pronto e che farò saltare la casa assieme ai prigionieri.

– Ma salterete anche voi!

– Bah!… Morire in mezzo al rimbombo delle fumanti rovine è da preferirsi alla morte ignominiosa, che voi mi fareste subire dopo la mia resa.

– Vi prometto salva la vita.

– Delle vostre promesse non so che cosa farne, poiché so che cosa valgono. Signore, sono le sei pomeridiane ed io non ho ancora fatta colazione. Mentre decidete sul da farsi, andrò a mangiare un boccone assieme al conte di Lerma ed a suo nipote e faremo il possibile per vuotare un bicchiere alla sua salute, se la casa non salterà in aria prima.

Ciò detto il Corsaro si levò il cappello, salutandolo con perfetta cortesia e rientrò lasciando il tenente, i soldati e la folla piú stupiti e piú imbarazzati che mai.

– Venite, miei bravi, – disse il Corsaro a Carmaux e a Wan Stiller. – Credo che avremo il tempo necessario per scambiare due chiacchiere.

– E quei soldati? – chiese Carmaux, che non era meno stupito degli spagnuoli per il sangue freddo e l’audacia, assolutamente fenomenali del comandante.

– Lasciamoli gridare se lo vogliono.

– Andiamo a fare la cena della morte adunque, mio capitano.

– Bah!… L’ultima nostra ora è piú lontana di quello che tu credi, – rispose il Corsaro. – Aspetta che calino le tenebre e tu vedrai quel barilotto di polvere fare dei miracoli.

Entrò nella stanza senza spiegarsi di piú, andò a tagliare le corde che imprigionavano il conte di Lerma ed il giovanotto e li invitò a sedersi al desco improvvisato, dicendo loro:

– Tenetemi compagnia, conte, ed anche voi, giovanotto; conto però sulla vostra parola di nulla tentare contro di noi.

– Sarebbe impossibile intraprendere qualche cosa, cavaliere, – rispose il conte sorridendo. – Mio nipote è inerme e poi so ormai quanto sia pericolosa la vostra spada. E cosí, che cosa fanno i miei compatrioti?… Ho udito un baccano assordante.

– Per ora si limitano ad assediarci.

– Mi rincresce dirvelo, ma temo, cavaliere, che finiranno coll’abbattere la porta.

– Io credo il contrario, conte.

– Allora vi assedieranno e presto o tardi vi costringeranno alla resa. Vivaddio! Vi assicuro che mi dispiacerebbe di vedere un uomo cosí valoroso ed amabile come siete voi, nelle mani del Governatore. Quell’uomo non perdona ai filibustieri.

– Wan Guld non mi avrà. È necessario che io viva per saldare un vecchio conto che ho da regolare con quel fiammingo.

– Lo conoscete?

– L’ho conosciuto per mia sventura, – disse il Corsaro, con un sospiro. – E stato un uomo fatale per la mia famiglia e se sono diventato filibustiere lo devo a lui. Orsú, non parliamo piú di ciò; tutte le volte che penso a lui io mi sento il sangue saturarsi d’odio implacabile, e divento triste come un funerale. Bevete, conte. Carmaux, che cosa fanno gli spagnuoli?

– Stanno confabulando tra di loro, comandante, – rispose il filibustiere che tornava allora dalla finestra. – Pare che non sappiano decidersi ad assalirci.

– Lo faranno piú tardi, ma forse noi allora non saremo piú qui. Veglia sempre il negro?

– È sul solaio.

– Wan Stiller, porta da bere a quell’uomo.

Ciò detto il Corsaro parve s’immergesse in profondi pensieri, pur continuando a mangiare. Era diventato piú triste che mai, e preoccupato, tanto da non udire nemmeno piú le parole che gli rivolgeva il conte.

La cena terminò in silenzio, senza che venisse interrotta. Pareva che i soldati, malgrado la loro rabbia ed il vivissimo desiderio che avevano di appiccare e di bruciare vivi i filibustieri, non sapessero prendere alcuna decisione. Non già che difettassero di coraggio, anzi, tutt’altro, o che paventassero lo scoppio del barile, poco importava loro che la casa saltasse in aria; temevano pel conte di Lerma e per suo nipote, due persone ragguardevoli della città e che volevano ad ogni costo salvare.

Le tenebre erano già calate, quando Carmaux avvertí il Corsaro che un drappello di archibugieri, rinforzato da una dozzina di alabardieri, era giunto, occupando lo sbocco della viuzza.

– Ciò significa che si preparano ad intraprendere qualche cosa, – rispose il Corsaro. – Chiama il negro.

L’africano, dopo qualche minuto, si trovò dinanzi a lui.

– Hai visitato accuratamente il solaio? – gli chiese.

– Sí, padrone.

– Vi è nessun abbaino?

– No, ma ho sfondato una parte del tetto e per di là possiamo passare.

– Non vi sono nemici?…

– Nemmeno uno, padrone.

– Sai dove possiamo discendere?…

– Sí, e dopo un breve cammino.

In quel momento una scarica formidabile rintronò nella viuzza, facendo tremare tutti i vetri. Alcune palle, attraversate le persiane delle finestre, penetrarono nella casa, foracchiando le pareti e scrostando le volte delle stanze.

Il Corsaro era balzato in piedi snudando con un rapido gesto la spada. Quell’uomo, alcuni istanti prima cosí calmo e compassato, sentendo l’odore della polvere, si era trasfigurato: i suoi occhi balenavano, sulle smorte gote era improvvisamente comparso un lieve rossore.

– Ah!… Cominciano!… – esclamò con voce beffarda.

Poi, volgendosi verso il conte e suo nipote, continuò:

– Io vi ho promessa salva la vita e, qualunque cosa debba accadere, manterrò la parola data; voi dovete però obbedirmi e giurarmi che non vi ribellerete.

– Parlate, cavaliere, – disse il conte. – Mi rincresce che gli assalitori siano miei compatrioti; se non lo fossero vi assicuro che combatterei ben volentieri al vostro fianco.

– Voi dovete seguirmi, se non volete saltare in aria.

– Sta per crollare la casa?

– Fra pochi minuti non rimarrà dritta una sola muraglia.

– Volete rovinarmi? – strillò il notaio.

– State zitto, avaraccio, – gridò Carmaux che slegava il povero uomo. – Vi si salva e ancora non siete contento?

– Ma è la mia casa che non voglio perdere.

– Vi farete indennizzare dal governatore.

Una seconda scarica rimbombò nella viuzza ed alcune palle attraversarono la stanza, mandando in pezzi una lampada che vi si trovava nel mezzo.

– Avanti, uomini del mare!… – tuonò il Corsaro. – Carmaux, và a dar fuoco alla miccia…

– Sono pronto, comandante.

– Bada che il barile non scoppi prima che abbiamo abbandonato la casa.

– La miccia è lunga, signore, – rispose il filibustiere, scendendo la scala a precipizio.

Il Corsaro, seguito dai quattro prigionieri, da Wan Stiller e dall’africano, salirono sul solaio, mentre gli archibugi continuavano le loro scariche, mirando soprattutto alle finestre ed intimando, con urla acute, la resa.

Le palle penetravano dovunque, con certi miagolii da fare venire i brividi al povero notaio; scrostavano larghi tratti di parete e rimbalzavano contro i mattoni; i filibustieri però, e nemmeno il conte di Lerma, uomo di guerra anch’esso, se ne preoccupavano gran che.

Giunti sul solaio, l’africano mostrò al Corsaro una larga apertura irregolare che metteva sul tetto, e che egli aveva fatta, servendosi d’una trave strappata ad una tramezzata.

– Avanti, – disse il Corsaro.

Ringuainò per un momento la spada, s’aggrappò ai margini delle squarciature ed in un istante si issò sul tetto, girando all’intorno un rapido sguardo.

Scorse subito, tre o quattro tetti piú innanzi, delle alte piante, dei palmizi, uno dei quali cresceva addosso ad una muraglia, spingendo le sue splendide e gigantesche foglie sopra le tegole.

– È per di là che ci caleremo? – chiese al negro, che lo aveva raggiunto.

– Sí, padrone.

– Potremo uscire da quel giardino?

– Lo spero.

Il conte di Lerma, suo nipote, il servo ed anche il notaio spinto in alto dalle robuste braccia di Wan Stiller, erano già tutti sul tetto, quando Carmaux comparve, dicendo:

– Presto, signori; fra due minuti la casa ci crollerà sotto i piedi.

– Sono rovinato! – piagnucolò il notaio. – Chi mi risarcirà poi dei…

Wan Stiller gli troncò la frase spingendolo ruvidamente innanzi.

– Venite o andrete in aria anche voi, – gli disse.

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