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Kitobni o'qish: «Il Corsaro Nero», sahifa 2

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– Non ho detto d’appiccarlo – rispose il Corsaro.

Poi toccando il prigioniero con la punta della spada gli disse:

– Ora parlerai se ti preme la pelle.

– La pelle è già perduta – rispose lo spagnuolo. – Non si esce vivi dalle vostre mani e quando io avessi narrato a voi quanto vorreste sapere, non sarei certo di rivedere egualmente l’indomani.

– Lo spagnuolo ha del coraggio, – disse Wan Stiller.

– E la sua risposta vale la sua grazia, – aggiunse il Corsaro. – Via, parlerai?

– No, – rispose il prigioniero.

– Ti ho promesso salva la vita.

– E chi vi crederà?

– Chi?… Ma sai chi sono io?

– Un filibustiere.

– Sí, ma che si chiama il Corsaro Nero.

– Per la nostra Signora di Guadalupa! – esclamò lo spagnuolo, diventando livido. – Il Corsaro Nero qui!… Siete venuto per sterminarci tutti e vendicare il vostro fratello, il Corsaro Rosso?

– Sí, se non parlerai, – rispose il filibustiere con voce cupa. – Vi sterminerò tutti e di Maracaybo non rimarrà pietra su pietra!

– Por todos santos!… Voi qui? – ripeté il prigioniero, che non si era ancora rimesso dalla sorpresa.

– Parla!…

– Sono morto; è quindi inutile.

– Il Corsaro Nero è un gentiluomo, sappilo, ed un gentiluomo non ha mai mancato alla parola data, – rispose il capitano con voce solenne.

– Allora interrogatemi.

CAPITOLO III. IL PRIGIONIERO

Ad un cenno del capitano, Wan Stiller e Carmaux avevano sollevato il prigioniero e l’avevano seduto ai piedi d’un albero, senza però slegargli le mani, quantunque fossero certi che non avrebbe commesso la pazzia di tentare la fuga.

Il Corsaro gli sedette di fronte, su di una enorme radice che sorgeva dal suolo come un serpente gigantesco, mentre i due filibustieri si erano messi in sentinella alle estremità di quel macchione, non essendo ancora bene sicuri che il prigioniero fosse solo.

– Dimmi, – disse il Corsaro, dopo alcuni istanti di silenzio. – È ancora esposto mio fratello?…

– Sí, – rispose il prigioniero. – Il governatore ha ordinato di tenerlo appeso tre giorni e tre notti, prima di gettare il cadavere nella foresta, a pasto delle fiere.

– Credi che sia possibile rubare il cadavere?

– Forse, non essendovi di notte che una sentinella a guardia della Plaza de Granada. Quindici appiccati non possono ormai fuggire.

– Quindici!… – esclamò il Corsaro, con accento cupo. – Dunque quel feroce Wan Guld non ne ha risparmiato neppure uno?

– Nessuno.

– E non teme la vendetta dei filibustieri della Tortue?

– Maracaybo è ben munita di truppe e di cannoni.

Un sorriso di disprezzo sfiorò le labbra del fiero Corsaro.

– Che cosa fanno i cannoni a noi? – disse. – Le nostre sciabole d’arrembaggio valgono bene di piú; lo avete veduto ancora all’assalto di S. Francisco di Campeche, a S. Agostino della Florida ed in altri combattimenti.

– È vero, ma Wan Guld si tiene al sicuro in Maracaybo.

– Ah sí!… Ebbene, lo vedremo quando mi sarò abboccato coll’Olonese.

– Coll’Olonese!… – esclamò lo spagnuolo, con un fremito di terrore.

Parve che il Corsaro non avesse fatto attenzione allo spavento del prigioniero poiché riprese, cambiando tono:

– Che cosa facevi in questo bosco?

– Sorvegliavo la spiaggia.

– Solo?

– Sí, solo.

– Si temeva una sorpresa da parte nostra?

– Non lo nego, poiché era stata segnalata una nave sospetta, incrociante nel golfo.

– La mia?

– Se voi siete qui, quella nave doveva essere la vostra.

– Ed il governatore si sarà affrettato a fortificarsi.

– Ha fatto di piú; ha mandato alcuni fidi a Gibraltar ad avvertire l’ammiraglio.

Questa volta fu il Corsaro che provò un fremito, se non di spavento, certo d’inquietudine.

– Ah!… – esclamò, mentre la sua tinta pallida diventava livida. – La mia nave corre forse un grave pericolo?

Poi alzando le spalle, soggiunse:

– Bah! Quando i vascelli dell’ammiraglio giungeranno a Maracaybo, io sarò a bordo della Folgore.

S’alzò bruscamente, con un fischio chiamò i due filibustieri che vegliavano sul margine della macchia e disse brevemente:

– Partiamo.

– E di quest’uomo, che cosa dobbiamo farne? – chiese Carmaux.

– Conducetelo con noi; la vostra vita risponderà per la sua, se vi fugge.

– Tuoni d’Amburgo! – esclamò Wan Stiller. – Lo terrò per la cintola, onde non gli salti il ticchio di giuocare di gambe.

Si rimisero in cammino l’uno dietro l’altro, in fila indiana, Carmaux dinanzi e Wan Stiller ultimo, dietro al prigioniero, per non perderlo di vista un solo istante. Cominciava ad albeggiare. Le tenebre fuggivano rapidamente, cacciate dalla rosea luce che invadeva il cielo, e che si distendeva anche sotto gli alberi giganti della foresta. Le scimmie, che sono cosí numerose nell’America meridionale, specialmente nel Venezuela, si svegliavano, empiendo la foresta di grida strane.

Sulla cima di quelle graziose palme chiamate assai, dal tronco sottile ed elegante o fra il verde fogliame degli enormi eriodendron, od in mezzo alle sipos, grosse liane che si avviticchiano intorno agli alberi, od aggrappate alle radici aeree delle aroidee, od in mezzo alle splendide bromelie dai ricchi rami carichi di fiori scarlatti, si vedevano agitarsi, come folletti, ogni specie di quadrumani.

Là vi era una piccola tribú di mico, le scimmie piú graziose e nello stesso tempo le piú svelte e le piú intelligenti, quantunque siano cosí piccine da potersi nascondere in un taschino della giacca; piú oltre vi erano drappelli di sahuì rosse, un po’ piú grosse degli scoiattoli, adorne di una bellissima criniera che le fa rassomigliare ai leoncini; poi bande di mono, le scimmie piú magre di tutte, con gambe e braccia cosí lunghe che le fanno rassomigliare a ragni di dimensioni enormi, o truppe di prego, quadrumani che hanno la smania di tutto devastare e che sono il terrore dei poveri piantatori.

I volatili non mancavano e mescolavano le loro grida a quelle dei quadrumani. Fra le grandi foglie delle pomponasse, che servono alla fabbricazione dei bellissimi e leggeri cappelli di Panama, o fra i boschetti di laransia dai fiori esalanti acuti profumi o sulle quaresme, bellissime palme dai fiori purpurei, cicalavano a piena gola i piccoli mahitaco, specie di pappagalli dalla testa turchina; gli arà, grossi pappagalli tutti rossi, che da mane a sera, con una costanza degna di migliore causa, gridano incessantemente arà arà; o i choradeira detti anche uccelli piagnoni, poiché sembra che piangano e che abbiano sempre da lamentarsi.

I filibustieri e lo spagnuolo, già abituati a percorrere le grandi foreste del continente americano e delle isole del Golfo del Messico, non si arrestavano ad ammirare né le piante, né i quadrumani, né i volatili. Marciavano piú rapidamente che potevano, cercando i passaggi aperti dalle fiere o dagli indiani, frettolosi di giungere fuori di quel caos di vegetali e di scorgere Maracaybo.

Il Corsaro era diventato meditabondo e tetro, come già lo era quasi sempre, anche a bordo della sua nave o fra le gozzoviglie della Tortue.

Avvolto nel suo ampio mantello nero, col feltro calato sugli occhi e con la sinistra appoggiata alla guardia della spada, la testa china sul petto, camminava dietro a Carmaux, senza guardare né i compagni, né il prigioniero, come fosse stato solo a percorrere la foresta.

I due filibustieri, conoscendo le sue abitudini, si guardavano bene dall’interrogarlo e di strapparlo dalle sue meditazioni. Tutt’al piú scambiavano a bassa voce, tra di loro, qualche parola per consigliarsi sulla direzione da tenersi, poi allungavano sempre il passo inoltrandosi vieppiú fra quelle reti gigantesche di sipos smisurate, ed i tronchi delle palme, degli jacarandò e delle massaranduba, fugando colla loro presenza stormi di quei vaghi uccellini chiamati trochilidi od uccelli mosca, dalle splendide penne d’un azzurro scintillante e dal becco rosso, color del fuoco.

Camminavano da due ore, sempre piú rapidamente, quando Carmaux, dopo un istante di esitazione e dopo d’aver guardato piú volte gli alberi ed il suolo, s’arrestò indicando a Wan Stiller un macchione di cujueiro, piante che hanno foglie coriacee e che producono dei suoni bizzarri quando soffia il vento.

– È qui, Wan Stiller? – chiese. – Mi pare di non ingannarmi.

Quasi nello stesso momento, in mezzo alla macchia, si udirono echeggiare dei suoni melodiosi, dolcissimi, che pareva uscissero da qualche flauto.

– Che cos’è? – chiese il Corsaro, alzando bruscamente il capo e sbarazzandosi del mantello.

– È il flauto di Moko, – rispose Carmaux, con un sorriso.

– Chi è questo Moko?

– Il negro che ci ha aiutati a fuggire. La sua capanna è in mezzo a queste piante.

– E perché suona?

– Sarà occupato ad ammaestrare i suoi serpenti.

– È un incantatore di rettili?

– Sí, capitano.

– Ma questo flauto può tradirci.

– Glielo prenderò e manderemo i serpenti a passeggiare nel bosco.

Il Corsaro fece cenno di tirare innanzi, però estrasse la spada come se temesse qualche brutta sorpresa.

Carmaux si era già cacciato nel macchione avanzando su di un sentieruzzo appena visibile, poi era tornato ad arrestarsi mandando un grido di stupore misto a ribrezzo.

Dinanzi ad una catapecchia di rami intrecciati, col tetto coperto di grandi foglie di palme e semi-nascosta da una cujera, enorme pianta da zucche che ombreggia quasi sempre le capanne degli indiani, stava seduto un negro di forme erculee. Era uno dei piú bei campioni della razza africana, poiché era di statura alta, con spalle larghe e robuste, petto ampio e braccia e gambe muscolose, che dovevano sviluppare una forza gigantesca.

Il suo viso, quantunque avesse le labbra grosse, il naso schiacciato e gli zigomi sporgenti, non era brutto; aveva anzi qualche cosa di buono, d’ingenuo, d’infantile, senza la menoma traccia di quell’espressione feroce che si riscontra in molte razze africane.

Seduto su di un pezzo di tronco d’albero, suonava un flauto fatto con una canna sottile di bambú, traendone dei suoni dolci, prolungati, che producevano una strana sensazione di mollezza, mentre dinanzi a lui strisciavano dolcemente otto o dieci dei piú pericolosi rettili dell’America meridionale.

Vi erano alcuni jararacà, piccoli serpenti color tabacco colla testa depressa e triangolare, col collo sottilissimo e che sono cosí velenosi che dagli indiani vengono chiamati i maledetti; alcuni naja chiamati anche ay ay, tutti neri e che iniettano un veleno fulminante, dei boicinega o serpenti a sonaglio e qualche urutú, rettile a strisce bianche disposte in croce sul capo, e la cui morsicatura produce la paralisi del membro offeso.

Il negro, udendo il grido di Carmaux, alzò i suoi occhi grandi, che parevano di porcellana, fissandoli sul filibustiere, poi staccando dalle labbra il flauto, disse con stupore:

– Siete voi?… Ancora qui… Vi credevo già nel golfo, al sicuro dagli spagnuoli.

– Sí, siamo noi ma… il diavolo mi porti se io farò un passo con quei brutti rettili che ti circondano.

– Le mie bestie non fanno male agli amici, – rispose il negro, ridendo. – Aspetta un momento compare bianco e li manderò a dormire.

Prese un cesto di foglie intrecciate, vi mise dentro i serpenti, senza che questi si ribellassero, lo richiuse accuratamente mettendovi sopra, per maggior precauzione, un grosso sasso, poi disse:

– Ora puoi entrare senza timore nella mia capanna, compare bianco. Sei solo?

– No, conduco con me il capitano della mia nave, il fratello del Corsaro Rosso.

– Il Corsaro Nero?… Lui qui?… Maracaybo tremerà tutta!…

– Silenzio, negrotto mio. Metti a nostra disposizione la tua capanna, e non avrai da pentirti.

Il Corsaro era allora giunto assieme al prigioniero ed a Wan Stiller. Salutò con un cenno della mano il negro che lo attendeva dinanzi alla capanna, poi entrò dietro Carmaux, dicendo:

– È questo l’uomo che ti ha aiutato a fuggire?

– Sí, capitano.

– Odia forse gli spagnuoli?

– Al pari di noi.

– Conosce Maracaybo?

– Come noi conosciamo la Tortue.

Il Corsaro si volse a guardare il negro, ammirando la potente muscolatura di quel figlio dell’Africa, poi aggiunse, come parlando fra sé:

– Ecco un uomo che potrà giovarmi

Gettò uno sguardo nella capanna e vista in un angolo una rozza sedia di rami intrecciati, si sedette, tornando ad immergersi nei suoi pensieri.

Intanto il negro si era affrettato a portare alcune focacce di manioca, specie di farina estratta da certi tuberi velenosissimi, ma che dopo essere stati grattugiati e spremuti perdono le loro qualità venefiche; della frutta di anone muricata, sorta di pigne verdi che contengono, sotto le squame esterne, una crema biancastra squisitissima, e parecchie dozzine di quei profumati banani detti d’oro, piú piccoli degli altri, ma molto piú deliziosi e piú nutritivi.

A tutto quello aveva inoltre aggiunto una zucca ripiena di pulque, bibita fermentata che si estrae in notevole quantità dalle agavi.

I tre filibustieri, che non avevano sgretolato un sol biscotto durante l’intera notte, fecero onore a quella colazione non dimenticando il prigioniero; poi si accomodarono alla meglio su alcuni fasci di fresche foglie che il negro aveva portato nella capanna e s’addormentarono tranquillamente, come se si trovassero in piena sicurezza.

Moko si era però messo di sentinella, dopo aver legato per bene il prigioniero, che gli era stato raccomandato dal compare bianco.

Durante l’intera giornata nessuno dei tre filibustieri si mosse: però appena calate le tenebre, il Corsaro si era bruscamente alzato. Era diventato piú pallido del solito ed i suoi occhi neri erano animati da un cupo lampo.

Fece due o tre volte il giro della capanna con passo agitato, poi arrestandosi dinanzi al prigioniero gli disse.

– Io ti ho promesso di non ucciderti, mentre avrei avuto il diritto di appiccarti al primo albero della foresta; tu devi dirmi però se io potrei entrare inosservato nel palazzo del Governatore.

– Volete andare ad assassinarlo per vendicare la morte del Corsaro Rosso?

– Assassinarlo!… – esclamò il filibustiere, con ira. – Io mi batto, non uccido a tradimento, perché sono un gentiluomo. Un duello fra me e lui sí, non un assassinio.

– È vecchio, il governatore, mentre voi siete giovane, e poi non potreste introdurvi nella sua abitazione, senza venire arrestato dai numerosi soldati che vegliano presso di lui.

– So che è coraggioso.

– Come un leone.

– Sta bene: spero di ritrovarlo presto.

Si volse verso i due filibustieri che si erano alzati, dicendo a Wan Stiller:

– Tu rimarrai qui, a guardia di quest’uomo.

– Basta il negro, capitano.

– No, il negro è forte come un ercole e mi sarà di grande aiuto per trasportare la salma di mio fratello. Vieni, Carmaux, andremo a bere una bottiglia di vino di Spagna a Maracaybo.

– Mille pescicani!… A quest’ora, capitano!… – esclamò Carmaux.

– Hai paura?

– Con voi scenderei anche all’inferno, a prendere per il naso messer Belzebú, ma temo che vi scoprano.

Un sorriso beffardo contrasse le sottili labbra del Corsaro.

– La vedremo, – disse poi. – Vieni.

CAPITOLO IV. UN DUELLO FRA QUATTRO MURA

Maracaybo, quantunque non avesse una popolazione superiore alle diecimila anime, in quell’epoca era una delle piú importanti città che la Spagna possedesse sulle coste del Golfo del Messico.

Situata in una splendida posizione, all’estremità meridionale del Golfo di Maracaybo, dinanzi allo stretto che mette nell’ampio lago omonimo, che internasi per molte leghe nel continente, era diventata rapidamente importantissima, e serviva d’emporio a tutte le produzioni del Venezuela.

Gli spagnuoli l’avevano munita di un forte poderoso, armato d’un gran numero di cannoni e sulle due isole, che la difendevano dal lato del golfo, avevano messe guarnigioni fortissime, temendo sempre un’improvvisa irruzione dei formidabili filibustieri della Tortue.

Belle abitazioni erano state erette dai primi avventurieri che avevano posto piede su quelle sponde ed anche non pochi palazzi si vedevano, costruiti da architetti venuti dalla Spagna per cercare fortuna nel nuovo mondo; abbondavano soprattutto i pubblici ritrovi, dove si radunavano i ricchi proprietari di miniere, e dove, in tutte le stagioni, danzavasi il fandango od il bolero.

Quando il Corsaro ed i suoi compagni, Carmaux ed il negro, entrarono in Maracaybo indisturbati, le vie erano ancora popolate e le taverne dove spacciavansi vini d’oltre Atlantico erano affollate, poiché gli spagnuoli, anche nelle loro colonie, non avevano rinunciato a sorbirsi un ottimo bicchiere della natia Malaga o Xéres. Il Corsaro aveva rallentato il passo. Col feltro calato sugli occhi, avvolto nel suo mantello, quantunque la sera fosse calda, colla sinistra appoggiata fieramente sulla guardia della spada, osservava attentamente le vie e le case, come se avesse voluto imprimersele nella mente.

Giunti sulla Plaza de Granada che formava il centro della città, s’arrestò sull’angolo di una casa, appoggiandosi contro il muro, come se una improvvisa debolezza avesse colto quel fiero scorridore del golfo.

La piazza offriva uno spettacolo cosí lugubre, da fare fremere l’uomo piú impassibile della terra.

Da quindici forche, innalzate in semicerchio dinanzi ad un palazzo sul quale ondeggiava la bandiera spagnuola, pendevano quindici cadaveri umani.

Erano tutti scalzi, colle vesti a brandelli, eccettuato uno che indossava un costume dal colore del fuoco e che calzava alti stivali da mare.

Sopra quelle quindici forche, numerosi gruppi di zopilotes e di urubu, piccoli avvoltoi dalle penne tutte nere, incaricati della pulizia delle città dell’America centrale, pareva che non attendessero la putrefazione di quei disgraziati per gettarsi su quelle povere carni.

Carmaux si era avvicinato al Corsaro, dicendogli con voce commossa:

– Ecco i compagni.

– Sí, – rispose il Corsaro, con voce sorda. – Reclamano vendetta e l’avranno presto.

Si staccò dal muro facendo uno sforzo violento, chinò il capo sul petto come se avesse voluto celare la terribile emozione che aveva sconvolto i suoi lineamenti e s’allontanò a rapidi passi, entrando in una posada, specie d’albergo, dove abitualmente si radunano i nottambuli per vuotare con loro comodo parecchi boccali di vino.

Trovato un tavolo vuoto si sedette, o meglio si lasciò cadere su di una scranna, senza alzare il capo, mentre Carmaux urlava:

– Un boccale del tuo migliore Xeres, oste briccone!… Bada che sia autentico o non rispondo dei tuoi orecchi… L’aria del golfo mi ha fatta venire una tale sete, da asciugare tutta la tua cantina!…

Quelle parole, pronunciate in puro biscaglino, fecero accorrere piú che in fretta il trattore, con un fiasco di quell’eccellente vino.

Carmaux empí tre tazze, ma il Corsaro era cosí immerso nei suoi tetri pensieri, che non pensò di toccare la sua.

– Per mille pescicani, – borbottò Carmaux, urtando il negro. – Il padrone è in piena tempesta ed io non vorrei trovarmi nei panni degli spagnuoli. Bell’audacia, in fede mia, venire qui; ma già, lui non ha paura.

Si guardò intorno con una certa curiosità non esente da una vaga paura ed i suoi occhi s’incontrarono con quelli di cinque o sei individui armati di navaje smisurate, i quali lo guardavano con particolare attenzione.

– Pare che mi ascoltassero, – diss’egli al negro. – Chi sono costoro?…

– Baschi al servizio del Governatore.

– Compatrioti militanti sotto altre bandiere. Bah! Se credono di spaventarmi colle loro navaje, s’ingannano.

Quegl’individui frattanto avevano gettate le sigarette che stavano fumando e dopo essersi bagnata la gola con alcune tazze di Malaga, si erano messi a chiacchierare con voce cosí alta da farsi udire perfettamente da Carmaux.

– Avete veduti gli appiccati?… – aveva chiesto uno.

– Sono andato a vederli anche questa sera, – aveva risposto un altro. – È sempre un bello spettacolo che offrono quelle canaglie!… Ce n’è uno che fa scoppiare dalle risa, con quella lingua che gli esce dalla bocca mezzo palmo.

– Ed il Corsaro Rosso? – chiese un terzo. – Gli hanno messo in bocca perfino una sigaretta onde renderlo piú ridicolo.

– Ed io voglio porgli in mano un ombrello onde domani si ripari dal sole. Lo vedremo…

Un pugno formidabile, picchiato sul tavolo e che fece traballare le tazze gl’interruppe la frase.

Carmaux, impotente a frenarsi, prima ancora che il Corsaro Nero avesse pensato a trattenerlo, si era alzato di balzo ed aveva lasciato andare sulla tavola vicina quel formidabile pugno.

– Rayos de dios! – tuonò. – Bella prodezza deridere i morti; il bello è deridere i vivi, miei cari caballeros!…

I cinque bevitori, stupiti da quell’improvviso scoppio di rabbia dello sconosciuto, si erano alzati precipitosamente, tenendo la destra sulle navaje, poi uno di loro, il piú ardito senza dubbio, gli chiese con cipiglio:

– Chi siete voi, caballero?

– Un buon biscaglino che rispetta i morti, ma che sa bucare il ventre anche ai vivi.

I cinque bevitori a quella risposta, che poteva prendersi per una spacconata, si misero a ridere, facendo andare maggiormente in bestia il filibustiere.

– Ah!… È cosí? – disse questi, pallido d’ira.

Guardò il Corsaro, che non si era mosso come se quell’alterco non lo riguardasse, poi allungando una mano verso colui che lo aveva interrogato, lo respinse furiosamente urlandogli contro:

– Il lupo di mare mangerà il lupicino di terra!…

L’uomo respinto era caduto addosso ad un tavolo, ma si era prontamente rimesso in gambe, levandosi rapidamente dalla cintura la navaja, che aprí con un colpo secco. Stava senz’altro per scagliarsi contro Carmaux e passarlo da parte a parte, quando il negro, che fino allora era rimasto semplice spettatore, ad un cenno del Corsaro balzò fra i due litiganti, brandendo minacciosamente una pesante sedia di legno e di ferro.

– Fermo o t’accoppo!… – gridò all’uomo armato.

Vedendo quel gigante dalla pelle nera come il carbone la cui potente muscolatura pareva pronta a scattare, i cinque baschi erano indietreggiati, per non farsi stritolare da quella sedia che descriveva in aria delle curve minacciose.

Quindici o venti bevitori che si trovavano in una stanza attigua, udendo quel baccano, si erano affrettati ad accorrere, preceduti da un omaccio armato di uno spadone, un vero tipo di bravaccio, coll’ampio cappello piumato inclinato su di un orecchio ed il petto racchiuso entro una vecchia corazza di pelle di Cordova.

– Che cosa succede qui? – disse ruvidamente quell’uomo, sguainando il brando, con una mossa tragica.

– Succedono, mio caro caballero, – disse Carmaux, inchinandosi in modo buffo, – certe cose che non vi riguardano affatto.

– Eh!… per tutti i Santi… – gridò il bravaccio con cipiglio. – Si vede che voi non conoscete don Gamaraley Miranda, conte di Badajoz, nobile di Camargua, e visconte di…

– Di casa del diavolo, – disse il Corsaro Nero, alzandosi bruscamente e guardando fisso il bravaccio. – E cosí, caballero, conte, marchese, duca, eccetera?…

Il signor di Gamara e d’altri luoghi ancora arrossí come una peonia, poi impallidí, dicendo con voce rauca:

– Per tutte le streghe dell’inferno!… Non so chi mi tenga dal mandarvi all’altro mondo a tenere compagnia a quel cane di Corsaro Rosso che fa cosí bella mostra sulla Plaza de Granada ed ai suoi quattordici birbanti.

Questa volta fu il Corsaro che impallidí orribilmente. Con un gesto trattenne Carmaux che stava per scagliarsi contro l’avventuriero, si sbarazzò del mantello e del cappello e con un rapido gesto snudò la spada, dicendo con voce fremente:

– Il cane sei tu e chi andrà a tenere compagnia agli appiccati sarà la tua anima dannata.

Fece cenno agli spettatori di fare largo e si mise di fronte all’avversario, ponendosi in guardia con una eleganza e con una sicurezza da sconcertare l’avversario.

– A noi, conte di casa del diavolo – disse coi denti stretti. – Fra poco qui vi sarà un morto.

L’avventuriero si era messo in guardia, ma ad un tratto si rialzò, dicendo:

– Un momento, caballero. Quando s’incrocia il ferro si ha il diritto di conoscere il nome dell’avversario.

– Sono piú nobile di te, ti basta?…

– No, è il nome che voglio sapere.

– Lo vuoi?… Sia, ma peggio per te, poiché non lo dirai piú a nessuno.

Gli si avvicinò e gli mormorò alcune parole in un orecchio.

L’avventuriero aveva mandato un grido di stupore e fors’anche di spavento e aveva fatto due passi indietro come se avesse voluto rifugiarsi fra gli spettatori e tradire il segreto; ma il Corsaro Nero aveva cominciato ad incalzarlo vivamente, costringendolo a difendersi.

I bevitori avevano formato un ampio circolo attorno ai duellanti. Il negro e Carmaux erano in prima linea, però non sembravano affatto preoccupati dell’esito di quello scontro, specialmente l’ultimo che sapeva di quanto era capace il fiero corsaro. L’avventuriero, fino dai primi colpi, si era accorto d’aver dinanzi un avversario formidabile, deciso ad ucciderlo al primo colpo falso, e ricorreva a tutte le risorse della scherma per parare le botte che grandinavano.

Quell’uomo non era però uno spadaccino da disprezzarsi. Alto di statura, grosso e robustissimo, dal polso fermo e dal braccio vigoroso, doveva opporre una lunga resistenza e si capiva che non era facile a stancarsi.

Il Corsaro tuttavia, snello, agile, dalla mano pronta, non gli dava un istante di tregua, come se temesse che approfittasse della minima sosta per tradirlo.

La sua spada lo minacciava sempre, costringendolo a continue parate. La punta scintillante balenava dappertutto, batteva forte il ferro dell’avventuriero, facendo sprizzare scintille, e andava a fondo con una velocità cosí fulminea da sconcertare l’avversario.

Dopo due minuti l’avventuriero, non ostante il suo vigore poco meno che erculeo, cominciava a sbuffare ed a rompere. Si sentiva imbarazzato a rispondere a tutte le botte del Corsaro e non conservava piú la calma primiera. Sentiva che la pelle correva un gran pericolo e che avrebbe finito davvero coll’andare a tenere poco allegra compagnia agli appiccati della Plaza de Granada.

Il Corsaro invece pareva che avesse appena sfoderata la spada. Balzava innanzi con un’agilità da giaguaro, incalzando sempre con crescente vigore l’avventuriero. Solamente i suoi sguardi, animati da un cupo fuoco, tradivano la collera della sua anima. Quegli occhi non si staccavano un solo istante da quelli dell’avversario, come se volessero affascinarlo e turbarlo. Il cerchio degli spettatori si era aperto per lasciare campo all’avventuriero, il quale retrocedeva sempre, avvicinandosi alla parete opposta.

Carmaux, sempre in prima fila, cominciava a ridere, prevedendo presto lo scioglimento di quel terribile scontro.

Ad un tratto l’avventuriero si trovò addosso al muro. Impallidí orribilmente e grosse gocce di sudore freddo gli imperlarono la fronte.

– Basta… – rantolò, con voce affannosa.

– No, – gli disse il Corsaro, con accento sinistro. – Il mio segreto deve morire con te.

L’avversario tentò un colpo disperato. Si rannicchiò piú che poté, poi si scagliò innanzi, vibrando tre o quattro stoccate una dietro l’altra.

Il Corsaro, fermo come una rupe, le aveva parate con eguale rapidità.

– Ora t’inchioderò sulla parete, – gli disse.

L’avventuriero, pazzo di spavento, comprendendo ormai di essere perduto, si mise a urlare.

– Aiuto!… Egli è il Co…

Non finí. La spada del Corsaro gli era entrata nel petto, inchiodandolo nella parete e spegnendogli la frase.

Un getto di sangue gli uscí dalle labbra macchiandogli la corazza di pelle che non era stata sufficiente a ripararlo da quel tremendo colpo di spada, sbarrò spaventosamente gli occhi, guardando l’avversario con un ultimo lampo di terrore, poi stramazzò pesantemente al suolo, spezzando in due la lama che lo tratteneva al muro.

– Se n’è andato, – disse Carmaux, con un accento beffardo.

Si curvò sul cadavere, gli strappò di mano la spada e porgendola al capitano che guardava con occhio tetro l’avventuriero, gli disse:

– Giacché l’altra si è spezzata, prendete questa. Per bacco!… È una vera lama di Toledo, ve lo assicuro, signore.

Il Corsaro prese la spada del vinto senza dir verbo, andò a prendere il cappello, gettò sul tavolo un doblone d’oro e uscí dalla posada seguito da Carmaux e dal negro, senza che gli altri avessero osato trattenerlo.

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30 avgust 2016
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