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Kitobni o'qish: «Il Corsaro Nero», sahifa 14

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CAPITOLO XXII. LA SAVANA TREMANTE

L’animale che con tanta audacia li aveva assaliti, nelle forme richiamava alla mente le leonesse dell’Africa; era però di mole molto minore, non dovendo avere una lunghezza maggiore di un metro e quindici o venti centimetri, né un’altezza superiore ai settanta, misurata dalla spalla.

Aveva la testa rotonda, il corpo allungato, ma robusto, una coda lunga piú di mezzo metro, artigli lunghi ed acuti, il pelame fitto ma corto, di colore rosso giallognolo, che diventava piú oscuro sul dorso mentre era chiaro, quasi bianco, sotto il ventre e grigio sul cranio.

Il catalano ed il Corsaro, con una sola occhiata avevano subito capito che si trattava d’uno di quegli animali chiamati dagli ispano-americani mizgli o meglio ancora coguari o puma, ed anche leoni d’America.

Queste fiere, che sono sparse in buon numero anche oggidí, tanto nell’America meridionale, che settentrionale, quantunque siano di statura relativamente piccola, sono formidabili essendo feroci e coraggiose.

Ordinariamente si tengono nei boschi dove fanno grandi distruzioni di scimmie, potendo arrampicarsi con tutta facilità sugli alberi piú alti; talvolta osano avvicinarsi ai luoghi abitati, ed allora producono danni enormi, scannando pecore, vitelli, buoi e perfino cavalli.

In una sola notte sono capaci di uccidere cinquanta capi di bestiame, limitandosi a bere il sangue caldo che fanno sgorgare dalle vene del collo delle vittime. Se non sono affamati, sfuggono l’uomo, sapendo per prova che non sempre riportano vittoria; solo se spinti dalla necessità lo assaltano con coraggio disperato.

Anche feriti si rivoltano contro gli avversari senza contarli.

Talvolta vivono in branchi per meglio cacciare gli animali delle foreste, però per lo piú s’incontrano isolati, anche perché le femmine non hanno grande fiducia nei compagni, correndo il pericolo di vedersi mangiare i piccini. D’altronde anch’esse i primi nati li divorano, nondimeno col tempo diventano madri amorose e difendono accanitamente la loro prole.

– Ventre di pesce-cane!… – esclamò Carmaux. – Sono piccoli, ma hanno maggior coraggio di certi leoni, questi animali.

– Non so come non mi abbia aperta la gola, – rispose il catalano. – Si dice che sono destri nel recidere la vena jugulare per bere il sangue dei disgraziati che abbattono.

– Destri o no, ripartiamo, – disse il Corsaro. – Questo coguaro ci ha fatto perdere del tempo prezioso.

– Le nostre gambe sono leste, comandante.

– Lo so, Carmaux; non scordiamo che Wan Guld ha parecchie ore di vantaggio su di noi. In marcia, amici.

Lasciarono il cadavere del coguaro e si rimisero in cammino attraverso la sconfinata foresta, riprendendo la faticosa manovra del taglio delle liane e delle radici che impedivano loro il passo.

Si erano allora impegnati in mezzo ad un terreno imbevuto di acqua, dove gli alberi piú piccoli avevano acquistate dimensioni enormi. Pareva che camminassero su di una spugna immensa, perché colla sola pressione dei piedi schizzavano fuori, da centomila pori invisibili, dei getti d’acqua.

Forse in mezzo alla foresta si nascondeva qualche savana e chissà, forse qualcuno di quei bacini traditori, chiamati savane tremanti, col fondo costituito di sabbie mobili, che inghiottono qualunque essere osi affrontarle.

Il catalano, già pratico di quella regione, era diventato eccessivamente prudente. Tastava di frequente il suolo con un ramo che aveva tagliato, guardava dinanzi a sé per vedere se la foresta continuava e di tratto in tratto dispensava legnate a destra e a manca. Temeva le sabbie mobili, ma si guardava anche dai rettili, i quali si trovano in gran numero nei terreni umidi delle selve vergini.

Con quella oscurità, poteva porre i piedi su qualche urutú, serpente a strisce bianche, adorno d’una croce sul capo ed il cui morso produce la paralisi del membro offeso, o su di un cobra cipo o serpente liana, cosí chiamato perché è verde e sottile come una vera liana, in modo da poterlo facilmente confondere, oppure su qualche serpente corallo dal morso senza rimedio.

Ad un certo momento il catalano s’arrestò.

– Un altro coguaro? – chiese Carmaux, che gli stava dietro.

– Non oso inoltrarmi se prima non spunta il sole, – rispose.

– Che cosa temi? – chiese il Corsaro.

– Il terreno mi sfugge sotto i piedi, signore. Ciò indica che noi siamo vicini a qualche savana.

– Qualche savana tremante forse?

– Lo temo.

– Perderemo del tempo prezioso.

– Fra mezz’ora spunterà l’alba e poi credete che anche i fuggiaschi non incontrino degli ostacoli?

– Non dico il contrario. Aspetteremo il sorgere del sole.

Si sdraiarono ai piedi d’un albero ed attesero con impazienza che quelle fitte tenebre cominciassero a diradarsi.

La grande foresta, poco prima silenziosa, risuonava allora di mille strani fragori. Migliaia di batraci, rospi, rane-pipa e parraneca facevano udire le loro voci, formando un baccano assordante.

Si udivano abbaiamenti, muggiti interminabili, strida prolungate, come se centomila carrucole fossero in movimento, gorgoglii che sembravano prodotti da centinaia di ammalati occupati a umettarsi le gole con gargarismi, poi un martellamento furioso, come se eserciti di falegnami si celassero sotto i boschi, quindi degli stridii che pareva provenissero da centinaia di seghe a vapore.

Di tratto in tratto invece, sugli alberi, si udiva improvvisamente uno scoppio di fischi acuti, i quali facevano alzare improvvisamente il capo ai filibustieri.

Erano mandati da certe lucertole di dimensioni piccole, ma dotate di polmoni cosí potenti da gareggiare, per forza di voce, colle nostre locomotive.

Già gli astri cominciavano ad impallidire e l’alba a diradare le tenebre quando in lontananza si udí echeggiare una debole detonazione che non si poteva confondere colle grida dei batraci.

Il Corsaro si era bruscamente alzato.

– Un colpo di fucile? – chiese, guardando il catalano, il quale si era pure levato.

– Sembra, – rispose questi.

– Sparato dagli uomini che inseguiamo?…

– Lo suppongo.

– Allora non devono essere lontani.

– Potete ingannarvi, signore. Sotto queste volte di verzura l’eco si ripercuote ad incredibile distanza.

– Comincia a far chiaro; possiamo quindi ripartire, se non siete stanchi.

– Bah!… Riposeremo piú tardi, – disse Carmaux.

La luce dell’alba cominciava a filtrare fra le foglie giganti degli alberi, diradando rapidamente le tenebre e svegliando gli abitanti della foresta.

I tucani dal becco enorme, grosso quanto il loro intero corpo e cosí fragile che costringe quei poveri volatili a gettare il cibo in alto aspettando che cada per ingollarlo, cominciavano a svolazzare sulle piú alte cime degli alberi, mandando le loro grida sgradevoli che somigliano al cigolare di una ruota male unta; gli onorati, nascosti nel piú fitto delle piante, lanciavano a piena gola le loro note baritonali do… mi… sol… do…, i cassichi bisbigliavano dondolandosi sui loro strani nidi in forma di borse, sospesi ai flessibili rami dei mangli o all’estremità delle foglie immense dei maot mentre i graziosi uccelli mosca volavano di fiore in fiore, come gioielli alati, facendo scintillare ai primi raggi del sole le loro piume verdi, turchine o nere a riflessi d’oro e di rame.

Qualche coppia di scimmie, uscita dal nascondiglio, cominciava ad apparire, stiracchiandosi le membra e sbadigliando col muso rivolto al sole.

Erano per lo piú dei barrigudo, quadrumani alti sessanta od ottanta centimetri, con una coda lunga piú dell’intero corpo, con pelame morbido, nero cupo sul dorso e grigiastro sul ventre ed una specie di criniera sulle spalle.

Alcuni si dondolavano appesi per la coda, mandando le loro grida che sembravano volessero dire eske, eske, altri invece, vedendo passare il piccolo drappello, s’affrettavano a salutarlo con boccacce, scagliando frutta e foglie, essendo maligni e impudenti.

In mezzo alle foglie delle palme si scorgeva anche qualche banda di minuscoli quadrumani, di mico, i piú graziosi di tutti, essendo cosí piccini da poter star comodamente nella tasca di una giacca. Salivano e scendevano con vivacità i rami, cercando gli insetti che costituiscono il loro cibo, appena però scorgevano gli uomini si mettevano premurosamente in salvo, sulle fronde piú alte, e di lassú stavano a guardarli coi loro occhi intelligenti ed espressivi.

Di passo in passo che i filibustieri s’inoltravano, gli alberi e le macchie si diradavano, come se non trovassero di loro gradimento quel terreno saturo d’acqua e di natura probabilmente argillosa.

Le splendide palme erano già scomparse e non si vedevano che gruppi di imbauda, specie di piccoli salici, che muoiono durante la stagione piovosa, per ricomparire nella stagione secca; delle iriartree pinciute, strani alberi che hanno il tronco assai rigonfio nella parte inferiore, sostenuto, per un’altezza di due o tre metri, da sette od otto robuste radici e che a venticinque metri d’altezza portano delle grandi foglie dentellate, ricadenti all’ingiro come un enorme ombrello.

Ben presto però anche quegli ultimi alberi scomparvero per dar luogo ad ammassi di calupo, piante dalle cui frutta tagliate a pezzi e lasciate un po’ a fermentare si ricava una bevanda rinfrescante, ed i giganteschi bambú alti quindici e perfino venti metri e cosí grossi da non potersi abbracciare.

Il catalano stava per cacciarsi là in mezzo, quando si volse verso i filibustieri, dicendo loro:

– Prima che abbandoniamo la foresta, spero che gradirete una buona tazza di latte.

– Toh! – esclamò Carmaux allegramente. – Hai scoperto qualche mandria? In tal caso possiamo regalarci anche delle bistecche.

– Niente bistecche per ora, poiché non mangeremo nessuna mucca.

– E chi darà il latte adunque?

– L’arbol del leche.

– Andiamo a mungere l’albero del latte.

Il catalano si fece dare da Carmaux una fiaschetta, s’avvicinò ad un albero dalle foglie ampie, dal tronco grosso, liscio, alto piú di venti metri, sorretto da robuste radici che pareva non avessero posto sufficiente sotto terra, uscendo, e con un colpo del suo spadone lo incise profondamente. Un istante dopo da quella ferita si vide sgorgare un liquido bianco, denso, che somigliava perfettamente al latte e che ne aveva anche il gusto.

Tutti si dissetarono, gustandolo molto, poi ripresero subito le mosse cacciandosi in mezzo ai bambú, assordati da un fischiare acuto ed incessante prodotto dalle lucertole.

Il terreno diventava sempre meno consistente. L’acqua trapelava dappertutto sotto i piedi dei filibustieri, formando delle pozze che s’allargavano rapidamente.

Delle bande d’uccelli acquatici indicavano le vicinanze di una grande palude e d’una savana. Si vedevano stormi di beccaccini, di anhinga, volatili che hanno il collo tanto lungo e sottile che fece dare loro il nome di uccelli serpenti, la testa piccolissima, il becco diritto ed acuto e le penne setose a riflessi d’argento; di ani delle savane, i piú piccoli della specie, essendo un po’ meno grossi delle gazze, colle penne d’un verde oscuro contornate da un lembo violaceo oscuro.

Già lo spagnuolo cominciava a rallentare il passo, per tema che il terreno gli mancasse sotto i piedi, quando un grido rauco e prolungato si fece udire un po’ innanzi, seguito da un tonfo e da un gorgoglio.

– L’acqua!… – esclamò.

– Ma oltre l’acqua mi pare che vi sia qualche animale, – disse Carmaux. – Non hai udito?…

– Sí, il grido d’un giaguaro.

– Brutto incontro, – brontolò Carmaux.

Si erano fermati, appoggiando i piedi su di alcuni bambú atterrati, onde non affondare nella melma, ed avevano sguainate le sciabole e le spade.

L’urlo della fiera non era piú echeggiato; si udivano però dei brontolii sommessi che indicavano come il giaguaro fosse tutt’altro che soddisfatto.

– Forse l’animale sta pescando, – disse il catalano.

– I pesci?… – chiese Carmaux con tono incredulo.

– Vi sorprende?…

– Che io sappia i giaguari non posseggono degli ami.

– Hanno però le unghie e la coda.

– La coda?… Ed a che cosa può servire?…

– Per attirare i pesci.

– Sarei curioso di sapere in qual modo. Forse che vi attaccano all’estremità dei vermicelli?…

– Niente affatto. Si limitano a lasciarla pendere, sfiorando dolcemente l’acqua coi lunghi peli.

– E poi?

– Il resto lo si spiega. Le raje spinose, o le piraja ed i gimnoti credendo di trovare una buona preda accorrono ed è allora che il giaguaro, con un lesto colpo di zampa li afferra, mancando di rado i curiosi che osano mostrarsi alla superficie.

– Lo vedo, – disse in quel momento l’africano, il quale essendo piú alto di tutti poteva guardare piú lontano.

– Chi?… – chiese il Corsaro.

– Il giaguaro, – rispose il negro.

– Che cosa fa?…

– È sulla riva della savana.

– Solo?

– Pare che spii qualche cosa.

– È lontano?

– Cinquanta o sessanta metri.

– Andiamo a vederlo, – disse il Corsaro, con accento risoluto.

– Siate prudente, signore, – consigliò il catalano.

– Se non ci chiuderà il passo non saremo noi ad assalirlo. Avviciniamoci in silenzio.

Scesero dai bambú e, tenendosi celati dietro i fusti d’un macchione di legno cannone, si misero ad avanzare in profondo silenzio, colle sciabole e le spade sguainate.

Percorsi venti passi, giunsero sulla riva d’una vasta palude, la quale pareva che si estendesse per un lungo tratto in mezzo alla foresta vergine.

Era una savana, ossia un bacino melmoso formato dagli scoli di tutta la foresta. Le sue acque, quasi nere pel corrompersi di migliaia e migliaia di vegetali, esalavano dei miasmi deleteri pericolosi per gli uomini, producendo delle febbri terribili.

Piante acquatiche d’ogni specie crescevano per ogni dove. Erano cespugli di mucumucú, dalle larghe foglie galleggianti; gruppi di arum le cui foglie in forma di cuore sorgono sulla cima d’un peduncolo, ed i murici che si arrestano a fior d’acqua. Si vedevano però anche le splendide vittorie regie, le piú grandi fra le piante acquatiche, misurando le loro foglie perfino un metro e mezzo di circonferenza. Sembravano tondi mostruosi, con quei loro margini rialzati, ma difesi da una vera armatura di spine lunghe ed acute.

In mezzo a quelle foglie giganti, spiccavano i superbi fiori di quelle piante acquatiche, fiori che sembravano di velluto bianco, a striature purpuree con delle gradazioni rosee d’una bellezza piú unica che rara.

I filibustieri avevano appena dato uno sguardo alla savana, quando udirono dinanzi a loro, ad una distanza brevissima, risuonare un sordo brontolio.

– Il giaguaro, – esclamò il catalano.

– Dov’è? – chiesero tutti.

– Eccolo là, sulla riva, in agguato.

CAPITOLO XXIII. L’ASSALTO DEL GIAGUARO

A cinquanta passi da loro, sul margine d’una macchia di legno di cannone, un superbo animale, rassomigliante nelle forme ad una tigre, di dimensioni però un po’ piú piccole, stava in agguato presso la riva della savana, in quell’attitudine che prendono i gatti quando attendono i sorci.

Misurava quasi due metri di lunghezza, doveva essere quindi uno dei piú grandi della specie, con una coda di ottanta e piú centimetri, un collo breve e grosso come quello d’un giovane toro, zampe robuste, muscolose, armate di formidabili artigli.

Il suo pelame era d’una bellezza straordinaria, fitto e morbido, di colore giallo rossiccio, a macchie nere orlate di rosso, piú piccole sui fianchi e piú grandi e piú spesse sul dorso, dove formavano una grossa striscia.

Ci volle poca fatica pei filibustieri a riconoscere in quell’animale un giaguaro, il piú formidabile predatore delle due Americhe, piú pericoloso dei coguari e forse anche dei mostruosi orsi grigi delle Montagne Rocciose.

Queste fiere, che s’incontrano dovunque, dalla Patagonia agli Stati Uniti, rappresentano nelle due Americhe le tigri e sono temibili quanto queste, possedendone l’agilità, la forza e la ferocia.

Abitano per lo piú le foreste umide e le rive delle savane e dei fiumi giganti, specialmente del Rio della Plata, delle Amazzoni e dell’Orinoco, amando, cosa strana nei felini, l’acqua.

Le stragi che fanno queste fiere sono terribili; essendo dotate d’un appetito fenomenale, assalgono indistintamente tutti gli esseri che incontrano. Le scimmie non hanno scampo, poiché i giaguari s’arrampicano facilmente sugli alberi, né piú né meno dei gatti; i bovini e gli equini delle fattorie possono ben difendersi a colpi di corna od a calci, ma soccombono presto poiché i sanguinari predatori piombano addosso a loro con un salto fulmineo spezzando la colonna vertebrale con un solo colpo di zampa. Nemmeno le testuggini sfuggono, sebbene siano difese da gusci di grande resistenza. Le unghie potenti di quelle fiere perforano le doppie corazze delle tartarughe arrua ed estraggono la carne saporita.

Nutrono poi un’avversione profonda pei cani, se pur invece non apprezzano molto le loro carni, e per prenderli osano entrare nei villaggi indiani anche in pieno giorno.

Anche gli uomini non vengono risparmiati e molti poveri indiani ogni anno pagano un largo tributo a quei formidabili animali. Anche se solamente feriti quasi sempre soccombono a causa delle tremende lacerature che producono gli artigli di quelle fiere, non essendo acuti.

Il giaguaro che stava in agguato sulla riva della savana pareva che non si fosse accorto della vicinanza dei filibustieri, non avendo dato indizio di essere inquieto. Teneva gli occhi fissi sulle acque nerastre della grande palude, come se spiasse qualche preda che si teneva nascosta sotto le larghe foglie delle vittorie regie.

S’era accovacciato in mezzo ai legni cannone, non del tutto però, perché si teneva come sospeso, pronto a scattare.

I suoi baffi irti si muovevano leggermente, dando indizio di impazienza o di collera, e la sua lunga coda sfiorava mollemente le foglie dei fusti, senza produrre il minimo rumore.

– Che cosa attende? – chiese il Corsaro, che pareva avesse dimenticato Wan Guld e la sua scorta.

– Spia qualche preda, – rispose il catalano.

– Qualche testuggine forse?…

– No, – disse l’africano. – È un avversario degno di lui che attende. Guardate là, sotto le foglie delle vittorie non vedete sporgere un muso?…

– Compare sacco di carbone ha ragione, – disse Carmaux. – Vedo sotto le foglie qualche cosa che si muove.

– È l’estremità del muso d’uno jacaré, compare, – rispose il negro.

– D’un caimano? – chiese il Corsaro.

– Sí, padrone.

– Osano assalire perfino quei formidabili rettili?

– Sí signore, – disse il catalano. – Se stiamo zitti, assisteremo ad una terribile lotta.

– Speriamo che non sia cosa lunga.

– Sono due avversari poco pazienti e quando si trovano l’uno di fronte all’altro non lesineranno i morsi. Ah!… Ecco che l’jacaré si mostra.

Le foglie delle vittorie si erano bruscamente allontanate e due mascelle enormi, armate di lunghi denti triangolari, erano comparse, allungandosi verso la riva.

Il giaguaro, vedendo il caimano accostarsi, si era alzato, facendo una mossa indietro. Non doveva però averla fatta per paura di quelle mascelle, bensí coll’evidente intenzione di attirare a terra l’avversario per privarlo di uno dei suoi principali mezzi di difesa, ossia dell’agilità, essendo quei rettili assai impacciati quando si trovano fuori dell’acqua.

Il caimano, ingannato da quella mossa, credendo forse che il giaguaro avesse paura, con un poderoso colpo di coda, che troncò di netto le foglie delle vittorie dai loro gambi spinosi e che sollevò una grande ondata, si slanciò innanzi, mettendo piede sulla riva, dove subito s’arrestò mostrando le terribili mascelle aperte.

Era un grande jacaré, lungo quasi cinque metri, col dorso coperto di piante acquatiche che gli erano cresciute fra il fango, che gli si era incastrato sulle scaglie ossee.

Scosse l’acqua che lo inondava, lanciando intorno una miriade di spruzzi, poi si piantò sulle brevi zampe posteriori e mandò un grido che rassomigliava al vagito d’un bambino, forse un grido di sfida.

Il giaguaro, invece di assalirlo, aveva fatto un altro salto indietro, e si tenne raccolto su sé stesso, pronto a scagliarsi.

Il re delle foreste e il re delle savane si guardarono per alcuni istanti in silenzio, coi loro occhi giallastri che avevano un lampo feroce, poi il primo fece udire un brontolio d’impazienza e si raccorciò soffiando come un gatto in collera.

Il caimano, niente spaventato e consapevole della propria forza prodigiosa e della robustezza dei denti, salí risolutamente la sponda agitando la pesante coda a destra e a manca.

Era il momento atteso dal furbo giaguaro. Vedendo che l’avversario era ormai a terra, spiccò un gran salto in aria e gli piombò addosso, ma i suoi artigli, quantunque solidi come l’acciaio, incontrarono le scaglie ossee del rettile, quelle piastre cosí solide da non permettere ad una palla di fucile di attraversarle.

Furioso per non essere riuscito in quel primo assalto, si volse con rapidità prodigiosa, avventò un colpo d’artiglio alla testa dell’avversario strappandogli un occhio, poi con un secondo volteggio balzò nuovamente a terra, dieci passi piú innanzi.

Il rettile aveva mandato un lungo muggito di rabbia e di dolore.

Privo d’un occhio come era, non poteva piú far fronte vantaggiosamente al pericoloso nemico e cercava di guadagnare la savana, vibrando furiosi colpi di coda, i quali sollevavano spruzzi di fango.

Il giaguaro che si teneva in guardia, per la seconda volta si slanciò innanzi, cadendogli addosso; però non cercò di riprovare le unghie sulla impenetrabile corazza.

Si curvò innanzi e con un colpo d’artiglio ben assestato scucí il fianco destro del rettile, strappandogli contemporaneamente dei brani d’interiora.

La ferita doveva essere mortale, però il rettile possedeva ancora troppa vitalità per darsi per vinto. Con uno scrollo irresistibile si sbarazzò del nemico, facendolo capitombolare malamente in mezzo ai fusti di legno cannone, poi gli si avventò sopra per tagliarlo in due con un buon colpo dei suoi innumerevoli denti.

Disgraziatamente per lui, avendo un occhio solo, non poté prendere esattamente le sue mire, ed invece di triturare l’avversario, ciò che gli sarebbe riuscito facile, non gli abboccò che la coda.

Un urlo feroce, terribile, lanciato dal giaguaro, avvertí i filibustieri che quell’appendice era stata mozzata di colpo.

– Povera bestia! – esclamò Carmaux. – Farà una ben brutta figura senza coda.

– Si prende però la rivincita, – disse il catalano.

Infatti il sanguinario predatore si era rivoltato contro il rettile, con furore disperato. Fu veduto aggrapparglisi al muso, lacerandoglielo ferocemente, a rischio di perdere le zampe, e lavorare di artigli con rapidità prodigiosa.

Il povero jacaré grondante di sangue, orribilmente mutilato ed acciecato, retrocedeva sempre per riguadagnare la savana. La sua coda vibrava colpi formidabili e le sue mascelle si rinchiudevano con fracasso, senza riuscire a sbarazzarsi della fiera che continuava a dilaniarlo.

Ad un tratto entrambi caddero in acqua. Per alcuni istanti furono veduti dibattersi fra un monte di spuma che il sangue arrossava, poi uno di loro ricomparve presso la riva.

Era il giaguaro ridotto in uno stato deplorevole. Dal suo pelame grondava ad un tempo sangue ed acqua. La coda lasciata fra i denti del rettile, una zampa pareva spezzata ed il dorso era scorticato.

Salí faticosamente la riva, arrestandosi di tratto in tratto a guardare le acque della savana, con due occhi che mandavano lampi feroci, raggiunse la macchia dei legni cannone e scomparve agli occhi dei filibustieri, mandando un ultimo miagolio di minaccia.

– Credo che abbia avuto il suo conto, – disse Carmaux.

– Sí, però l’jacaré è morto e domani, quando tornerà a galla servirà di colazione al giaguaro, – rispose il catalano.

– Se l’è guadagnata a caro prezzo.

– Bah!… Hanno la pelle dura quelle fiere, e guarirà.

– La coda non gli spunterà di certo.

– Bastano i denti e gli artigli.

Il Corsaro Nero si era rimesso in cammino costeggiando le rive della savana. Passando là dove era avvenuta la terribile lotta fra il re delle foreste americane ed il re dei fiumi e delle paludi, Carmaux vide a terra uno degli occhi perduti dal rettile.

– Peuh.!… – esclamò. – Come è brutto!… Anche spegnendosi ha conservato un lampo d’odio e di bramosia feroce.

I filibustieri s’affrettavano. Essendo le rive della savana ingombre solo di fusti di legno cannone e di mucumucú, piante facilissime ad abbattersi, la marcia riusciva piú lesta che attraverso l’intricata foresta.

Dovevano però ben guardarsi dai rettili, che si trovavano numerosi nei dintorni delle savane, specialmente dagli jararacà, serpenti che sfuggono facilmente agli sguardi, avendo la pelle color delle foglie secche e che nondimeno sono forse i piú pericolosi di tutti, essendo i loro morsi senza rimedio.

Fortunatamente pareva che quei pericolosi abitanti dei luoghi umidi mancassero.

Abbondavano invece straordinariamente i volatili, i quali volteggiavano in bande numerose al di sopra delle piante acquatiche ed attorno ai fusti di legno cannone. Oltre agli uccelli di palude si vedevano bellissimi fagiani di fiume, dalle penne screziate e dalle lunghe code, chiamati ciganas, degli stormi di pappagalli chiassosi, verdi gli uni, gialli e rossi gli altri; dei superbi canindé, grossi pappagalli somiglianti alle cacatoes, colle ali turchine ed il petto giallo, e nuvoli di tico-tico, uccelletti che s’avvicinavano alle passere.

Anche qualche truppa di scimmie appariva sulle rive della savana, proveniente dalla foresta. Erano dei cebo barbabianca dal pelame lungo e morbido come la seta, di colore nero e grigio, con una lunga barba candidissima che dava loro l’aspetto di vecchioni.

Le madri seguivano i maschi, portando sulle spalle i piccini, appena però vedevano i filibustieri si affrettavano a darsela a gambe, lasciando ai maschi la cura di proteggere la ritirata.

A mezzodí il Corsaro, vedendo i suoi uomini affranti da quella lunga marcia che durava da dieci ore e quasi senza interruzione, diede il segnale della fermata, accordando un riposo ben guadagnato.

Volendo risparmiare i pochi viveri che avevano portato con loro e che potevano diventare preziosissimi nella grande foresta, si misero subito in cerca di selvaggina e di frutta.

L’amburghese ed il negro s’occuparono degli alberi e furono tanto fortunati da scoprire, poco lontano dalle rive della savana, una bacaba, palma bellissima, che produce dei fiori d’una tinta cremisi, e che incidendola dà una specie di vino; ed una jabuticabeira, albero alto sei o sette metri, dal fogliame verde cupo e che produce delle frutta grosse come i nostri aranci lisci, d’una bella tinta giallo viva e che attorno ad un enorme nocciolo hanno una polpa delicata ed assai saporita.

Carmaux ed il catalano invece s’incaricarono della selvaggina, dovendo provvedere anche al pasto serale.

Avendo osservato che sulle rive della savana non si vedevano che uccelli, difficili ad uccidersi, non possedendo del piombo minuto, decisero di accostarsi alla grande foresta sperando di abbattere qualche kariaku, animali somiglianti ai caprioli, o qualche pecari, specie di cinghiale.

Dopo d’aver detto ai compagni di preparare intanto il fuoco, s’allontanarono con passo celere, sapendo che il Corsaro non avrebbe atteso molto, premendogli troppo di sorprendere Wan Guld e la sua scorta.

In quindici minuti attraversarono i folti cespugli dei legni cannone e dei mucumucú e si trovarono sul margine della foresta vergine in mezzo ad un agglomeramento di grossi cedri, di palmizi d’ogni specie, di cactus spinosi, di grandi helianthus e di splendide salvie fulgens cariche di fiori d’una impareggiabile tinta cremisina.

Il catalano si era arrestato, tendendo gli orecchi per raccogliere qualche rumore, che indicasse la vicinanza di qualche capo di selvaggina, ma un silenzio quasi assoluto regnava sotto quelle fitte volte di verzura.

– Temo che saremo costretti a mettere le mani sulle nostre riserve, – disse, crollando il capo. – Forse ci troviamo nei dominii del giaguaro e la selvaggina già da tempo avrà preso il largo.

– Pare impossibile che in queste selve non si possa trovare almeno un gatto.

– Anzi avete veduto che non mancano: che gattacci però!

– Se incontriamo il giaguaro lo uccideremo.

– Non è cattiva del tutto la carne di quelle fiere, specialmente condita coi cavoli rossi.

– Allora lo uccideremo.

– Ah!… Ah!… – esclamò il catalano, che aveva alzato vivamente il capo. – Credo che uccideremo qualche cosa di meglio.

– Hai veduto un capriolo, catalano del mio cuore?…

– Guardate lassú, non vedete volare un grosso uccello?…

Carmaux alzò gli occhi e vide infatti un uccellaccio nero volare fra i rami e le foglie degli alberi.

– È quello il capriolo che mi prometti?…

– Quello là è un gule-gule. Toh, guardate, eccone un secondo e laggiú se ne vedono degli altri.

– Uccidili con una palla, se sei capace, – disse Carmaux, ironicamente. – E poi non ho fiducia dei tuoi gule-gule.

– Non pretendo di abbatterli; anzi tutt’altro, ma se non lo sapete, vi dirò che ci indicheranno dove troveremo della selvaggina eccellente.

– E quale?…

– Dei cinghiali.

– Ventre di pesce-martello!… Come assaggerei volentieri una costoletta ed un prosciutto di cinghiale!… Spiegami però che cosa c’entrano i tuoi gule-gule con quegli animali.

– Quegli uccelli, che sono dotati d’una vista acutissima, scoprono da lontano i cinghiali e s’affrettano a raggiungerli per empirsi il ventre…

– Di carne di cinghiale!…

– Mai piú, dei vermi, degli scorpioni, delle scolopendre che gli animali scoprono nel sollevare la terra col loro grugno, onde cercare le radici ed i bulbi di cui sono ghiotti.

– Anche le scolopendre divorano?…

– Certo.

– E non muoiono?

– Si dice che i gule-gule siano refrattari all’azione velenosa di quegli insetti.

– Ho capito. Seguiamo i volatili prima che scompaiano e prepariamo i fucili. Toh!… E non ci udranno gli spagnuoli?

– Allora il Corsaro digiuni.

– Tu parli come un libro stampato, catalano mio. Meglio che ci odano e che riempiamo il ventre o ci verranno meno le forze per continuare l’inseguimento.

– Zitto!…

– I cinghiali?…

– Non lo so; qualche animale si avvicina a noi. Non sentite muoversi le foglie dinanzi a noi?

– Sí, odo.

– Aspettiamo e teniamoci pronti a far fuoco.

Yosh cheklamasi:
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30 avgust 2016
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