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Kitobni o'qish: «La plebe, parte III», sahifa 3

Shrift:

Si passò la mano su quella sua leggiadra fronte come per ispazzarne via i torbidi e folli pensieri, e riprese parlando a Don Venanzio:

– L'importante per prima cosa è di ottenere la libertà del suo raccomandato. E ciò tenterò tosto. Fra poco mi recherò a Corte e parlerò a S. M. Quando quel giovane sia libero, voglio vederlo, voglio parlargli e confidenzialmente ed a lungo… E se vi ha luogo, faremo anche le ricerche occorrenti per iscoprire l'esser suo.

Un lieve grattare all'uscio annunziò di nuovo che alcuno domandava d'entrare: al permesso datone dal marchese venne il solito domestico, che annunziò:

– Il cavaliere Massimo d'Azeglio chiede di parlare a V. E.

Don Venanzio s'alzò in tutta fretta.

– Io la lascio in libertà, signor marchese, disse egli premurosamente quando appena Baldissero ebbe dato ordine al domestico d'introdurre il d'Azeglio.

– Caro Don Venanzio; rispose il marchese: Ella è nostro ospite già ci s'intende. Frattanto che io avrò il colloquio con questo signore che s'è fatto annunziare, passi di là da mia nipote Virginia a cui sarà un gran piacere il vederla.

– Quella cara fanciulla! esclamò il vecchio prete con accento di ossequenza affettuosa: per me sarà un favore l'esserne ricevuto.

Il domestico aveva riaperto l'uscio, ed entrava l'alta e simpatica persona di Massimo d'Azeglio.

Don Venanzio s'inchinò profondamente ma senza servilità innanzi al marchese, s'inchinò passando daccanto al nuovo venuto che s'avanzava, ed uscì col domestico che richiuse il battente dell'uscio.

Baldissero, senza abbandonare la poltrona, si volse verso il visitatore e fece col capo un cenno di saluto gentile sì, ma in cui pur tuttavia era una lieve traccia di riserbo, una tinta di autorevolezza da superiore.

Massimo, egli, salutò con quella spigliatezza elegante che gli era naturale, in cui s'accordavano la grazia del gentiluomo e la libertà dell'artista.

– La riverisco signor marchese.

Questi gli accennò la poltrona da cui s'era levato allor'allora Don Venanzio.

– Buon giorno cavaliere. Godo di vederla.

Nessuno dei due offrì all'altro la mano. D'Azeglio sedette e fissando il suo occhio limpido e intelligente sulla nobile figura del marchese, con un sorriso de' più simpatici rispose inchinando leggermente la testa:

– La ringrazio. La mia venuta non la stupisce?

– No; sapevo che Lei era venuto a Torino dopo sì lunga assenza, ed ho avuto la superbia di lusingarmi ch'Ella non avrebbe affatto dimenticato un vecchio amico della sua famiglia.

– Dimenticato, no certo… Sarei venuto ad ogni modo a riverirla; ma pure, se mi vi sono recato così sollecito… Lei sa come uno dei miei pochi pregi è quello d'essere sincero… si è perchè, oltre il piacere di vederla, avevo da chiedere alla sua protezione un favore.

Baldissero tirò indietro la testa fino ad appoggiarla alla spalliera della poltrona, e guardando con occhio urbanamente scrutativo il suo interlocutore, disse:

– Udiamo questo ch'Ella dice favore. Se la è cosa ch'io possa, faccia conto già fin d'ora come se vi avessi assentito.

Massimo tornò ad inchinarsi.

– Come Ella sa, io mi sono fatto artista…

– E letterato: aggiunse il marchese con un sorriso e con un tono che difficilissimo il dire se erano un complimento od una finissima ironia.

– Letterato è un termine troppo ambizioso, che non ardisco adoperare: disse Azeglio con accento e con sorriso pari a quelli del marchese: scarabocchiatore di tele e di carta, sissignore… Basta: l'artista non ha mica escluso in me il cittadino: anzi!.. Ho girato ed abitato varie parti d'Italia; ho imparato a conoscer meglio e ad amare di più la nostra nazione; ma non ho nemmanco cessato o sminuito di amare specialmente questo nostro angolo di terra, il Piemonte. Tornato per poco tempo a questo mio paese natìo, ho ricondotto qui non tanto l'artista, quanto il cittadino… L'ambiente di questo paese, anche dopo l'intelligente protezione data all'arte da Carlo Alberto, è ancora più propizio alle maschie virtù dell'amor patrio che non alle blandizie del culto del bello. Ho pensato di molte cose che mi furono suggerite dalla conoscenza che ho acquistata delle condizioni d'Italia, di molte cose che mi sembra avrebbe a tornare non inutile pel bene e d'Italia e del Piemonte stesso e della nostra monarchia di Savoia, che qualcuno sottomettesse all'apprezzamento del nostro Re, e mi sono detto che questo qualcheduno potrei essere io medesimo. È per ciò che sono venuto a pregarla, marchese, di farmi ottenere un'udienza il più sollecitamente che sia possibile da S. M.

Baldissero stette un momento in silenzio guardando d'Azeglio con quel suo sguardo cortesemente scrutatore, come se cercasse scorgere nell'animo di chi gli aveva parlato, o meditasse seco stesso quali potessero essere le cose che quel nobile fattosi liberale intendeva dire a Carlo Alberto, principe che in giovinezza aveva manifestato velleità liberali ancor egli; ma poi, come ravvisatosi e quasi pentito del piccolo indugio frapposto alla risposta, disse sollecitamente e con urbana condiscendenza:

– La ringrazio d'essersi rivolta a me per codesto. Quest'oggi stesso avrò l'onore di vedere S. M. e non dubito che mi sarà dato di farle una risposta quale Ella desidera.

Massimo fece un cenno del capo che era un ringraziamento; e Baldissero corrispose con un atto della mano che significava: è mio dovere. Stettero un momento in silenzio, come non sapendo qual discorso avviare, e fu il marchese che dopo un poco ricominciò a parlare.

– Conta Ella fermarsi alquanto tempo a Torino?

– Pochissimo. Fra due o tre giorni ripartirò per continuare la mia vita nomade d'artista traverso le città italiane.

– Ella dunque ha perso ogni affezione a questo nostro vivere torinese?

– Amo sempre questa città come il mio luogo natio; e trovo ch'essa potrebbe essere il più gradito soggiorno del mondo.

– Potrebbe essere? ripetè sorridendo il marchese.

– Signor sì: ribattè vivamente d'Azeglio; e non contraddico menomamente la giusta interpretazione che il suo sorriso dà alle mie parole. Potrebbe essere, ma non è tale per molte ragioni che qui non è il caso d'esprimere…

– E sulle quali forse, aggiunse Baldissero, noi non andremmo facilmente d'accordo.

Massimo annuì con un cenno.

– Che cosa vuole? Riprese egli poi. Sono io che mi sono guasto. La vita spigliata e libera che ho intrapresa, mi fa restare disagiato alle stampite di questa grave e severa monotonia regolata. Gli è come un buon pastricciano di campagnuolo che avendo calzato sempre abiti larghi ed alla buona, lo si voglia poi far rinserrare le membra nel vestito stretto e il collo nella cravatta allacciata delle foggie cittadinesche di rispetto.

– Tutto sta, disse il marchese continuando in quella urbanità sorridente e un po' maliziosa: tutto sta a sapere se meritino preferenza i modi del campagnuolo o quelli del cittadino.

– È una questione che si può risolvere sotto varii rispetti: rispose l'Azeglio con un'espressione che significava chiaramente declinar egli ogni volontà di discutere col suo nobile interlocutore. Rapporto a me confesserò che la risoluzione adottata è l'effetto dell'egoismo; mi trovo meglio in un modo che nell'altro… Ma Ella sa bene, soggiunse allegramente, che i Taparelli ne hanno tutti un ramo.

– Quell'originalità d'ingegno e di carattere che Ella battezza così poco rispettosamente, ha fatto di tutti i Taparelli degli uomini superiori che hanno servito con gloria il re ed il paese.

D'Azeglio s'inchinò in segno di riconoscente ringraziamento.

– È una bella consolazione per un uomo di merito l'aver dietro di sè ne' suoi antenati tanti valenti uomini da imitare.

– Ciascuno dà quello che ha. Avrei voluto, vorrei benissimo poter dare in me alla patria un uomo di Stato, un valente guerriero, un abile diplomatico: venga l'occasione e tutto quel poco che so, che sono e che valgo, metterò in servizio del mio paese. Per intanto non ho potuto dar altro ai miei concittadini che un meschino artista ed un meschino scrittore. Mi sono scrutato, come dice la Scrittura, le reni, e non ho trovato in me stoffa da personaggio di vaglia.

– Suo padre l'aveva avviata per la carriera militare: disse vivacemente il marchese abbandonandosi alla piega confidenziale che aveva preso il discorso. È una delle più belle, delle più utili al paese, delle meglio fatte per un nome qual è il suo, per una natura irrequieta…

– Come la mia: aggiunse d'Azeglio sorridendo, mentre Baldissero aveva troncato la parola per non dirlo egli.

– Bene; come la sua: ripetè scherzosamente il marchese. Perchè abbandonarla?..

S'interruppe: prese un'aria più grave, ma in pari tempo più affettuosa, quasi paterna.

– Mi perdoni, soggiunse, l'entrare in siffatti discorsi. Da tempo la mia famiglia è avvinta con vincoli di stima e d'affetto alla sua; i nostri avi combatterono sempre a fianco; di suo padre, il marchese Cesare, fui amico quasi intimo, e mi onoro nel ricordare la reciproca affezione che ci univa. Tutto ciò mi serve, se non di diritto, di scusa per parlarle alquanto paternamente come mi sono lasciato andare a fare. È manìa de' vecchi di far da mentore, a coloro specialmente che hanno veduto fanciulli.

– La prego di non pentirsi di questa sua buona ispirazione: disse con infinita ossequenza e con quella grazia simpatica che gli era particolare, Massimo d'Azeglio: e mi faccia l'onore di continuare nelle sue amorevoli ammonizioni.

– Ebben sia! Perchè lasciare il servizio? In tutte le generazioni le nostre famiglie hanno sempre dato almeno un figliuolo all'esercito.

– E nella mia famiglia per questa generazione toccava a me; non è vero? Roberto, come primogenito, era obbligato alla carriera civile, il povero Enrico è morto, l'altro mio fratello s'è fatto frate… Già: o frati o militari, non c'è scampo per noi nati dopo il primo in nobile famiglia… Ho avuto dunque torto a ribellarmi al decreto dell'uso e della tradizione. Ma badi un po', marchese, se quella vita del soldato colla sua disciplina fastidiosa e col suo ozio forzato era fatta per me! Io non fui mai così cattivo soggetto come a quel tempo: se ho corso pericolo di diventare addirittura un esecrabile cittadino, si fu allora: le mie pazzie facevan le spese delle conversazioni di tutta Torino: ne ho fatte proprio di brutte che ora mi vergogno a ricordare. Se non fosse stato del povero Bidoni che mi ha dato l'amor dello studio, che cosa sarebbe stato di me? Lo studio mi ha salvato. Certo non credo un artista utile al suo paese come un buon magistrato, un buon generale, un buon ministro: ma qualche cosa il suo lavoro produce pur sempre a vantaggio della comune coltura; e ad ogni modo è meno dannoso un mediocre artista che un cattivo e prepotente ufficiale. E di questi, dello stampo ond'ero io quando facevo le mie mattane alla Veneria ed a Torino, temo anzi che la nostra classe ne dia già troppi al paese, che non sa cosa farne.

– Ma Ella non sa vedere via di mezzo – e sopratutto per un uomo della sua classe, della sua educazione e de' suoi talenti! – fra la vita scapata e bizzarra del giovane ufficiale, e quella non guari più seria di forme e assai meno nobile di sostanza dell'artista? Io rispetto il lavoro di tutti. Un artista che dal seno del popolo si innalzi alla sommità della sua arte, è per me una persona degna di ogni maggior rispetto. Ammiro Carlo V che raccoglie a terra il pennello caduto di mano dal Tiziano; ma un discendente di tante generazioni, da tanti secoli illustri per fasti guerreschi e per uffici politici, mi sembra che abbia assai di meglio da fare che dipingere, scolpire, far musica per professione. Per proprio gusto, come spasso, come riposo a più ponderose occupazioni, va benissimo; ma farne sua principal bisogna, concorrere con quelli che lo hanno per mestiere, come gagne pain, oh questa poi… sarà un pregiudizio, e la prego di perdonarne la manifestazione alla mia franchezza..: questa non mi pare la via meglio da seguirsi da un uomo di nobil sangue.

– Vivere del proprio lavoro, disse con qualche vivacità l'Azeglio, ma che cosa v'è in ciò di meno nobile? Le assicuro, marchese, che io non mi vergogno per nulla di ricevere il prezzo d'un quadro che ho fatto. Ciascuno vende l'opera sua a questo mondo: il prete che vive dell'altare, il ministro che intasca lo stipendio, il ciambellano che piglia la paga e il domestico che riceve il suo salario. Quand'ero ufficiale di cavalleria mi pappavo la mia brava mesata ancor io; e se mi pagavano per farmi battere i quarti sulla sella, oh! perchè non mi avranno a pagare per farmi dipingere un quadro?3.

Il marchese sorrise, crollò il capo e battendo colle dita una marcia sul bracciuolo della sua poltrona, esclamò scherzevolmente:

– Ah che testa, che testa!.. Non la si correggerà mai più.

– Lo temo anch'io: disse Massimo col medesimo tono.

– Appunto Ella che è artista: disse Baldissero cambiando discorso per mostrare che di quella discussione non voleva più saperne: che cosa pensa di quest'oggetto d'arte?

Ed additava il gran crocifisso in avorio, appeso al di sopra del camino.

Massimo si alzò in piedi, accostò la sua alta persona alla parete, armò i suoi occhi miopi delle lenti ed esaminò attentamente l'oggetto additatogli.

– Molto bello: diss'egli poi; e sta qui prova con tutto il resto, come V. E. rechi in ogni cosa il più severo e intelligente buon gusto.

– Ah ah! esclamò piacevolmente il marchese: io scopro in lei un difetto che non avrei creduto mai più: quello d'essere adulatore.

– È un difetto che non mi sono mai scoperto neppur io: rispose D'Azeglio. Poi prese congedo: allora il marchese gli porse la mano.

– D'oggi stesso le farò una risposta circa la sua domanda d'udienza da S. M. Dove glie la debbo indirizzare?

Massimo diede il suo indirizzo all'albergo Trombetta e partissi.

Meno di mezz'ora dopo il marchese di Baldissero trovavasi in presenza di S. M. il Re Carlo Alberto, nella reggia ricca e severa di Torino.

CAPITOLO III

Carlo Alberto, seduto innanzi ad una tavola stupendamente intarsiata, col braccio appoggiatovi su dal gomito al pugno richiuso, stava nella sua attitudine abituale di sfinge incompresa e che non vuol lasciarsi comprendere. Non era un infingersi il suo, era un nascondersi: non portava innanzi alla faccia una maschera, ma copriva ogni sua emozione d'un velo di severo e solenne riserbo.

Dell'aspetto morale di quest'uomo storico, quale appariva in que' tempi, ci sia lecito tratteggiare il ritratto colle parole che nei suoi Ricordi ne scrisse Massimo d'Azeglio medesimo.

«Il re in quel tempo, era un mistero; e per quanto la sua condotta posteriore sia stata esplicita, rimarrà forse in parte mistero, anche per la storia. In allora i fatti principali della sua vita, il ventuno ed il trentadue, non erano certo in suo favore; nessuno poteva capire qual nesso potesse esistere nella sua mente fra le grandi idee dell'indipendenza italiana, ed i matrimoni austriaci; fra le tendenze ad un ingrandimento della casa di Savoia, ed il corteggiare i gesuiti, o il tenersi intorno uomini come l'Escarena, Solaro della Margherita, ecc.; fra un apparato di pietà, di penitenza da donnicciuola, e l'altezza di pensieri, la fermezza di carattere che suppongono così arditi progetti.

«Perciò nessuno si fidava di Carlo Alberto.

«Gran danno per un principe nella sua condizione: perchè con queste povere astuzie, affine di mantenersi l'aiuto di due partiti, si termina invece per perder la grazia degli uni e degli altri4

A Carlo Alberto che aveva mirabile il coraggio delle battaglie, che aveva un fermo animo innanzi ad ogni pericolo che minacciasse la sua persona, mancava il coraggio della risolutezza. Da ciò il suo continuo ondeggiare, dipendente non tanto dalla volontà e da un disegno prestabilito, quanto dal temperamento e dall'influsso delle momentanee circostanze. Si avanzava d'un passo da un lato, ma lo aspetto d'una difficoltà lo faceva indietrare poi tosto di due: e le difficoltà che lo attorniavano da ogni parte, morali e materiali, erano infinite e complicate e gravissime. Avrebbero richiesto una forza d'intelletto e di volere e di fibra ben superiore a quella che la natura e la sua vita trascorsa mettevano ora in poter suo. Questa sua che in realtà era debolezza, egli ammantava d'una solennità grave, che pareva profondità di concetto, avvolgeva d'un'atmosfera di silenzio, di dubbie parole e dubbi sorrisi e dubbie reticenze che pareva astuzia di macchiavellismo. Sapeva che una volontà anche non potente, ma soltanto tenace, vicino a lui l'avrebbe dominato; ed aveva quindi per sistema di sfuggire a tal pericolo mettendo sempre a fronte nel suo consiglio due volontà di due partiti opposti; con questo giuoco di bilancia, egli sperava ottenere una specie d'equilibrio per compensazione, in cui libera la sua volontà. Non s'accorgeva ch'egli non riusciva ad ottenere altra indipendenza fuori quella del pendolo elettrico che oscilla continuamente dall'uno all'altro dei due poli di elettricità differente.

Aveva delle velleità da piccolo Carlomagno e da Aroun-al Rascid. Avrebbe voluto veder tutto, saper tutto, conoscer tutto del suo popolo; sarebbe uscito ancor egli la notte, camuffato, come il celebre Califfo di Bagdad, per iscorrere traverso la città a sorprenderne i misteri e rappresentar la parte di Provvidenza interveniente, se avesse avuto il coraggio di violare quella che fu una delle tiranne della sua vita di Re: l'etichetta. L'esser egli Re per grazia di Dio, pensò e ritenne forse più ch'ogni altro mai, e credette avere nella sua persona una dignità direttamente venuta dal cielo, cui doveva prestare ossequio egli primo e farlo prestare dagli altri. Ultimo dei re di medio evo, pensava non dover comparire innanzi al suo popolo che avvolto dai raggi della sua divinità terrena; non si mostrava che nell'apoteosi dell'uniforme, colla corte olimpica del suo stato maggiore.

Ma quello che non poteva vedere per sè, voleva sapere per esatti e moltiplici rapporti d'agenti. Aveva una polizia segreta, tutta sua personale, che camminava parallela e faceva il riscontro a quella dei Ministri. Talvolta questa polizia vi metteva tanto zelo che gli apprendeva anche ciò che non era. Il Re ascoltava cupamente tutte le narrazioni e le denunzie, leggeva da solo tutti i rapporti che gli venivano comunicati, li rinchiudeva in un suo stipo segreto – e non diceva nulla. Ma quali e quante diverse impressioni si avvicendavano in quell'animo sempre chiuso!

Quando il marchese di Baldissero venne ad esporgli i fatti che conosciamo, per conchiuderne, doversi quei giovinotti considerare come imprudenti ed esaltati cervellini e non altro, e quindi non aggravare su di loro la mano severamente punitrice dell'autorità, Carlo Alberto sapeva già tutto; ma pure si guardò bene dall'interrompere il marchese nella sua narrazione, e lo ascoltò immobile, in quell'attitudine di stanco abbandono che gli era abituale, il capo reclinato, il petto curvo, il suo giallognolo pallore sulla faccia incommossa, levando di quando in quando i suoi occhi generalmente miti dallo sguardo velato, per fissarli in volto a chi gli parlava e riabbassarli poi tosto.

Quando Baldissero ebbe finito, successe un istante di silenzio: pareva che il Re andasse cercando le parole che aveva da dire. Poi levò lentamente quella mano che teneva appoggiata alla tavola, se la passò sulla fronte due o tre volte, quindi vi appoggiò su il mento, tenendo il gomito puntato al piano della tavola e parlò colla sua voce bassa, come soffocata, di debole vibrazione, ma non disgradita:

– Ella dunque, signor marchese, è per la clemenza ed il perdono?

Baldissero s'inchinò.

– Ha ragione. Ella sa interpretare appunto i miei sentimenti, e consigliarmi quel partito a cui propendo. E tanto maggior effetto mi fanno le sue parole, in quanto che ho sempre creduto… so… che Ella conta fra coloro… fra quei zelanti difensori del trono che lo vogliono difeso validamente e senza debolezza nessuna contro gli assalti de' suoi nemici.

– Contro veri assalti di veri nemici, Maestà sì: ma questi giovani non mi sembrano tali, e i loro atti non meritano altro titolo che di ragazzate.

Il Re tornò a stare alquanto tempo in silenzio.

– Sono del suo parere, diss'egli poi, ma vi è qualcheduno che pretende esservi qualche cosa di più serio e di più colpevole che non paia, e che Ella non creda, signor marchese. Il vero è che una frotta di giovani si radunava in casa di un certo pittore, e di qual tenore fossero i discorsi che aveano luogo lo provano i libri che si rinvennero presso uno degli arrestati e certo scritto che fu trovato presso un altro…

S'interruppe e volse uno di quegli sguardi che balenavano raramente nelle sue pupille – uno sguardo vivo e scrutatore – sulla faccia del marchese.

– Anzi, soggiunse, Ella, s'io son bene informato, ha presso di sè codesto scritto.

– Sì Maestà.

– E può giudicare adunque meglio di qualunque altro delle tendenze e delle segrete volontà di codestoro.

– Quello scritto è l'opera giovanile di un'intelligenza precoce che ha molte idee e poca esperienza. Gli errori vi sono molti; anzi è tutto un errore, poggiando ogni sua considerazione ed opinione sopra una falsa base primitiva; ma in quelle pagine, a dir vero, non si rivela mai l'empia foga di chi non anela ad altro che mandare a soqquadro la società. Lo scrittore cerca e propugna una modificazione degli ordini esistenti – una modificazione assurda, già s'intende – ma non vuole violenza di rivoluzione… Io pensava, Sire, che queste giovani intelligenze irrequiete, mosse ordinariamente da una ambizione che non è neppur condannevole, si possono agevolmente acquistare alla buona causa mercè qualche benignità e favore; e primo favore oggidì per codestoro è un generoso perdono.

Carlo Alberto guardava innanzi a sè coll'occhio appannato, e pareva immerso in una profonda meditazione.

– I momenti sono molto gravi: diss'egli poi lentamente, con parola quasi mozzicata e voce contenuta; i tempi sembrano preparare chi sa che difficoltà e pericoli. Nelle ombre, sotto lo strato apparentemente tranquillo della società, si agitano passioni parecchie, diverse, ed alcune feroci. L'empia opera contro l'altare ed il trono si va propagando sordamente coll'arte delle congiure e coll'audacia delle ispirazioni diaboliche. Tutte le relazioni che ricevo da ogni parte si accordano a certificare il pericolo. Il nuovo Pontefice solo colla sua clemenza non par egli aver data ansa ai più audaci propositi dei liberali italiani? Di Francia giungono spaventose notizie di cospirazioni, di tendenze sovvertitrici peggiori di quelle del tempo del terrore, cui troppo si teme che la monarchia parlamentare sia debole per contenere e reprimere. In tali epoche di crisi conviene egli esser clementi?..

S'interruppe e tacque un istante, immobile nel suo atteggio, come impietrito, senza volgere pure uno sguardo al suo interlocutore.

– Una modificazione degli ordini esistenti? Riprese egli poi, quasi parlando a se stesso. Quella benedetta gioventù non dubita di nulla. Quale modificazione? Non sono dunque mai soddisfatti questi indiscreti di novatori! Dacchè Dio mi chiamò al trono fu un continuo introdurre di tutte le migliorie possibili in ogni ramo della pubblica azienda. Ma essi vogliono l'impossibile!.. Marchese, Ella mi disse che in quello scritto c'era dell'ingegno e c'erano molte idee.

– Sì, Maestà.

– Non è dunque un tempo sciupato il gettarvi sopra gli occhi?.. Voglio vederlo.

Baldissero s'inchinò in segno di ubbidiente assentimento.

– Esser clemente! continuò il Re con una specie di sospiro: è pure codesto il mio più caro desiderio… Avrei voluto esserlo sempre.

Una nube sembrò passare sulla sua fronte; e la luce del suo sguardo parve offuscarsi maggiormente. Forse pensava alle fatali fucilazioni d'Alessandria.

– Ma un re, soggiunse con alquanto più di vivacità, può essere clemente per tutte le temerità che minacciano la sua persona soltanto, ma quando è il trono che si vuole assalire, quando è la dignità della corona che è offesa, quando in noi è ferita quella sacra istituzione che rappresentiamo: la monarchia; allora è dovere – ah! crudele dovere – in un re l'essere inesorabile.

– Sire: disse il marchese, poichè il Re si fu taciuto; come ho già avuto l'onore di accennare, io continuo a credere che in questo caso…

Carlo Alberto lo interruppe facendo un cenno colla mano che tolse da sostenere il mento e che con lenta mossa ripose, richiusa a pugno, sul piano della tavola.

– Io non parlo di questo caso. Parlo in generale.

Vi fu di nuovo una pausa di pochi minuti secondi.

– Sa Ella, marchese, ripigliò a dire il Re schiudendo le pallide labbra ad un pallido sorriso; sa Ella che poc'anzi il conte Della *** propugnava qui la causa precisamente contraria a quella da Lei sostenuta? Egli vuole la severità.

– A V. M. l'apprezzare quale delle due cause sia più degna di Lei.

Carlo Alberto estinse ad un tratto quel lieve sorriso che gli aleggiava sulle labbra, chinò il capo e si tacque.

– Il conte Della ***, continuò il marchese, ha egli prove maggiori di quelle ch'io conosca della colpevolezza pericolosa di que' giovani?

– Ha delle presunzioni… che hanno un certo valore… Una prova però sarebbe quella che sotto nome finto e sotto le spoglie d'un artista di canto avesse strettissime attinenze con quei giovani un tal emigrato romano, ribelle alla Santa Sede, audacissimo rivoluzionario.

– Ma la cosa mi pare quasi affatto esclusa. Il conte San-Luca ha affermato a suo zio Barranchi che questo tale è precisamente quel che si spaccia e non altro.

– Venne ad affermarlo anche il duca di Lucca.

Le labbra del Re tornarono a stirarsi in quel cotale fugace e leggiero sorriso.

– Ma egli è una testa così sventata!

Quel sorriso scomparve, come quell'altra volta, di botto.

– Fra quei giovani, soggiunse con una serietà quasi cupa, ve ne son due che commisero reati precisi e non lievi. L'uno ier sera al ballo dell'Accademia, noi presenti, oltraggiò un impiegato di Corte, il figliuolo d'un alto dignitario dello Stato; l'altro, questa mattina, si ribellò agli agenti della forza pubblica.

– Sire: disse con fermo accento il marchese: il primo fu aspramente provocato, e se in lui si vuol proseguire la colpa, conviene che anche il suo provocatore sia soggetto al medesimo trattamento.

– Ma questo a cui Ella allude, è suo figlio, marchese.

– Sì, Maestà.

– Va bene: disse allora il Re ponendo lentamente la sua mano sulla destra del marchese. Sarà perdonato a tuttidue… Ma e quell'altro che fece resistenza alla forza pubblica?

– Quegli agenti non erano in montura; la colpa di quel giovane sconsigliato mi sembra abbia da giudicarsi perciò molto minore.

Carlo Alberto si alzò e il marchese fu sollecito a levarsi ancor esso.

– Il conte Della *** andrà in collera: disse il Re facendo ancora una volta quel suo sorriso; ma io do ragione alla causa della clemenza propugnata così bene.

– La causa della clemenza, disse il marchese, non ha bisogno d'essere propugnata da nessuno innanzi alla Maestà Vostra. Le parla abbastanza l'anima sua.

Carlo Alberto non rispose.

– Ah! diss'egli poi, una condizione marchese.

– Comandi, Maestà.

– Quel giovane avvocato ebbe una contesa con persona che molto presso a Lei appartiene. Desidero (e pesò su questa parola) che siffatta contesa si ritenga come assolutamente terminata e non abbia conseguenza di sorta.

– Sire; ogni menomo suo desiderio è un ordine a cui i Baldissero saranno sempre lieti di obbedire.

– Sta bene: disse il Re con inesprimibile grazia d'accento e di guardatura.

Poi chinò lievemente la testa in una specie di saluto.

– Attendo quel manoscritto, marchese: soggiunse come per ultime parole di commiato.

Ma Baldissero pur facendo un profondo inchino, non accennò partire.

– Supplico ancora un istante d'udienza da V. M. È un'altra grazia che ho da domandarle.

– Quale? Interrogò Carlo Alberto atteggiandosi a quella mossa naturalmente dignitosa, che dava tanta imponenza alla sua persona.

– Il cavaliere d'Azeglio chiede di essere ricevuto da V. M.

– Ah! Massimo? domandò il Re con qualche maggiore interesse di quello che mostrasse ordinariamente.

– Sì Maestà.

Carlo Alberto, come sempre, indugiò alquanto a dare la risposta. Il suo sguardo incerto pareva andar vagando traverso i cristalli tersissimi della finestra sulla sottoposta Piazza Reale, in cui erano soltanto i lavoratori che spazzavano la neve, e più in là nella vasta Piazza Castello dove rarissimi e frettolosi i passeggieri sotto al lento fioccare della neve che continuava.

– Può dire al cav. D'Azeglio, disse poi, come per determinazione subitamente presa, che lo riceverò domani mattina alle sei.

Era quella l'ora solita in cui Carlo Alberto usava dare le udienze confidenziali.

Il marchese ripetè il suo profondo inchino e partissi. Mezz'ora dopo un bigliettino recato dal lacchè del marchese all'albergo Trombetta avvisava Massimo d'Azeglio dell'ottenutogli favore.

In pari tempo un altro domestico si affrettava verso l'officina Benda con un'altra letterina scritta dalla contessina Virginia a Maria la sorella di Francesco.

Il marchese, appena rientrato nel suo palazzo, erasi recato egli stesso nelle stanze della nipote, dove stava ancora il buon Don Venanzio, il quale aveva per la nobile fanciulla, più che simpatia, stima, ammirazione ed affetto grandissimi.

– Caro Don Venanzio, aveva egli detto al vecchio parroco, fra poche ore Ella potrà abbracciare il suo raccomandato. Virginia, puoi mandar detto alla tua compagna di collegio che di quest'oggi stesso le sarà restituito suo fratello. Il Re volle tutto perdonare.

– E Dio benedica il Re! esclamò il sacerdote con voce commossa.

– Una buona novella non giunge mai troppo presto: disse madamigella Virginia alla quale il piacere provato dall'annunzio datole dallo zio aveva lievemente arrossato le guancie e fatto brillare lo sguardo; chiedo adunque licenza di scriver subito la lieta notizia a madamigella Benda.

– Hai ragione: disse paternamente sorridendo il marchese. Lasciamola fare, Don Venanzio; e s'Ella desidera veder presto il suo protetto, io la indirizzerò al Comandante perchè le contenti questo suo desiderio. Chi sa che l'ordine di rimettere in libertà quel giovane non sia già venuto, ed Ella non possa condurselo seco fuori del Palazzo Madama!

3.Espressione testuale dell'Azeglio.
4.Massimo d'Azeglio: I miei ricordi, vol. II, pagine 457-58.
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30 iyun 2017
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