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Kitobni o'qish: «La plebe, parte III», sahifa 22

Shrift:

– E che vuol dire codesto? cominciò di poi con tono beffardo Ettore fissando il suo sguardo investigatore sulle palpebre abbassate di Virginia; mentre altri ti crederebbe trasportata dal capogiro del valtz, tu sei qui tranquillamente, lontana dal rumore, a…

Si arrestò; Virginia che sentiva lo sguardo di Ettore sopra di sè, levò le ciglia e fissò in volto il cugino coi suoi grandi occhi limpidi, sicuri, superbamente sereni; egli riprese:

– A discorrere tranquillamente col signore.

L'accento con cui fu pronunciata la parola «signore», il moto leggiero del capo per cui Ettore accennò Francesco erano così pieni di disprezzo che Benda se ne sentì fremere il sangue.

– Affè, continuava col tono medesimo il marchesino, che questo è proprio un perdere il tempo.

Il giovane borghese fece un piccolo passo innanzi e parve sul punto di parlare; Virginia s'intromise, ricorrendo al mezzo medesimo che aveva usato poc'anzi, quello di condur via suo cugino.

– Stavo appunto per ritornare nelle sale da ballo, diss'ella; e tu sei venuto a tempo per darmi il tuo braccio.

Ettore s'inchinò con una certa ironia nella sua gentilezza e rispose con uguale accento:

– Sono assai lieto d'essere arrivato opportuno.

E porse galantemente il braccio a Virginia.

Francesco sentiva che qualche cosa gli conveniva pur dire, provava come un'offesa al suo decoro il lasciar partire senza una protesta l'impertinenza di quell'orgoglioso. Si avanzò ancora d'un altro passo, e disse anch'egli con quello stesso accento con cui lo aveva detto il marchesino:

– Signore…

Ettore si fermò di botto, e volgendo appena la testa dalla parte dov'era Francesco, gli mandò di sopra la spalla uno sguardo di sprezzante alterigia.

– Gli è a me che il signore intenderebbe parlare?

Benda arrossì di sdegno fino alla fronte.

– A Lei, disse asciuttamente.. Certo la mia pretesa è grande. Ella nel migliore degli abboccamenti i più importanti è solita farsi interrompere anche dall'intervento dell'autorità.

Fu la volta del marchesino di arrossire.

– Ah signore. Ella mi dà un merito che ben sa ch'io non ho: la è semplicemente una calunnia la sua…

– Signore!..

– E per avere il favore d'un abboccamento con Lei io sono pronto ad accordarle qualunque ora le piaccia, e in qual luogo a sua scelta, dove non sia più possibile interruzione di sorta.

– La prendo in parola: disse Benda inchinandosi: e mi pare che per la scelta dell'ora e del luogo potremo riferirci di bel nuovo ai consigli dei medesimi amici rispettivi.

– Ha ragione.

– Dove i miei potranno adunque trovare i suoi?

– Domani verso mezzo giorno al whist-club.

– Sta' bene.

Si fecero un freddo saluto, e il marchese uscì dal gabinetto con Virginia.

– Tu conti batterti? diss'ella poscia a suo cugino.

– Parbleu!

– Perchè disubbidire così a tuo padre?

– Perchè decisivamente quel signorino mi dà sui nervi.

– Non è ragione sufficiente per voler attentare alla sua vita.

– Olà! quel cotale t'interessa adunque?

Virginia non chinò il suo sguardo innanzi a quello di Ettore, e rispose francamente:

– Sì.

– Ragione di più per lui couper les oreilles: disse con vivo dispetto il marchesino.

– Ettore, aggiunse la fanciulla con accento solenne, se alcun male per tuo fatto ha da affliggere quella famiglia, io non te lo perdonerò mai.

E come erano giunti ad una delle sale da ballo, Virginia tolse il suo dal braccio del cugino ed andò a raggiungere la sua amica la baronessa, lasciando lui in asso, stupito, quasi sbalordito, più irritato che mai.

Francesco intanto, rimasto solo, era in preda ancor egli ad un vivissimo sdegno che quasi poteva dirsi furore. Aveva desiderato, l'ostacolo fra sè e Virginia, rappresentato dall'oltraggiosa impertinenza del marchesino, schiacciare e distrurre; ed ecco che l'occasione veniva a porgersene alla sua collera accresciuta.

– Oh! l'ucciderò quel prepotente villano: diceva egli fra sè con una tempesta d'ira feroce nella mite anima sua. E siccome il suo istinto d'amante lo aveva avvertito che nell'odio di Ettore per lui e di lui per Ettore c'era eziandio la rivalità in amore, egli soggiunse con amaro sorriso: almeno quel superbo di certo non sarà a farla sua!

Ricordò a questo punto le preziose parole con cui essa erasi impegnata a non essere di nessuno mai, e tornò di botto nel suo animo il dolce influsso della tenerezza. Ah! non ella mancato avrebbe mai alla solenne, non chiesta, da lei liberamente accordata promessa. Francesco poteva portar seco quella certezza per tutta la vita, anco nella tomba. Qui ad un tratto gli sorse innanzi al pensiero, con un mesto ma affascinante sorriso, l'immagine della morte. S'egli fosse stato a soccombere, s'egli disceso nel regno delle ombre, come ne avrebbe caramente custodita la memoria nel suo cuore la generosa fanciulla! Più vivamente ancora, senza più riserve, più compiutamente l'avrebbe amato quell'anima nobilissima. Il ricordo di lui morto avrebbe riconfermata ad ogni tratto in lei la data promessa, sarebbe stato ostacolo insuperabile affatto ad ogni altro che tentasse penetrarle nel cuore; e se invece foss'egli l'uccisore e non l'ucciso, che cosa poteva sperare di bene? La morte del cugino al contrario di abbattere la barriera fra lui e l'amor suo, l'avrebbe fatta maggiore: come sperare che il marchese consentisse a mettere la mano della nipote in quella lorda del sangue di suo figlio? Come credere che Virginia medesima vorrebbe ciò fare?

Una morbosa, ma vivace voglia di morire stranamente lo assalse. Aveva provato una gioia di paradiso nello apprendere di essere amato; ma disgiunto senza rimedio da lei, non aveva egli poi da sopportare nella vita delle pene d'inferno? Essere pianto da quella fanciulla divina non era egli una gioia ineffabile? Vivere poi nell'anima di lei non doveva essere un paradiso? Lo sconsigliato nel calore della sua passione dimenticò per quell'istante la sua famiglia, perfino le lacrime di sua madre: decise morire.

S'era gettato di nuovo sul sofà ed aveva nascosto la faccia tra le palme, ed ecco presso a lui di nuovo il fruscio gentile d'una veste di donna, intorno a lui il profumo delicato che rivela la presenza d'una signora elegante: levò la testa in sussulto e guardò con una folle speranza: non era più l'angelo dell'amor suo, era la contessa di Staffarda.

– La disturbo, disse Candida con un sorriso forzato sotto cui cercava nascondere la preoccupazione e l'inquietudine che apparivano nelle sue sembianze. Ho creduto che dormisse.

– No: rispose Francesco impacciato, il quale non sapeva che cosa dire.

La contessa sedette sopra una poltrona in faccia a lui e giuocando col ventaglio, per darsi un'aria di leggerezza e d'indifferenza che non aveva, soggiunse:

– Se non la dormiva, certo sognava, e non dovevano essere lieti sogni i suoi, se io giudico dall'espressione del suo volto.

Benda compose la sua faccia ed il suo contegno.

– No, non eran sogni, diss'egli con una giocosità melanconica: i sogni sono di cose impossibili, immaginarie; il mio pensiero si trovava alle prese colla più spiccata realtà.

– Molte volte meglio la realtà anche brutta che una sciagura immaginata, temuta: disse la contessa con una specie di foga. I nostri dubbi, i nostri sospetti ci sono più crudi tormentatori che la fierezza medesima del destino.

Francesco s'inchinò senza rispondere.

Candida riprese dopo una piccola pausa:

– Mi dirà Ella indiscreta se io le confesso di sentire interesse per Lei?

– Oh signora contessa! esclamò il giovane inchinandosi di nuovo.

Ella si acconciò con mano sbadata le pieghe della gonna, si aggiustò gli smanigli alle braccia, e sorridendo non senza un po' di studio, continuò con un'ombra d'imbarazzo dissimulato dalla sciolta eleganza di modi e di parola appresa coll'abitudine nell'ambiente artifiziato della società sfarzosa.

– Ci sono certe avventure per cui noi donne ci dobbiamo sentire a forza interessate… La sua è del novero… Quando troviamo nella volgarità attuale di sentimenti qualche raggio di poesia, oggidì che siamo affogati da tanta prosa, noi ne restiamo tocche: i nostri voti sono per la fronte illuminata da questo raggio… Nella vicenda che a Lei è capitata noi donne, amiche del romanzo nell'arida storia della vita, abbiamo travisto, indovinato quel più bello ed elevato sentimento che è fonte d'ogni poesia…

Francesco fece un movimento.

– Ah! non creda che qui una vana curiosità venga a sollecitare una confidenza che non si merita: soggiunse affrettatamente la contessa. Tutt'al più è una manifestazione di simpatia… una manifestazione strana se vuole, ma sincera… O mio Dio! Noi non ragioniamo tanto su queste cose; agiamo d'istinto, per subita impulsione dell'animo, e quando troviamo un nobile affetto, una generosa devozione, un dignitoso carattere, ci piace venirgli a stringere la mano.

E ciò dicendo tese la sua destra al giovane meravigliato e confuso.

Francesco strinse quella mano con atto di rispetto e di riconoscenza; non sapeva spiegarsi le ragioni di tanto interessamento per lui in quella signora colla quale per l'addietro erano state superficialissime le sue attinenze; l'attribuiva alla pietosa natura del cuore di lei, e n'era commosso; la contessa continuando riusciva finalmente a quel punto che era stato lo scopo della sua finissima diplomazia femminile.

– So bene ch'Ella non ha bisogno dei contrassegni di simpatia degl'indifferenti… Ha molti amici, degli affezionati e devoti amici, onde può avere ogni conforto… E per esser sincera, gli è appunto a quanto ho udito di Lei da uno di questi suoi amici ch'Ella deve accagionare in gran parte questo mio indiscreto passo.

– Uno de' miei amici? domandò Francesco il quale, pensando alla schiera de' suoi antichi condiscepoli d'università, non sapeva capire in qual modo fra di essi alcuno avesse avuto attinenza colla contessa di Staffarda.

– Sì signore, disse Candida; guardando attentamente le pitture miniate sul suo ricco ventaglio; il dottor Quercia.

– Ah! esclamò Benda con un'espressione che fece lievemente arrossire la contessa. Francesco, che vide quel rossore, ebbe rincrescimento e rimorso d'averlo provocato; essa era venuta con tanta simpatia verso di lui, ed egli aveva da corrisponderle con malizioso riserbo? Affine di rimediare alla crudeltà di quella esclamazione sfuggitagli, egli s'affrettò a soggiungere: – sì Quercia è mio amico; gli ho chiesta ieri una prova appunto di amicizia a cui egli non si rifiutò, e sto per chiedergliene un'altra domani… o per dir meglio oggi stesso.

Una subita e viva soddisfazione si dipinse nel volto di Candida, che di presente dimenticò ogni diplomatica finzione ed ogni femminile cautela.

– Ella deve dunque vederlo prossimamente? domandò con piglio vivace.

– Nella mattinata di questo giorno che è già incominciato.

– Ah!

Questa esclamazione significava di molte cose, un desiderio che non osava manifestarsi, una volontà combattuta, e un'ansietà insieme che non si riusciva compiutamente a frenare.

Francesco guardò la contessa che teneva gli occhi bassi, e tormentava fra le mani agitate l'innocente avorio del suo ventaglio; ed ebbe compassione del turbamento di quella infelice.

– Certo, diss'egli, se alcuno avesse un'ambasciata da mandare al dottore, io prima di qualunque altro che si trovi qui glie la potrei comunicare.

Candida arrossì nel vedersi così bene indovinata, ma nello stesso tempo ringraziò il giovane con uno sguardo pieno di riconoscenza.

– Sarebbe forse un abusare… balbettò ella esitando, con un immenso desiderio, quasi una preghiera di venir contraddetta.

– Niente affatto, s'affrettò a dichiarare Francesco.

La contessa proruppe con una risoluzione quasi concitata:

– Ella può rendermi un servizio importantissimo di cui le sarò grata eternamente.

– Parli… Le prometto di obbedire.

– Mi faccia il favore di vedere se qui non viene alcuno.

Benda si alzò e si pose frammezzo alle cortine dell'uscio.

– Stia lì un istante, la prego.

– Non mi muovo.

La contessa strappò un fogliolino dal piccolo taccuino che doveva servirle a notare le danze impegnate, vi tracciò su in fretta col toccalapis poche parole, ripiegò la carta, e per chiuderla, non ci avendo altro modo, vi appuntò una spilla; poi s'alzò e venne presso Francesco.

– Questa cartolina, disse, dovrebb'essere consegnata al dottore domattina almeno prima delle dieci.

– Ci conti su: rispose il giovane.

Candida sporse alquanto la mano che teneva fra due dita il foglietto, ma a mezzo dell'atto apparve una certa esitazione nella mossa. Benda credette vederci l'indizio d'un timore e d'un sospetto, e s'affrettò a soggiungere:

– Spero non aver bisogno di giurarle che quella spilla sarà più sacra per me di qualunque suggello…

– La credo: interruppe vivamente la contessa, mettendo il bigliettino nelle mani di lui, e un po' confusa di vedere sì giustamente interpretata la sua esitazione. Se così non fosse, sarei io venuta di questa guisa da Lei?

Francesco prese la carta, e la ripose in un suo portafogli.

La contessa tornò a stringergli la mano con una forza nervosa, con un'emozione quasi febbrile.

– Grazie: diss'ella. Quando io possa alcuna cosa per Lei, non vorrà dimenticare, la prego, di avere in me un'amica.

E mentre il giovane s'inchinava in segno di ringraziamento, ella scivolò via sollecita, come desiderosa di non essere colta in quel colloquio e timorosa che ciò fosse.

Per tornare nelle sale da ballo, Candida dovette passare in quella da giuoco dove suo marito perdeva colla sua solita indifferenza, malignamente scherzando secondo l'usato. Il conte Langosco sollevò dalle carte che teneva in mano le sue floscie palpebre e dal cerchio livido che contornava i suoi occhi lanciò sulla moglie uno sguardo vivido come quello d'un serpente.

– Gli è di me che cercate, contessa? domandò egli con quel suo tono di galanteria che costeggiava l'ironica beffa.

– No, rispose asciuttamente Candida; cerco un po' di fresco…

E il marito con quel medesimo accento:

– Ah! il signor fresco è ben fortunato.

– E siccome non lo trovo nè anco qui, penso tornarmene nel salone.

S'allontanò. Suo marito la seguì collo sguardo finchè la fu uscita della stanza. Una nube di sospetto sedeva sulla sua fronte calva, un più maligno cachinno piegava gli angoli della sua bocca sottile e sdegnosa.

Ed ecco quel che era intravvenuto fra il conte e la contessa di Staffarda, che era stato cagione del passo fatto da quest'ultima presso Francesco Benda.

Candida era nella sua stanza della teletta, in faccia al grande specchio del suo armadio entro cui si rifletteva la luce d'una dozzina di candele accese, e dava un'ultima guardata all'avvenente eleganza della sua acconciatura. Un lacchè era già venuto ad avvisare che la carrozza aspettava sotto il portone; la cameriera stava già lì colla pelliccia in mano per metterla sulle spalle nude della padrona, quando l'uscio si aprì discretamente ed un passo d'uomo, ammortato dallo spesso e morbido tappeto, s'inoltrò nella camera. La contessa si volse e vide non senza qualche stupore suo marito, il quale non soleva invadere colla sua persona quel santuario dei misteri della toilette. Lo guardò essa stupita, e non potè a meno di domandargli:

– Che cosa c'è, conte?

– Nulla: rispos'egli con quella sua gentilezza cortigianesca. Invece che aspettarvi nel salotto ho voluto venirvi a prendere fin qui.

– Son pronta. Andiamo pure: disse Candida, e volgendo le sue belle spalle alla cameriera, fe' segno le mettesse su la pelliccia.

– Un momento: s'intromise il conte arrestando con una mano l'atto della fante. Lasciate prima, contessa, ch'io vi ammiri alquanto nel buon gusto della vostra assettatura.

Candida crollò leggermente le spalle e fece una smorfietta piena di vezzo.

– Ebbene, che cosa ne dite? domandò ella con tono che voleva dire: finitela ed andiamo.

– Ammirabile: rispose il conte Amedeo, che faceva scorrere il suo occhialino scrutatore su tutte le parti del muliebre abbigliamento; sempre una perfezione secondo il vostro solito, ma… se mi permettete una critica…

– Dite pure.

– Troppa semplicità… È quasi una toilette di ragazza. Perchè non avete messo i vostri diamanti?

La contessa fu scossa da un lieve sussulto: ebbe paura di arrossire, e si volse in là fingendo specchiarsi.

– Oh! diss'ella aggiustandosi in capo un fiore, che non aveva bisogno alcuno d'essere tocco: un ballo privato in casa d'un'amica…

– Ragione di più. Sono queste occasioni in cui meglio che altra volta voi altre donne fate gara di sfarzo e di eleganza… L'ho sentito dire da voi medesima ripetutamente… Se non tutti, potevate almeno metterne una parte… E ma foi, ci avete ancora tempo: è l'affare d'un minuto, e nè voi, nè io non abbiamo la gran premura di arrivarci a quel ballo piuttosto mezz'ora prima che dopo.

Questa insistenza del marito fece nascere un'ombra di timore nell'anima di Candida. Avrebb'egli qualche sentore di ciò che era avvenuto? Oh! impossibile, ma pure… Guardò il conte con un'aria scrutatrice e nello stesso tempo imbarazzata e peritosa. Amedeo Filiberto notò quest'espressione: di sospetti egli non ce ne aveva nessuno, e se allora egli era venuto a parlare dei diamanti, la ragione altra non era fuor questa, che a lui pure, impicciatissimo in debiti da soddisfare, aveva balenato l'idea di cercare un aiuto nel considerevole valore dei diamanti di sua moglie; ma ora il contegno di quest'essa gli fece nascere dei dubbi incerti, e cui ebbe di subito un gran desiderio di appurare.

– Siamo intesi, continuò egli; date la chiave dello scrigno alla cameriera perchè li vada a prendere… Prendili tutti, soggiunse parlando alla fante; sceglieremo qui quali da mettersi stassera.

La cameriera depose la pelliccia che aveva in mano e fece una mossa verso la contessa per riceverne la chiave.

– No: disse vivamente Candida: è inutile, stassera non li metterò… non mi piace… non voglio.

Amedeo Filiberto guardò ben bene la moglie.

– Bene! disse: non li metterete, ma ho piacere tuttavia di guardarli.

– Perchè? Li avete visti ieri sera che ne ho messa una gran parte al ballo dell'Accademia.

– Giusto. Mi parve che la montatura ne fosse un po' antiquata e che occorrerebbe rifarla – Poichè ora ciò mi è venuto in mente, lasciate un po' che esaminiamo insieme…

Candida fece un forzato sorriso. Le parole del conte le avevano suggerito uno spediente da uscir d'imbarazzo.

– Vedete come andiamo d'accordo, disse; era quello precisamente anche il mio avviso, e li ho mandati oggi stesso dal gioielliere a farli ripulire e rimontare.

– Ah! esclamò Amedeo guardandola sempre a quel modo. Non avete forse scelto per ciò il tempo più opportuno. Lunedì c'è ballo a Corte, e convien bene che abbiate i vostri diamanti.

– Oh li avrò: interruppe vivamente la moglie: me lo ha promesso.

– Uhm! In così poco tempo, come potrà fare un lavoro ammodo? Sono cose codeste per cui conviene aspettare la quaresima… ed è appunto per la quaresima ch'io veniva a domandarvi di affidarmeli per… per restituirveli poi più brillanti di prima.

– Avete ragione: disse Candida col tono di chi vuol conchiudere il discorso: li manderò a riprendere… per lunedì li avrò senza fallo.

– Passerò io stesso dal gioielliere domattina… Gli è ben sempre X?

– Sì… ma non occorre che vi disturbiate…

– Non è un disturbo… Figuratevi!

La contrarietà più viva e la inquietudine si dipinsero nel volto della contessa.

– Non datevi altro pensiero di ciò: soggiunse colla sua beffarda galanteria il conte Amedeo; e poichè non c'è più nulla da fare nè da dire per la vostra toilette, avviamoci dalla baronessa.

Prese egli medesimo la pelliccia che la cameriera aveva deposto sopra il sofà e la pose sulle spalle della moglie, cui fece uscir prima della stanza e dell'appartamento.

Lungo la strada marito e moglie non iscambiarono una parola, ma pensavano tuttedue e profondamente intorno al medesimo soggetto.

Dalle parole e dalle sembianze della moglie era apparso cosa certa al conte che in quell'affare dei diamanti c'era un mistero, ed egli aveva troppo interesse a penetrarlo per non provare una curiosità indomabile: si riprometteva di andare il domattina per tempo dal gioielliere X ad interrogarlo. Candida capiva da parte sua con isgomento che il marito aveva dei sospetti, e che non trovando poi dall'orafo indicato i gioielli, questi sospetti sarebbero andati molto presso alla verità cui poscia egli avrebbe voluto conoscere ad ogni costo. Come rimediarci? Essa non sapeva; la sua testa era confusa e invano cercava nel suo cervello un plausibil mezzo. Questo solo le si affacciò: ricorrere a Luigi, dirgli la cosa, e fare ch'egli provvedesse. Ma in qual maniera avvertire il suo amante? Di quella notte era impossibile; egli non doveva venire a quella festa; scrivergli la non poteva più; e il domattina doveva ella avventurarsi a mandargli una lettera? Il marito non poteva forse farla spiare? E della cameriera la si fidava assai poco; e non amava inviarla da lui, già ne sappiamo il perchè. Conveniva che ella stessa avesse un abboccamento con Luigi prima che il conte potesse recarsi dal gioielliere; il conte certo era che non si sarebbe alzato prima delle undici e non uscito prima di mezzogiorno; v'era dunque tutta la mattina di tempo. Ma poteva ella recarsi alla dimora di lui? Mai più: era un'imprudenza di cui egli medesimo l'avrebbe rimproverata. Oh! s'ella avesse potuto farlo avvertito in alcun modo di trovarsi ad un'ora acconcia nella rimota palazzina, solito asilo dei loro amorosi convegni!

Giunse alla festa da ballo che non aveva ancora un'idea precisa del da farsi ed era più perplessa che mai. La vista di Francesco Benda fu per lei un raggio d'ispirazione. Che quel giovane fosse amico di Luigi, glie n'era stato prova quel giorno medesimo l'interesse preso da quest'ultimo alla cattura del primo e il biglietto che a lei medesima aveva scritto in proposito; quanto stimabile ed onorevole per carattere e lealtà fosse il Benda era conosciuto nella società ed ammesso anche dalla malignità della gente. A chi poteva ella meglio affidarsi che a lui? D'altronde il tempo stringeva e per quanto affaticasse la sua mente, Candida non sapeva scorgere altro mezzo di sorta di cui servirsi.

Quando ebbe consegnata, come abbiam visto, a Francesco la cartolina per Quercia, in cui gli assegnava un ritrovo per le undici del mattino, la contessa Langesco, ricomparve più calma e più allegra a brillare in mezzo alla festa.

Yosh cheklamasi:
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Litresda chiqarilgan sana:
30 iyun 2017
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